Destano sconcerto i commenti politici rilasciati all’indomani della manifestazione in Piazza del Popolo della nuova Lega “lepenista”. Ma se appaiono scontate le reazioni astiose e preconcette del centro sinistra, sono le reazioni da destra che destano maggiore imbarazzo perché centrate, quasi esclusivamente, sui distinguo e sulla enfatizzazione dell’apparenza.
Si passa dalla critica (inesatta) per l’assenza di tricolori in piazza alle citazioni secessioniste, per riaffermare una diversità di origini e di percorsi politici, ma senza fornire alcuna indicazione di prospettiva.
Si tratta di osservazioni superficiali, quando non volutamente capziose, che non colgono lo snodo epocale dell’attuale situazione politica. La destra italiana, è dispersa perché gran parte dell’ala moderata e liberale, assecondando il grande costume del conformismo italiano, s’è schierata e appiattita totalmente sulle posizioni di Matteo Renzi, mentre l’ala più radicale s’è allontanata, per disgusto, da ogni rappresentanza partitica.
Manca a questa destra un grande “catalizzatore” che sappia dare vita a un nuovo partito della Nazione in cui far confluire le spinte movimentiste e identitarie con quelle sociali, legalitarie e popolari. In questo momento, Salvini può raccogliere i voti di molti delusi e, col suo riposizionamento politico, può ridare voce a una destra che era esangue e immobilizzata dopo il tramonto di Berlusconi.
Per questo deve essere un alleato nel costruire l’alternativa a Matteo Renzi, ma è evidente che se la destra vuole tornare ad avere un proprio ruolo politico, deve saper riannodare le fila della sua grande tradizione e ricominciare a parlare il linguaggio sociale, nazionale e popolare, che ha l’unità della Nazione, l’autorità dello Stato e la solidarietà comunitaria tra i suoi valori non negoziabili. Ma, in questo, deve avere il coraggio che ha mostrato il leader della Lega nell’abolire ogni preclusione verso quei movimenti che incarnano oggi le istanze giovanili di riscossa nazionale e di cambiamento, deve riscattarsi dall’ubriacatura berlusconiana e liberarsi dalle ossessioni moderatiste, per recuperare la propria natura più profonda e una capacità di analisi e di proposta alternative all’attuale deriva mondialista.
Potrà farlo anche con un linguaggio meno colorito, ma non si tratta di una questione di toni quanto di contenuti. Perché il grande merito di Salvini, in questo momento, è stato quello di cogliere le contraddizioni dell’Europa e di averle imposte all’attenzione della politica.
Già nel 1998 il presidente della Bundesbank aveva annoverato tra i fondamenti delle moderne democrazie i “plebisciti”, quello delle urne e quello “permanente” dei mercati. Negli anni, quest’ultimo è divenuto prevalente e i rapporti di forza hanno dato vita a un processo di deparlamentarizzazione delle democrazie europee.
In America, il fenomeno era stato studiato da decenni, da quando Zbigniew Brzezinski e la Commissione Trilaterale, denunciando gli “eccessi” delle democrazie, rivendicavano la stabilità come bene primario per il funzionamento del sistema, anche a discapito di rappresentatività e pluralismo. Oggi quelle teorie si sono realizzate nei meccanismi europei, imposte come soluzione alla crisi del 2007 e alle precedenti, costringendoci all’ombra di quel plebiscito dei mercati mondiali che, invece, distrugge le nostre economie, il lavoro e lo stato sociale.
Oggi dominano gli esperti monetari, le élite finanziarie, i grandi istituti di rating, le banche internazionali e le grandi scelte della finanza e le decisioni economiche si impongono ai processi democratici e alle volontà dei popoli.
Si vedono gli effetti di queste scelte nelle logiche ispiratrici della politica, nelle procedure di liberalizzazione, nell’abbassamento delle tutele, nella predilezione dell’efficientismo, nella destituzione dei poteri rappresentativi.
Il dato tecnico contabile prevale su ogni altra considerazione, svuotando nell’Unione organi di controllo quali il Parlamento e la Corte di Giustizia. L’esplosione delle economie di molti Paesi europei e l’evoluzione drammatica di crisi sociali come quella greca unite all’affermarsi, anche nell’immaginario collettivo, di organismi privi di ogni legittimazione democratica quali la Troika, Commissione Ue-Bce-Fmi, sono la dimostrazione evidente di quanto il potere dei tecnici e della finanza abbia espropriato quello degli stati nazionali e quello dei popoli di decidere del loro futuro.
Anzi, abbiamo assistito, nella logica dei burocrati di Bruxelles, alle compiaciute dichiarazioni di un professore presidente del Consiglio che rivendicava alle ricorrenti crisi economiche il ruolo benefico di erosione delle sovranità nazionali e di cessione delle stesse a un anonimo e indifferente potere europeo.
L’azione in tal senso della Troika da corpo nell’Unione a una zona di “non diritto”, laddove l’intervento diretto di questi organismi nei confronti di uno stato membro travalica ogni potere parlamentare.
Lo si vede con la Grecia, lo si è visto in Italia con la lettera di Trichet e Draghi al nostro governo il 5 agosto del 2011. C’è un diritto “emergenziale” che decreta un giudizio di incapacità ad autogovernarsi per uno Stato e impone che un organo sovranazionale (in quel caso la Bce) intervenga entrando nel dettaglio di scelte politiche che non sono di sua pertinenza, per ripristinare la fiducia degli investitori e il rispetto di anodini parametri economici.
In questo modo si fissano non solo gli obiettivi, ma anche le modalità per conseguirli, reclamando maggiore efficienza del mercato del lavoro, piena liberalizzazione dei servizi pubblici, devitalizzazione del welfare, depotenziamento di ogni tutela del lavoro, contrattualistica e di legge, tagli alle retribuzioni, riduzioni di spesa pubblica.
E il tutto va attuato rapidamente, mediante decreto legge, operando un’intrusione nella vita politica di uno Stato e di fatto la sua deparlamentarizzazione.
Avendo di fatto un raggio d’azione e poteri globali, le oligarchie al comando in Europa operano così lo strisciante soffocamento d’ogni potere e rappresentanza popolare, rinsaldando la gabbia degli automatismi finanziari, economici e commerciali, con un susseguirsi di nuovi accordi e trattati, dal Fiscal Compact al TTIP, che mirano all’imposizione di rigidi schemi economici e alla ritrattazione di norme a tutela della salute, dell’ambiente, del benessere e della sicurezza dei cittadini. La spinta globalista verso un nuovo ordine mondiale però non si manifesta solo nel campo economico, legislativo e sociale, ma aggredisce direttamente le identità dei popoli attraverso le politiche che favoriscono l’immigrazione, lo stanziamento sul suolo europeo di milioni di allogeni e il sostanziale ricambio dell’identità del Continente mediante l’immissione forzata di masse di individui che, a volte, fuggono da guerre e carestie ma, in molti casi, sono indotti a espatriare spinti dalla falsa immagine di un benessere facile e diffuso.
Anche se su questo fronte operano organizzazioni internazionali interessate al commercio di esseri umani e potentati locali fortemente orientati dalla criminalità o dalla corruzione all’accoglienza, il disegno strategico di un’umanità ibridata e conforme, con un enorme e disponibile mercato del lavoro facilmente sfruttabile, risponde a logiche ben più complesse e a poteri che fanno capo a note élite mondialiste che, da troppo tempo, i politici di destra hanno smesso di denunciare e combattere per un malinteso senso di colpa e per il timore di porsi al di fuori di una visione moderna, accogliente e politicamente corretta di questi drammatici fenomeni del nostro tempo.
Mentre la difesa della stirpe, l’interesse alla natalità, l’avversione al meticciato e in particolare a quello culturale, devono essere tante frecce nell’arco di una destra che voglia risorgere e ritrovare la propria connotazione politica originaria, nazionale e popolare.
Enrico Marino
6 Comments