“Finché si credeva al Diavolo, tutto quel che accadeva era intelligibile e chiaro…”
(Emil Cioran)
Discutere del nostro rapporto con la tecnologia comporta problemi complessi, in cui si intrecciano questioni pragmatiche, di mera utilità, con altre di natura etica e persino metafisica. In altre parole, data l’estrema problematicità della natura umana e dei suoi bisogni, risulta sempre più complicato stabilire in che misura lo sviluppo tecnologico ci giovi o ci danneggi. Non v’è dubbio, ad esempio, che la Rete abbia portato vantaggi pratici negli scambi, nelle comunicazioni, nell’aver messo a disposizione degli utenti una quantità di dati e di servizi che era un tempo inimmaginabile ma è oggi immediatamente accessibile a tutti.
D’altro canto, è evidente che la Rete è ormai una droga legalizzata, sorta di sostanza stupefacente gratuita e diffusa in ogni angolo del globo. È il nostro comune oppio, un eterico ed eclettico assenzio in grado di sedare, stimolare, stordire, allucinare. Ci introduce in un mondo irreale e parallelo, induce sporadiche trance, crea sottili ma potenti dipendenze, altera e compromette in varia misura i processi fisiologici del cervello. Gli aspetti tossici della Rete sono ben noti ai suoi spacciatori, ma vengono in genere rimossi dalla coscienza dei consumatori. Perciò, ancora si esita a imporle il marchio infamante della droga, o lo si fa in modo metaforico, senza una reale cognizione della sua pericolosità per il cervello. Infatti, a differenza delle classiche tossicodipendenze, la Rete non produce sintomi così immediatamente e brutalmente palesi. Inoltre, mentre gli eroinomani o i cocainomani sono un’esigua minoranza, i ‘retomani’ sono miliardi. Dunque la loro dipendenza non appare un’eccezione patologica ma la normalità.
Sappiamo che chiunque si droghi è avvinto con tenaci legami alla sostanza di cui è schiavo, e che non solo gli è quasi impossibile liberarsene ma, di solito, non lo desidera. Il retomane, da parte sua, non trova una ragione per disintossicarsi, dato che neppure sospetta d’esser drogato. La Rete è per lui uno svago innocente, una risorsa culturale, un inesauribile canale di informazione, un piacevole luogo di incontro, un utile strumento di lavoro etc. Benché possa trovare inopportuni e censurabili alcuni contenuti, non vede nulla in questo immenso e versatile contenitore, in questo straordinario dispositivo multifunzionale, che gli evochi scenari tossicomani. È per lui solo un immenso cilindro magico cui attingere secondo le proprie esigenze e i propri gusti. È vero che astenersene gli provoca crisi penose, ma l’offerta di tale droga è talmente capillare e a buon mercato che è raro ne resti sprovvisto e provi i sintomi dell’astinenza.
È difficile dare del fenomeno un giudizio obiettivo, perché dovremmo prendere il vasto e ramificato sistema di interazioni tra l’uomo e la Rete e riferirlo a un fondamento vincolante di significati e di valori. Ma v’è ormai l’attitudine a percepire la Rete stessa come un universo totalizzante, fondamento di valori e significati. Ciò la rende una trascendenza di fatto non giudicabile perché essa stessa determina gli strumenti e le modalità del giudizio. Nella sua autoreferenzialità, si giudica da sé e, anche quando sembra condannarsi, si autoassolve. È lei a suggerirci le parole, a offrirci i concetti con cui stimolare finte auto-critiche e false forme di auto-coscienza. Quando denunciamo i pericoli che la Rete comporta per la nostra libertà, lo facciamo quindi seguendo le implicite categorie etiche e intellettuali che lei stessa ci costringe a utilizzare. L’unico modo per revocare l’autorità di un linguaggio è non utilizzarlo. Ma questo ci ridurrebbe al silenzio, perché la Rete ha ormai il monopolio linguistico. Lei stessa è un metalinguaggio che incorpora e assimila tutti i linguaggi, anche quelli che la contraddicono.
Vorrei evitare il classico luogo comune secondo cui la Rete sarebbe solo un mezzo, e perciò tutto “dipende dall’uso che se ne fa”. Questa idea ne presuppone un’altra, cioè che il senso del mezzo prescinda dalla sua funzione rispetto a un fine, il che è palesemente assurdo. È vero che si può usare un esplosivo per scopi civili, pacifici, o con intenti militari e omicidi. Ma il fine dell’esplosivo è comunque il distruggere. Ogni mezzo è coerente con la propria natura, indipendentemente dall’uso che uno ne fa. Inoltre, quanto più dipendiamo dal mezzo e lo sentiamo necessario, tanto più ne diventiamo schiavi. L’uomo comincia con l’usare una cosa e finisce con l’esserne usato. È così che la Rete, mentre ci offre i suoi servigi, ci incatena a una sorta di patto faustiano.
Ma qual è allora la natura intrinseca della Rete e il suo scopo precipuo? In apparenza è una comoda via per accedere rapidamente a una quantità virtualmente illimitata di informazioni e di funzioni. Strumento eccezionale di ricerca e di conoscenza, di apertura al mondo, fermento di idee. In tal senso parrebbe legittimo il concetto che “basta farne buon uso”. Questa formula ottimistica ignora il potere demoniaco della Rete di governare le coscienze, di portarle gradualmente a un livello subliminale, quasi ipnotico, calandole in un magma di pensieri disorganici. È una sfera di cristallo da cui emergono magicamente voci e figure che guidano, rivelano segreti, risolvono problemi, indicano facili evasioni.
Chiunque venga in contatto con gli influssi streganti della Rete ne resta in qualche misura ammaliato, anche chi se ne ritiene immune. Chi naviga nel suo mare magnum viene sedotto da sirene che continuamente lo chiamano, lo invitano a un dolce naufragio. Si perde nel flusso oceanico dei dati, dove un maelstrom di testi e di immagini risucchia la realtà. Al di là, dei suoi particolari ambiti di applicazione, è questa per me l’essenza della Rete: il suo svuotare l’uomo mediante la vacuità prodotta da una superfetazione di messaggi, di immagini, di parole.
In questo senso la Rete rappresenta l’ultima fase di un processo di allontanamento dall’intelletto naturale, fenomeno che nasce con la scrittura e si rafforza in tempi recenti con la stampa, la radio, la tivù, il cinema. Questa involuzione intellettuale, cui corrisponde un’evoluzione tecnica, coincide con un’organizzazione della coscienza che privilegia forme di razionalità artificiali e acquisite a scapito di un’intelligenza innata e intuitiva. Il labirinto di specchi della Rete, la sua ragnatela di messaggi contraddittori, sono il punto più basso, per ora, di questa china, in cui la ragione prevale sullo spirito, in cui alla semplicità del vero si oppone un numero infinito di incerte opinioni.
Altri elementi peculiari della Rete sono la superficialità, la ricerca del facile consenso, la vuota esibizione narcisistica. Antitesi di quelle forme di interiorizzazione, di scavo nel profondo attraverso movimenti lenti e pazienti, spesso umilianti e dolorosi, di cui l’anima ha bisogno per ritrovare se stessa. La Rete blocca questo processo di autoconoscenza e, tenendola occupata con gingilli di vario genere, impedisce all’anima di esplorarsi. Succede così che alcune peculiari manifestazioni della creatività umana – l’arte, la religione, la letteratura – conoscano oggi una tragica decadenza. Ogni espressione matura dello spirito implica infatti un potere di integrazione e concentrazione che la Rete cerca di distruggere e di sostituire con opposte dinamiche di frantumazione e dissipazione.
È chiaro anche il tentativo di omologarci in un tipo comune, passivo di fronte alle procedure richieste, fiducioso nei motori di ricerca, portato alla credulità. Ma l’elemento più peculiare della Rete è la sua efficacia nel disconnetterci da noi stessi mediante un numero illimitato di connessioni sempre più rapide e dilettevoli, attraverso l’esca di irresistibili link. Si produce così una massa di inconsapevoli lotofagi, immersi nel loro incantamento, in cui il reale è surrogato da un semicosciente esercizio onirico. Se si considera che la percezione della realtà ottenuta attraverso i sensi è già di per sé ingannevole, e che la nostra assuefazione alle forme del linguaggio e della razionalità la rende doppiamente illusoria, la Rete si può allora considerare un miraggio elevato al cubo.
Ogni miraggio ha inevitabilmente natura delusoria ma, paradossalmente, nel caso della Rete la ragione del suo rapido affermarsi è proprio la radicale frustrazione che provoca in noi. È come acqua salata. Più ne bevi e più hai sete. Ovvero, offre un tale esubero di alimenti che in realtà non possiamo digerirlo. È una fittizia cornucopia davanti alla quale lentamente si muore di fame. Il nutrirsi presuppone infatti non il semplice mangiare ma l’assimilare. Così, il trofismo dei nostri tessuti intellettuali richiede non un’epidermica lettura delle cose ma il comprenderle e il ricordarle. Viceversa, invogliandoci a saltare come pulci ubriache da un punto all’altro, senza mai soffermare la nostra attenzione su un soggetto per più di pochi secondi, la Rete pregiudica le nostre facoltà mnemoniche e di apprendimento. Così non ci sentiamo mai sazi, ma sempre dobbiamo ricominciare a mangiare.
Come direbbe Seneca “vomitano per mangiare, mangiano per vomitare; e questi cibi, che hanno cercato su tutta la terra, disdegnano di digerire”. Ogni pensiero viene deposto nello spazio angusto di una memoria a breve termine, da cui è velocemente evacuato per far posto a nuovi pensieri e poi ad altri, che subiranno tutti la stessa sorte. La ricchezza infinita di contenuti sui quali riflettere, l’accumulo di sempre nuove nozioni, il consumare argomenti d’ogni tipo, dal volgare al sublime, in sbrigativi fast food della mente, non produce alcun effetto corroborante sull’intelletto ma al contrario ne provoca la denutrizione e il deperimento.
Ogni idea, dialogo o dibattito, passa attraverso un rapido processo di autocombustione, lasciando solo sedimenti volatili, condannati a una celere dispersione. È naturale chiedersi quale sia lo scopo di questo annichilimento interiore. Potremmo vedervi l’intento di chiudere l’uomo nella dimensione del futile e dell’effimero, dove tutto diventa rapidamente scarto, rifiuto. O di dare sfogo virtuale ai malcontenti, mitigare le frustrazioni sociali e i sensi di ingiustizia, circoscrivere le loro potenzialità eversive in una dimensione fittizia, dove appelli, comizi, perorazioni, proteste etc. non sono che innocue simulazioni.
La Rete, in modo apparentemente democratico e liberale, offre infinite verità in conflitto tra loro, incoraggia un’orgia promiscua di opinioni, insegnamenti, testimonianze, creando di fatto una dittatura del pensiero caotico. E mentre si pone come paradigma di relativismo e di equidistanza, in realtà impone una serie di inconsci dogmatismi, rigidi pregiudizi, modelli stereotipati di pensiero, forme coatte d’espressione. E noi, ubbidienti, leggiamo frettolosamente, scivolando sulle parole, scorriamo rapidamente le immagini e i concetti come si osserva distrattamente il paesaggio da un treno in corsa. Sempre impazienti di leggere e guardare altro, saltando da nulla a nulla.
La Rete non si limita a confondere il senso della realtà, lo rovescia. I social, ponendo la distanza come condizione abituale e normale del contatto, favoriscono di fatto l’asocialità. Le community sono solo agglomerati di individualismi senza alcuna reale comunione. L’informazione serve a nascondere la verità, la semplificazione complica, l’ottimizzazione peggiora etc. Anche quando sembra favorire iniziative lodevoli, farsi veicolo di cultura e di sapere, la Rete è in sé un male, un parassita che colonizza la nostra interiorità, indebolendo le nostre capacità di concentrazione, di salda memoria e di visione profonda.
È, a mio parere, il nucleo di una congiura globale contro quel silenzio e quella feconda solitudine in cui fiorisce lo spirito, ossia massima espressione di una società anti-spirituale. Distrae l’intelletto, gli trasmette brevi e continue sollecitazioni, come deboli scariche elettriche che lo snervano e infiacchiscono. Mentre sembra incoraggiare la nostra libera e originale creatività, la riduce a un insieme di reazioni meccaniche e riflessi condizionati. Determina infine una sorta di ernia o di protrusione della nostra coscienza, la sua fuoriuscita dalla sede naturale. Ma chi è ne colpito non ne è consapevole, come accade in certe patologie neurologiche.
Perciò è inutile dire ai retomani: digiunate, riducete quanto più possibile i contatti con la Rete, sollevate la testa dal monitor, uscite da quella malefica bolla virtuale e guardate piuttosto in voi stessi. Dimenticate la connessione a Internet e cercate una connessione con la vostra anima. Rinunciate a rincorrere il nulla, e invece di immergervi in questo ininterrotto rumore di fondo di tag, blog, forum, social etc. cercate di restare un po’ in silenzio. Non è pensabile, per chi vive nell’attuale società, astenersi dalla lussuria della Rete, difendere la propria verginità di pensiero. Prova ne è quello che sto scrivendo. Mi trovo di fatto nella condizione di chi, per elogiare il silenzio, parla e dà il cattivo esempio. Invece di tacere, butto anch’io questa bottiglia nello sconfinato mare del Web, con dentro un altro inutile messaggio.
Questo radicale pessimismo, si dirà, è ingiusto, perché nella Rete v’è anche del buono: ha enormi potenzialità educative e pedagogiche, ha mille applicazioni utili, trascende le barriere tra i popoli etc. Anch’io cado talvolta in queste illusioni. Speranze teoriche, astratte. Messo di fronte ai fatti, comprendo che la Rete è per sua natura un’entità maligna, che non ha in sé nulla di buono, al massimo qualcosa di utile. Ma l’utilità non ha alcun nesso col bene. Gandhi diceva di rifiutare sempre e in ogni caso la violenza perché il bene che fa è apparente e momentaneo, mentre il male che fa è reale e durevole. Questo, senza dubbio, si può dire anche della Rete.
È una sorta di infezione planetaria. Solo alcuni sviluppano, misteriosamente, una reazione immunitaria che li salva dal contagio. Possiedono, come oggi si dice, i necessari anticorpi. Possono quindi aggirarsi come monatti tra le intelligenze appestate e le coscienze estruse. Possono sfuggire al demone che con le fauci spalancate vaga tra gli algoritmi della Rete cercando anime da carpire o da comprare a basso prezzo. Così malridotte valgono infatti poco o nulla. Una volta, in cambio dell’anima, il diavolo ci avrebbe offerto ricchezza, gloria, potere, favolosi piaceri, eterna giovinezza. Oggi la svendiamo per un like.
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