8 Ottobre 2024
Tradizione Primordiale

STRADE DEL NORD. Il tema delle Origini Boreali in Herman Wirth e negli altri – Parte 25 – Michele Ruzzai

(alla fine dell’articolo, prima delle Note, è presente il link dell’articolo precedente)

 

10.3 – Ancora traversate transatlantiche

 

Avevamo già accennato al fatto che, antropologicamente, al Magdaleniano non è associabile solo l’uomo di Cro-Magnon in senso stretto: durante tale cultura risultano infatti attestati anche il tipo rinvenuto in Germania, ad Oberkassel (1077) e quello francese di Chancelade (1078). Si può comunque dire che esso faccia sempre un po’ da sfondo generale, anche perché alcuni autori hanno proposto che sia Oberkassel (1079) che Chancelade (1080) in realtà possano essere considerati delle sue semplici varianti gracili. Un’altra teoria propone invece che il tipo Oberkassel derivi da un incrocio tra Cro-Magnon e Chancelade (1081), ottica nella quale quest’ultimo assumerebbe quindi maggior risalto come linea specifica – forse anche riconducibile alla più antica forma capelloide (1082) – quindi distinguendosi fin dalla radice da quella cromagnoide: ipotesi in relazione alla quale la presenza di tipi intermedi tra i due (1083) potrebbe appunto indicare non un rapporto di derivazione ma piuttosto di meticciamento, come peraltro ipotizzava Kossinna (1084). L’aspetto che comunque sembra particolarmente interessante, lo abbiamo già accennato in precedenza, è che la morfologia di Oberkassel è stata accostata addirittura a quella eschimoide (1085) e lo stesso è stato proposto anche per il Chancelade (1086) inquadrando cioè i due tipi, come ad esempio riteneva Giuseppe Sergi, nell’ambito di un filone umano nettamente “artico”, e ciò anche a prescindere dal riconoscimento in essi di tratti mongoloidi, sui quali infatti Biasutti non concordava, collocandoli invece decisamente nell’alveo caucasoide (1087).

Pur non facendo, apparentemente, riferimento alle particolari varianti di Chancelade ed Oberkassel, e tenendo come presumibile riferimento il Cro-Magnon “classico”, nemmeno ad Herman Wirth sfuggono le somiglianze che comunque accosterebbero anche questo agli Inuit, sia dal punto di vista culturale che morfologico: in effetti, la particolare disarmonia del cranio cromagnoide – dovuta all’associazione tra una forma cefalica alquanto allungata (“dolicocefalia”) ed un volto piuttosto ampio per la forte larghezza zigomatica – sarebbe oggi ravvisabile quasi solo tra le popolazioni eschimesi (1088). Wirth inoltre sottolinea che la dolicocefalia tra gli Inuit sembra non di rado presentarsi soprattutto tra i gruppi più orientali, in Groenlandia ed in prossimità del Nordatlantico, anche se non mancano sporadici elementi riscontrabili pure più ad Ovest, come ad esempio nell’isola di Victoria dell’arcipelago artico canadese: un tratto che spesso si accompagna a fenotipi sensibilmente distanti dallo standard asiatico, con pigmentazioni piuttosto chiare negli occhi e nei capelli (1089) e difficilmente attribuibili ai popolamenti europei più recenti, ormai medievali, della Groenlandia, ma forse ad un apporto molto più antico. Ed, in effetti, queste evidenze antropologiche hanno indotto qualche ricercatore ad ipotizzare un’origine eschimese proprio a partire da una migrazione tardo-paleolitica proveniente dall’Europa, rafforzata anche dal fatto che la cultura Inuit sembrerebbe essersi specializzata soprattutto sul versante atlantico del Nordamerica, in paticolare attorno alla Baia di Hudson (1090).

Per la verità, la posizione di Herman Wirth su questo specifico punto pare un po’ diversa.

Il Nostro sembra infatti suggerire che la sorgente di tali caratteristiche, inaspettatamente “arie” nel contesto artico e subartico americano, più che ad un’influenza tardo-paleolitica proveniente dall’Europa, vada piuttosto ricondotta ad una sopravvivenza di origine “prenordica” e dalla radice ancora anteriore, cioè precedente di almeno 20-25.000 anni le migrazioni solutreane e magdaleniane da Est; e, visto il quadro nettamente più occidentale che predilige (ricordiamo la posizione geografica del “cuneo prenordico” da lui ipotizzato), ne conseguirebbe che questi tratti si sarebbero diffusi in Europa solo in un secondo momento, in mezzo alle preesistenti popolazioni “finno-asiatiche” di substrato. Ma, come già detto in precedenza, è nostra opinione che un fenotipo chiaramente nordico ben difficilmente sarebbe già sovrapponibile agli arcaici “Prenordici” (dei quali, oltretutto, non andrebbe nemmeno trascurato l’aspetto letterale del termine, che, a rigore, dovrebbe esprimere il concetto proprio di coloro che furono “precedenti ai nordici”): ovvero quelle genti di inizio Treta Yuga che ci sembrano ancora troppo vicine agli esordi umani da “Eterna Primavera” ed al relativo tipo umano, presumibilmente molto più consono ad una situazione climatica pienamente temperata e non – o non ancora, almeno – “forgiato” dai successivi ghiacci del Nord.

Inoltre, le evidenze di depigmentazione riscontrabili tra gli Eschimesi, o anche molto sporadicamente in qualche altro Nativo Americano, sembrano presentarsi in modo più occasionale rispetto ad altri contesti, dove invece appaiono diffuse, pur debolmente, ma in modo più esteso e generalizzato (come nel caso dei Berberi): questa seconda modalità è probabile che derivi da un’eredità più profonda, come nel modello da “prima colonizzazione” di un territorio poi sommerso da nuove ondate, mentre l’evidenza americana sembrerebbe più facilmente spiegabile nel quadro di innesti successivi apportati su di una popolazione autoctona preesistente (1091), che peraltro nel Nuovo Mondo sembra ormai accertato risalire a tempi anteriori alla cultura Clovis. L’ipotesi che il tratto del biondismo, quasi assente in America – se non, appunto, in tracce molto isolate – derivi dalle latitudini artiche di quel quadrante e non dalle zone dove esso trova oggi la sua maggior diffusione planetaria, cioè l’Europa settentrionale, ci semba quindi molto improbabile; se poi ricordiamo anche quanto segnalato in precedenza sulle evidenze genetiche desumibili dalla seconda, terza e quarta componente principale del continente americano, che evidenziano dei picchi nelle aree più orientali ed in Groenlandia a testimonianza di probabili incontri fra Nativi e gruppi caucasoidi di successiva penetrazione (1092), ne traiamo ulteriore conferma sull’anzidetta possibilità di antichi contributi migratori dell’Europa verso il Nordamerica. Una traccia probabilmente rilevabile anche ad un livello biologico ancora più specifico, cioè quello ematico: se infatti è vero che vi è, statisticamente, una forte sovrapponibilità fra le caratteristiche depigmentate nordeuropee e la diffusione del gruppo sanguigno “A” (1093), ecco che trovare nelle Americhe – dove il gruppo “O” quasi monopolizza il continente – un’incidenza del gruppo “A” superiore al 50% quasi esclusivamente presso gli Eschimesi della Groenlandia (1094) è un ulteriore dato che ci sembra fortemente indicativo in tale direzione.

Se ora, dal piano bio-antropologico, ci spostiamo su quello linguistico-culturale, troviamo qualche altro elemento a nostro avviso di notevole interesse. La possibilità che gli idiomi eschimesi potessero avere una particolare relazione con la famiglia indoeuropea venne ipotizzata da Uhlenbeck (1095), mentre Sauvageot e Wilhelm Schmidt teorizzarono invece una maggiore vicinanza di questi alle parlate uraliche (1096), ipotesi menzionata anche nella letteratura più recente (1097): sono teorie che ci sembrano particolarmente intriganti anche, paradossalmente, per la loro indeterminatezza. Potremmo infatti azzardare l’ipotesi che la difficoltà nel definire con maggior precisione la famiglia linguistica con la quale quella eschimese avrebbe evidenziato una particolare vicinanza (pur comunque già tutte queste collocandosi, come segnalato in precedenza, nel contesto generale di una parentela di ordine molto più vasto fra tutte le lingue boreali del globo, cioè nell’ambito della macrofamiglia “eurasiatica” – 1098) potrebbe derivare proprio dal fatto che al tempo di tali collegamenti, il proto-indoeuropeo ed il proto-uralico non erano del tutto separati ed individualizzati, ma evidenziavano ancora diversi punti di connessione nello stadio ibrido “ario-uralico”, che abbiamo ipotizzato esser stato grossomodo coevo al Solutreano ed al primissimo Magdaleniano. Ma, nondimeno, elementi comuni riconducibili a questa fase, anche di tipo non prettamente linguistico, come ad esempio la condivisione di un medesimo substrato sciamanico, potrebbero essere passati al mondo Inuit ed in generale a tutto quello nordamericano proprio grazie ad una serie di contatti con precocissimi nuclei Protoindoeuropei e Protougrofinni (1099): nuclei appunto ancora in fase di lenta gestazione, ma che comunque già occupavano una posizione geografica nettamente occidentale nell’ecumene nordeurasiatico, tanto, riteniamo, da non far scartare a priori l’idea che l’influenza sullo sciamanismo nordamericano possa essersi esercitata soprattutto lungo percorsi artico-nordatlantici piuttosto che attraverso quelli orientali-siberiani, estremamente più lunghi.

Inoltre, molto significativo in tal senso ci sembra anche l’accenno di Herman Wirth sugli antichi nessi esistenti proprio tra gli Eschimesi, la popolazione scozzese originaria – i Pitti – ed i Fir Bolg del Mito celtico: stirpi che forse rappresentarono una ramificazione etnica particolarmente laterale della galassia “ario-uralica” e dei quali il Nostro ritiene che una traccia culturale molto specifica potrebbe essere costituita dalle imbarcazioni di pelli animali, il kayak, le cui raffigurazioni sono state rintracciate nei graffiti della grotta spagnola di Altamira (come già detto, da Breuil) ma anche a latitudini scandinave (1100).

In effetti l’origine dei Pitti – la cui lingua non ricade nel campo delle indoeuropee “storiche” – da sempre mette in notevole difficoltà i ricercatori e, tra le varie teorie formulate, molto interessante ci sembra quella che ne ipotizza una provenienza nordorientale, quindi scandinava (1101), a nostro avviso sicuramente preferibile, ad esempio, a quella che invece li collegherebbe alle lingue berbere (1102): e, forse, un esile indizio a supporto di tale nesso potrebbe essere costituito dalla presenza presso i Pitti del simbolo della croce rotante, analoga allo swastika (1103) che, pur presentando i tratti di un’estrema ecumenicità, sappiamo essere particolarmente ben attestato, rivestendovi una notevole importanza culturale, proprio tra le genti uraliche (1104). Tuttavia il cenno al mondo camitico, più che un problematico rapporto di derivazione filogenetica del Pittico, può suggerirci piuttosto l’idea che anche le prime popolazioni della Scozia abbiano seguito un itinerario non troppo dissimile da quello in precedenza ipotizzato per le lingue nordafricane: e cioè un nucleo di partenza “ario-uralico” che, incamminatosi appunto lungo un percorso molto laterale, non avrebbe condiviso con altri gruppi l’approdo finale allo stadio “ario-europeo”, ma sarebbe stato sottoposto a rilevanti sollecitazioni da parte del “dene-caucasico” autoctono, magari concretizzatesi con modalità diverse da quelle, ad esempio, subite dalla più meridionale compagine “ario-atlantica” vista nel paragrafo precedente. Non dobbiamo infatti dimenticare che la stratificazione “dene-caucasica” è quella che dovette corrispondere al primo popolamento Sapiens del nostro continente, risalendo quindi ad almeno 30.000 anni prima della probabile enucleazione sia del Pittico che delle lingue pelasgico/indomediterranee del flusso “ario-atlantico”: e quindi non ci sembra affatto inverosimile che al suo interno possa aver avuto tutto il tempo di differenziarsi in substrati anche molto diversi tra loro, con la conseguenza di una netta eterogeneità nelle relative influenze portate verso i super-strati costituiti dalle lingue intrusive più recenti. E quindi il Pittico non tanto come lingua “pre-indoeuropea” (ovviamente, se consideriamo lo stadio “ario-uralico” come già una prima, embrionale, fase di enucleazione della nostra famiglia etnolinguistica) ma piuttosto come uno dei vari idiomi “peri-indoeuropei” (1105) dai caratteri ibridi, laterali ed arcaici rispetto al più specifico nucleo proto-indoeuropeo in lenta formazione, ed anzi evidenziante alcuni toponimi non eccessivamente distanti dal nostro areale linguistico (1106).

L’idea di una provenienza nordorientale potrebbe forse trovare un ulteriore sostegno anche nel modo in cui il Pitta veniva tradizionalmente considerato dai suoi vicini Celti, ovvero come un “uomo magico”, un personaggio contraddistinto da una particolare intimità con il mondo naturale e le sue forze occulte (1107): sembra la descrizione di un’etnia nella quale erano rimaste ancora molto vitali radici ed energie di tipo sciamanico, quindi probabilmente rimandanti al contesto norduralico e siberiano. Dunque un percorso culturale piuttosto diverso rispetto a quello intrapreso dai popoli che invece, con il tempo, maturarono una weltanschauung tendenzialmente più “razionalizzante” nel loro vivere comunitario: come può essere successo per gli Arioeuropei, nei quali tutti questi elementi, pur ancora riconoscibili qua e là – lo abbiamo sottolineato in precedenza – sono però stati progressivamente sommersi da idee, concezioni e strutture elaborate in tempi successivi.

Senza tuttavia dimenticare che, pur essendosi incamminato su strade diverse, in ultima analisi anche il mondo indoeuropeo è riconducibile alla medesima fonte. E forse questo tema si presenta vagamente anche nel Mito celtico, dove infatti viene attribuita la stessa origine ai Fir Bolg ed ai successivi Tuatha Dé Danann – che, ricordiamolo, Wirth associa rispettivamente ai Pitti (ed Inuit) ed ai Protogermani – menzionati entrambi come discendenti dal precedente popolo di Nemed (1108), qualunque significato etnico si voglia attribuire a quest’ultimo. Nell’interpretazione che viene proposta qui, in tale radice unitaria – più anticamente costituita dalla “meta-popolazione” boreale di cui si era già detto e che poi, in chiave spiritualmente “eroica”, venne ulteriormente a specificarsi, attraverso una sua “idiovariazione”, nel nucleo ario-uralico di 20-25.000 anni fa – dovette essere stata cospicua la componente autosomica ANE (antichi nord-eurasiatici): ed è piuttosto interessante che, negli attuali popoli europei, quelli che ne sembrano presentare le percentuali più significative sono gli scozzesi e gli estoni (1109). Nei primi, infatti, ciò potrebbe rappresentare una traccia del movimento nord-scandinavo ed oceanico partito dalla Nenezia circa 16.000 anni or sono, mentre nei secondi forse un’impronta ancora più antica e collegata alle migrazioni, più continentali, iniziate già in corrispondenza dell’LGM e radice formativa del Solutreano sudoccidentale. In ogni caso, piccolo inciso, l’interessante dato in queste due popolazioni di tali frequenze molecolari non ci sembra molto convincente se ricondotte all’espansione kurganica dalla Russia meridionale (è la teoria, già menzionata, di un’indoeuropeizzazione del nostro continente avvenuta solo a partire da tempi calcolitici), perché ne pare difficilmente spiegabile sia la minore presenza tra le genti centro-est europee, teoricamente più vicine all’ipotetica Urheimat nord-pontica rispetto ad un’etnia periferica come quella scozzese, sia la sensibile rilevanza tra gli estoni, che però non parlano una lingua indoeuropea: per tale componente, dunque, si potrebbe dedurre un percorso di diffusione geografica ben diverso da quello ipotizzato da Marija Gimbutas, ed una tempistica relativa ad una fase nella quale non si era ancora cristallizzata la separazione tra Indoeuropei “propriamente detti” (gli Ario-europei) e gli Uralici (o il loro ramo più occidentale, gli Ugrofinni), quindi risalente almeno al tardo Paleolitico. Perché è appunto a questo periodo, e alle relative stirpi nordico-atlantiche, che Herman Wirth attribuisce la radice della popolazione neolitica scozzese (ma anche di quella irlandese) dai capelli e dalla carnagione chiara, e che rafforza ulteriormente l’idea di un Magdaleniano dove vennero a sovrapporsi le ultime code dei movimenti sudatlantici ed i primi esordi di quelli nordatlantici.

D’altronde è anche lecito chiedersi quanto ad Ovest possa essersi spinta l’onda lunga di questa migrazione che – al di là del discorso già fatto per gli Inuit – o in via diretta dalle aree scandinavo-norduraliche o anche inducendo un “effetto domino” a valle, probabilmente arrivò a superare le isole britanniche verso Occidente. Su quest’ultimo punto ci soccorrono alcuni dati mitico-tradizionali che sembrano infatti alludere anche al coinvolgimento di quadranti più meridionali rispetto a quelli relativi agli Eschimesi: ad esempio in “De Facie”, Plutarco menziona una terra occidentale che anticamente sarebbe stata abitata addirittura da Elleni, portando Felice Vinci a dedurre che tale area poteva corrispondere al golfo di San Lorenzo nel Canada orientale (1110), ma con penetrazioni fino alla regione dei Grandi Laghi o in aree limitrofe. Ciò potrebbe forse trovare un’interessante conferma nel fenotipo particolarmente depigmentato dei Mandan del Nord Dakota, che peraltro nelle loro cerimonie ricordano un antichissimo diluvio che li fece migrare da una sede originaria (1111). Tra l’altro, è anche notevole il fatto che la regione del golfo di San Lorenzo venga ricordato nelle tradizioni nordiche come Grande Irlanda, o Hvitramamaland, cioè “paese degli uomini bianchi” (1112), in quanto abitata da genti gaeliche. Un riferimento, quest’ultimo, relativo ad un momento forse ancora più recente – e ad esempio accostabile ai resti di un uomo vissuto 7.000 anni or sono, rinvenuto nei pressi di Boston, che è stato ipotizzato provenire proprio dall’Irlanda (1113) – ma comunque il punto ci sembra interessante soprattutto nell’ottica generale di un continuum nordatlantico ove nel corso di vari millenni dovettero verificarsi diverse stratificazioni, che portarono infine, come vedremo, all’enucleazione dell’ultimo raggruppamento della nostra famiglia etnolinguistica, cioè quello “Ario-europeo”: nell’ambito del quale, nondimeno, il gruppo celtico è una delle più importanti componenti e che, non a caso, ricorda il suo punto di origine in aree collocate a nord-ovest delle isole britanniche (1114), forse islandesi (1115).

Ancora più a Sud, in area centroamericana, Herman Wirth segnala l’arrivo, successivo al più arcaico popolamento dei Pueblo e dei Maya, di genti come i Toltechi e gli Aztechi, che significativamente accennano ad una remota provenienza da Nord: più precisamente, come ricorda Evola (1116), la loro area di origine dovette essere nordatlantica e la civiltà da questi inaugurata di tipo essenzialmente “eroico”, cosa che – se per le varie Età adottiamo lo schema quinario di Esiodo – potrebbe collocarci nel Quarto Grande Anno del Manvantara, e cioè appunto in tempi anche tardo-paleolitici. Significativo, oltretutto, il riferimento di René Guénon alla terra originaria ricordata dai Toltechi, il cui nome, “Tula”, richiama visibilmente quello dell’antichissima Thule Iperborea di inizio ciclo: ma alla quale non va assolutamente assimilata (1117) essendo, quella tolteca, una sede prettamente oceanico-settentrionale ma certamente non polare, ed oltretutto anche molto più tarda rispetto alla prima, probabilmente di almeno 35-40.000 anni.

In effetti, come avevamo già visto, si tratta di una sovrapposizione che era stata operata anche nel mondo greco, se pensiamo ad Eratostene che collocava “Ultima Tule” nell’estremo Nordovest europeo, ad una latitudine di circa 66° Nord (1118) e che si è concettualmente trascinata nel corso del tempo, dalla tarda antichità fino al medioevo, suggerendo che essa potesse coincidere con l’Islanda (1119): probabilmente il fenomeno si è verificato in quanto quel quadrante geografico non rappresentò solo un mero punto di passaggio, ma perché per l’intero mondo nordatlantico esso dovette costituire un vero e proprio Centro di riferimento – etnico, spirituale e culturale – fino al punto di riprendere miti e suggestioni molto più arcaiche, addirittura “auree”, anche se in modo mediato e non diretto. Infatti è stato opportunamente evidenziato (1120) sia che Tule, oltre a quello nordatlantico, pare aver avuto qualche vago rimando anche alla Norvegia – e ciò, potremmo azzardare, proprio per il nebuloso ricordo della migrazione nord-scandinava verso Sudovest – sia che, nella classicità greco-romana, il tema di questa terra è venuto spesso a sovrapporsi ad un altro mito boreale, ovvero quello del popolo degli Iperborei, per i quali invece si è proposta una collocazione più continentale, e cioè secondo Plinio il Vecchio – molto significativamente – nell’estremo Nordest europeo: ma, come avevamo già notato, questi Iperborei “storici” e recenti sono stati spesso confusi con i molto antecedenti Iperborei “semidivini” e primordiali che abitavano addirittura il Polo Nord (1121), quindi in termini indù all’inizio del Krita Yuga.

Forse tale sovrapposizione concettuale si è verificata perché, dall’inizio del Manvantara, dopo la progressiva degradazione argentea e bronzea, la fase eroica ha invece rappresentato un parziale tentativo di ripresa dell’antico fulgore aureo – quasi confondendosi con quello – centrato nell’Airyana Vaējah nordorientale. Quando quest’ultima venne colpita dall’LGM di 20.000 anni fa, probabilmente la terra nordatlantica ne ricevette gran parte del flusso in uscita ma ne raccolse anche il testimone spirituale, assumendo su di sé il retaggio ed il ricordo dell’antichissima Thule Iperborea alla quale anche la stessa Airyana Vaējah, circa 30.000 anni dopo, si era a sua volta ispirata. E’ dunque in questo quadro che, a nostro avviso, potrebbe forse essere collocata l’ipotesi seicentesca di Olof Rudbeck di un certo rapporto intercorso tra iperborei e thuliti (1122) e che probabilmente ispirò anche il ricordo, riportato da Platone nel Crizia, degli elefanti trovati in terra atlantidea: non i pachidermi delle latitudini tropicali, ma i molto più nordici mammuth (1123).

In ogni caso non è semplice stabilire quando, in un subartico occidentale così fortemente impattato da tali migrazioni, si costituì il Centro della Tula nordatlantica: se immediatamente dopo il crollo della dell’Airyana Vaējah nordorientale, o se più tardi e per colmare il vuoto di un’altra drammatica caduta, quella che coinvolse soprattutto il settore sudatlantico ma che però lasciò ancora parzialmente intatte le aree più settentrionali (1124).

Questo secondo evento, del quale parleremo noi prossimi paragrafi, viene comunemente ricordato come “Diluvio universale”.

 

 

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Parte 24

 

 

 

NOTE

 

1077. AA.VV. (a cura di Fiorenzo Facchini) – Paleoantropologia e Preistoria. Origini, Paleolitico, Mesolitico – Jaca Book – 1993 – pag. 321

 

1078. Michel Brezillon – Dizionario di Preistoria – Società Editrice Internazionale – 1973 – pag. 78

 

1079. Michel Barbaza – Dal Paleolitico medio all’Epipaleolitico nel Vecchio Mondo – in: AA.VV. (a cura Jean Guilaine), La preistoria da un continente all’altro, Gremese Editore, 1995, pag. 64; Raffaello Parenti – Lezioni di antropologia fisica – Libreria Scientifica Giordano Pellegrini – 1973 – pag. 166

 

1080. Michel Barbaza – Dal Paleolitico medio all’Epipaleolitico nel Vecchio Mondo – in AA.VV. (a cura Jean Guilaine), La preistoria da un continente all’altro, Gremese Editore, 1995, pag. 64; Daniela Cocchi Genik – Manuale di Preistoria. Paleolitico e Mesolitico – Comune di Viareggio, Assessorato alla Cultura / Museo Preistorico ed Archeologico “Alberto Carlo Blanc” – 1993 – pag. 52; Fiorenzo Facchini – Il cammino dell’evoluzione umana. Le scoperte e i dibattiti della paleoantropologia – Jaca Book – 1994 – pag. 166

 

1081. AA.VV. (a cura di Fiorenzo Facchini) – Paleoantropologia e Preistoria. Origini, Paleolitico, Mesolitico – Jaca Book – 1993 – pag. 375; Fiorenzo Facchini – Il cammino dell’evoluzione umana. Le scoperte e i dibattiti della paleoantropologia – Jaca Book – 1994 – pag. 164

 

1082. Louis Charpentier – Il mistero Basco. Alle origini della civiltà occidentale – Edizioni L’Età dell’Acquario – 2007 – pag. 24

 

1083. Michel Brezillon – Dizionario di Preistoria – Società Editrice Internazionale – 1973 – pag. 78

 

1084. Mario Giannitrapani – Paletnologia delle antichità indoeuropee. Le radici di un comune sentire (parte 1) – in: I Quaderni del Veliero, n. 2/3, 1998, pag. 257

 

1085. Romano Olivieri – Le razze europee – Alkaest – 1980 – pag. 43

 

1086. Luigi Brian – Il differenziamento e la sistematica umana in funzione del tempo – Marzorati Editore – 1972 – pag. 415; Louis Charpentier – Il mistero Basco. Alle origini della civiltà occidentale – Edizioni L’Età dell’Acquario – 2007 – pag. 24; Cleto Corrain – Origine e trasformazione delle razze umane – in: AA.VV. (a cura V. Marcozzi e F. Selvaggi), Problemi delle origini, Editrice Università Gregoriana, 1966, pag. 215; Frank C. Hibben – L’Uomo preistorico in Europa – Feltrinelli – 1972 – pag. 79; Umberto Melotti – L’origine dell’uomo e delle razze umane – Centro Studi Terzo Mondo – 1977 – pag. 56

 

1087. Renato Biasutti – Razze e Popoli della terra – UTET – 1967 – vol. 2 – pag. 14

 

1088. Madison Grant – Il tramonto della grande razza – Editrice Thule Italia – 2020 – pagg. 117, 119

 

1089. Renato Biasutti – Razze e Popoli della terra – UTET – 1967 – vol. 4 – pag. 376; Julius Evola – Il mito del sangue – Edizioni di Ar – 1978 – pag. 158

 

1090. Raffaello Parenti – Lezioni di antropologia fisica – Libreria Scientifica Giordano Pellegrini – 1973 – pag. 321

 

1091. Madison Grant – Il tramonto della grande razza – Editrice Thule Italia – 2020 – pag. 57

 

1092. Luigi Luca Cavalli Sforza, Paolo Menozzi, Alberto Piazza – Storia e geografia dei geni umani – Adelphi – 1997  pagg. 636, 638-641

 

1093. Antonio Bonifacio – L’Egitto dono di Atlantide – Edizioni Agpha Press – 1998 – pag. 20; Gianfranco Drioli – Iperborea. Ricerca senza fine della Patria perduta – Ritter– 2014 – pag. 118

 

1094. Renato Biasutti – Razze e Popoli della terra – UTET – 1967 – vol. 1 – pag. 381 (tabella)

 

1095. Giacomo Devoto – Origini indeuropee – Sansoni – 1962 – pag. 38

 

1096. Renato Biasutti – Razze e Popoli della terra – UTET – 1967 – vol. 4 – pag. 391

 

1097. Harald Haarmann – Storia universale delle lingue. Dalle origini all’era digitale – Bollati Boringhieri – 2021 – pagg. 166, 292

 

1098. Merritt Ruhlen – L’origine delle lingue – Adelphi – 2001 – pag. 95; Merritt Ruhlen – Nuove prospettive sull’origine delle lingue – in: AA.VV (a cura di Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti), Le radici prime dell’Europa. Gli intrecci genetici, linguistici, storici, Mondadori, 2001, pag. 269

 

1099. Carla Corradi Musi – Sciamanesimo e flora sacra degli ugrofinni in una prospettiva indouralica ed amerindia del Nord – Carucci – 1988 – pag. 43

 

1100. Kurt Pastenaci – La luce del nord. Le fondamenta nordiche dell’Europa – Editrice Thule Italia – 2018 – pag. 30

 

1101. Mario Alinei, Francesco Benozzo – Origini del megalitismo europeo: un approccio archeo-etno-dialettologico – in: Quaderni di Semantica, 29, 2008, pag. 6 –http://www.continuitas.org/texts/alinei_benozzo_origini.pdf

 

1102. Madison Grant – Il tramonto della grande razza – Editrice Thule Italia – 2020 – pag. 186

 

1103. Rafael Videla Eissmann – Il simbolo sacro del sole – Profondo Rosso – 2022 – pag. 41

 

1104. Harald Haarmann – Sulle tracce degli Indoeuropei. Dai nomadi neolitici alle prime civiltà avanzate – Bollati Boringhieri – 2022 – pagg. 21, 21

 

1105. Francisco Villar – La complessità dei livelli di stratificazione indoeuropea nell’Europa occidentale – in: AA.VV (a cura di Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti), Le radici prime dell’Europa. Gli intrecci genetici, linguistici, storici, Mondadori, 2001, pag. 211

 

1106. Paolo Ettore Santangelo – Schizzo di storia della Preistoria. La Mitologia come Preistoria – Litotipografia Tenconi – 1946 – pag. 78

 

1107. Fabio Calabrese – Alla ricerca delle origini – Ritter – 2020 – pag. 92

 

1108. Dario Giansanti – Gli invasori d’Irlanda in un’ottica funzionale – Centro Studi La Runa – 01/01/2000 – http://www.centrostudilaruna.it/invasionidirlanda.html; Lorenzo Valle – Miti nordici e miti celtici – Il Cerchio – 2001 – pag. 23

 

1109. Gli europei derivano da tre gruppi di antenati – Il Fatto Storico – 10/01/2014 – https://ilfattostorico.com/2014/01/10/gli-europei-derivano-da-tre-gruppi-di-antenati/

 

1110. Felice Vinci – I segreti di Omero nel Baltico. Nuove storie della preistoria – Leg Edizioni – 2021 – pag. 424

 

1111. Felice Vinci – I misteri della civiltà megalitica – La clessidra edizioni – 2020 – pag. 286, 289

 

1112. Julius Evola – Rivolta contro il mondo moderno – Edizioni Mediterranee – 1988 – pag. 238; Rafael Videla Eissmann – Il simbolo sacro del sole – Profondo Rosso – 2022 – pag. 274

 

1113. Elvira Mercurio Bennici – Atlantide. Analisi storica di un mito – Libreria Dario Flaccovio Editrice – 1982 – pag. 82

 

1114. Christophe Levalois – La terra di luce. Il Nord e l’Origine – Edizioni Barbarossa – 1988 – pagg. 23, 30

 

1115. Bernard Marillier – Gli Indoeuropei – Edizioni Età dell’Acquario – 2020 – pag. 30

 

1116. Julius Evola – Rivolta contro il mondo moderno – Edizioni Mediterranee – 1988 – pagg. 284, 285

 

1117. René Guénon – Forme tradizionali e cicli cosmici – Edizioni Mediterranee – 1987 – pag. 29

 

1118. Giulia Bogliolo Bruna – Paese degli Iperborei, Ultima Thule, Paradiso Terrestre – in: Columbeis VI, Università di Genova, Facoltà di Lettere, Dipartimento di Archeologia Filologia Classica e loro tradizioni, 1997, pag. 168

 

1119. Marco Goti – Atlantide: mistero svelato. L’isola di Platone – Pendragon – 2017 – pag. 135; Felice Vinci – I misteri della civiltà megalitica – La clessidra edizioni – 2020 – pag. 176

 

1120. Luigi De Anna – Il mito del Nord. Tradizioni classiche e medievali – Liguori Editore – 1994 – pagg. 22, 26; Luigi De Anna – Thule. Le fonti e le tradizioni – Il Cerchio – 1998 – pag. 24

 

1121. Fernando Rapi (a cura) – HIPERBOREI – da internet – https://ita.calameo.com/books/0004250546447ecc7e45c

 

1122. Luigi De Anna – Il mito del Nord. Tradizioni classiche e medievali – Liguori Editore – 1994 – pag. 96

 

1123. Marco Goti – Atlantide: mistero svelato. L’isola di Platone – Pendragon – 2017 – pag. 14

 

1124. Julius Evola – Il mito del sangue – Edizioni di Ar – 1978 – pag. 165

 

 

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