(alla fine dell’articolo, prima delle Note, è presente il link dell’articolo precedente)
11 – Diluvi post-glaciali e Mesolitico
11.1 – La fine del ciclo sudatlantico
Secondo la cronologia “Guénon/Georgel” circa 13.000 anni or sono, cioè alla metà del Dvapara Yuga, quella terra oceanico-occidentale che la letteratura cita più frequentemente come soggetto centrale dei miti atlantidei, fu colpita da un immane disastro, il “Diluvio universale” (1125): un evento menzionato nei ricordi atavici di un numero impressionante di popolazioni del pianeta (1126) oltre che ovviamente nel testo biblico. Di quest’ultimo conosciamo tutti la narrazione centrata sulla figura di Noè e non ha senso riproporla qui, ma di particolare interesse ci sembra comunque il rilievo di Giuseppe Acerbi sul fatto che i suoi tre figli – Sem, Cam e Jafet – fossero già presenti ed accanto al padre fin da prima del Diluvio (1127), dal che potrebbe derivare un’ulteriore conferma dell’ipotesi che le tre relative famiglie linguistiche – rispettivamente semitica, camitica e giapetico/protoindoeuropea – fossero già distinte ed individualizzate da ben prima di 13.000 anni fa.
In ogni caso, con il Diluvio universale si concluse il Quinto Grande Anno del Manvantara (1128) che, seguendo l’impostazione quinaria di Esiodo, abbiamo associato alla stirpe eroica e dunque, in relazione a questo evento catastrofico, a quella che probabilmente fu la sua traumatica caduta: come infatti ci ricorda Julius Evola (1129), hybris e protervia, anche tra gli Eroi, erano impulsi sempre latenti e potenzialmente operanti nell’azione di allontanamento spirituale dalla legge divina (1130) e forse venne superato un limite non impunemente valicabile senza conseguenze anche sul piano cosmologico. Se, accogliendo gli spunti di Frithjof Schuon, trova fondamento l’associazione tra la Razza Bianco-Eroica e l’elemento Fuoco (1131), si può allora ben comprendere il Mito dell’azione punitiva di Zeus, intervenuto scatenando l’elemento Acqua con un immenso Diluvio proprio per spegnere l’eccesso igneo che, ad un certo punto, sembrò sfuggire ad ogni controllo (1132).
E’ infatti scientificamente accertato che nel periodo nel quale si verificò la deglaciazione del pianeta – in termini ampi collocabile tra circa 16.000 e 7.000 anni fa – il rilascio negli oceani delle enormi quantità di acqua prima trattenute nelle calotte wurmiane, comportò, pur in varie fasi e con diverse velocità, un aumento globale del livello marino di almeno 120 metri (1133) arrivando infine alla sommersione di vastissime aree in tutto il mondo tra le quali, ad esempio, la “piattaforma della Sonda” nel sud-est asiatico. In particolare nelle zone a noi più vicine, sembra molto probabile che la catastrofe diluviale non fu una sola, ma comportò diversi episodi i quali, secondo Herman Wirth, sommersero le terre atlantiche per tappe successive (1134): come detto, nella prima occasione probabilmente vennero colpite soprattutto le parti centro-meridionali di Mô-uru e rimasero emerse le aree più settentrionali, le quali resistettero ancora per alcuni millenni, forse anche, potremmo dire, per ragioni più “sottili”, in quanto connotate da una civiltà meno deviata da quella hybris che aveva scatenato il cataclisma spirituale e, di conseguenza, geologico (1135).
In termini paleoclimatologici, i tempi tardoglaciali videro una notevole alternanza di momenti freddi e caldi registrati durante lo stadiale Dryas, che venne inframmezzato dai periodi più temperati di Bølling-Allerød, prima del definitivo termine del Pleistocene e l’inizio dell’attuale fase interglaciale definita Olocene (1136): ed è interessante il fatto che, in relazione a questa grande variabilità climatica estesasi nell’arco di non molti secoli, nel periodo più recente del Dryas, in ambienti scientifici sia stata formulata la teoria secondo la quale la spiegazione di ciò andrebbe cercata in un probabile impatto meteorico sul nostro pianeta, che provocò l’estinzione della megafauna e, in America, la scomparsa della cultura Clovis (1137).
11.2 – Il ciclo nordatlantico ed i Tuatha Dé Danann
La catastrofe di 13.000 anni fa colpì soprattutto le genti europee centro-meridionali, culturalmente e spiritualmente legate al ciclo sudatlantico, in quanto vennero improvvisamente private del loro Centro di riferimento occidentale. Meno coinvolti, invece, dovettero essere i gruppi che già da qualche millennio, provenendo da nordest, si erano stanziati nelle aree più settentrionali dell’Atlantico, interessate in minor misura dall’evento diluviale (1138), e che per Herman Wirth costituivano, isole britanniche comprese, quasi dei territori periferici della stessa Mô-uru oceanica; queste stirpi, come già anticipato in precedenza, derivavano fondamentalmente da una “idiovariazione” della meta-popolazione boreale di partenza ed erano ormai portatrici, in larga misura, del gruppo sanguigno “A”.
In termini più prettamente etno-culturali, però, i nordatlantici non dovettero essere una popolazione unitaria e compatta, ma rappresentarono un ciclo piuttosto eterogeneo di genti che si susseguirono nell’arco di diversi millenni – da poco dopo l’LGM di 20.000 anni fa fino a tempi quasi neolitici – tutte però gravitanti attorno ad un Centro che, a grandi linee, si era costituito entro un ventaglio di terre individuabili tra la già menzionata Islanda, l’enigmatico Banco di Rockall (1139), ma anche la Scozia e le isole Fær Øer: non va infatti dimenticato che l’antico nome della Scozia, Caledonia (1140), rimanda al bianco cinghiale di Calidone – probabile allusione ad un importante insediamento secondario nelle migrazioni boreali (1141), forse collegabile al tema della provenienza dei Pitti – nè che per le Fær Øer è stato proposto un interessante accostamento con l’isola di Ogyges del mito ellenico (1142).
Del multiforme ciclo nordatlantico, la popolazione forse più emblematica – ma, come detto, non l’unica e probabilmente nemmeno la più antica – è quella dei Tuatha Dé Danann menzionati nelle tradizioni celtiche, per i quali si ricorda esplicitamente, come sottolinea Herman Wirth, la provenienza da un lontano Nord. Va da sé che tale Nord doveva riferirsi a latitudini ben superiori a quelle delle isole britanniche, le quali furono, lo abbiamo ricordato in precedenza, solo una tappa secondaria occupata successivamente dalle genti boreali. Felice Vinci suggerisce che la zona di origine della stirpe Tuatha fu l’arcipelago delle isole Vesterålen nella Norvegia settentrionale, sopra il Circolo Polare Artico (1143), indicazione che sembrerebbe in accordo con il ricordo, prima del loro arrivo nelle aree euro-occidentali, della temporanea sosta nella terra di Lochlann, molto probabilmente la Scandinavia. Qui i Tuatha dovettero trovare, forse soprattutto in terra norvegese (1144), alcune enclave occupate dai Fomori-cromagnoidi, che, lo ricordavamo in precedenza, secondo le ipotesi di Poesche (1145) e di Paudler (1146) nel corso dei millenni avevano sviluppato una varietà depigmentata; è del tutto plausibile che con questi si verificarono anche quelle mistioni ricordate nelle tradizioni irlandesi, con la menzione degli intricati alberi genealogici delle due stirpi, dei tanti matrimoni misti e dei reciproci rapporti di parentela, come ad esempio evidente nel significativo caso di Lug che, pur essendo una delle più importanti divinità celtiche, non a caso è per metà di razza fomoriana (1147).
Probabilmente risiede già qui, prima ancora che nelle ulteriori, e definitive, “fusioni” che si verificheranno più tardi anche nell’Occidente europeo, la radice di una primissima adozione tra le genti eroiche, in origine orientate in senso nettamente patriarcale ed anti-ginecocratico (1148), di alcuni elementi culturali di provenienza sudatlantica e dai tratti indirizzati in direzione matriarcale, lontana eredità del Treta Yuga e dell’antico mondo gravettiano: forse l’inizio dell’abbandono della loro più schietta via spirituale e causa primaria del loro declino. Fu un processo che nella mitologia norrena viene ricordato con l’accoglimento dei più eminenti tra i Vanir all’interno della predominante comunità degli Æsir, corrispondenti ai Thuatha Dé Danann, per arrivare così all’incorporazione di una non trascurabile schiera di divinità femminili e all’adozione di forme chiaramente sincretiche (1149): forme che dunque accompagneranno fin dall’inizio i processi formativi della terza ed ultima fase della nostra famiglia etnolinguistica – quella “ario-europea”, post-glaciale ed indogermanica “in senso stretto” – improntando il pantheon dei popoli indoeuropei più o meno allo stesso modo di quanto, ad esempio, sembra essere avvenuto nel corpus ellenico per tutto quel gruppo di divinità preolimpiche dalle caratteristiche “acquatiche” (1150), non uraniche e chiaramente femminili.
Ecco forse il motivo per il quale i Tuatha Dé Danann, pur inseribili nell’ambito di un ciclo di tipo eroico, sarebbero connotabili addirittura come “Gente della dea” – interpretazione di Herman Wirth ripresa anche da Julius Evola (1151) – ovvero la dea Dana, o anche Diana-Ana-Anna, la quale secondo una leggenda gallese era compagna del solare dio Beli, dalle caratteristiche molto simili a quelle di Apollo (1152): che pure nel mito greco a Diana-Artemide è particolarmente vicino anche se in modo diverso, essendone fratello in quanto entrambi figli dell’iperborea Latona (1153). In ogni caso Dana, progenitrice dei Tuatha Dé Danann, è un’entità che presenta diversi elementi strettamente connessi a forme cultuali di tipo sciamanico (1154) e questo ci riporta, ancora una volta, a concezioni elaborate soprattutto in ambito nordeurasiatico: concezioni che sembrerebbero alluse anche nel riferimento a quella “magia” che i Tuatha avrebbero appreso nel lontano Settentrione (1155) o pure – nel quadro che li accosterebbe agli Æsir norreni – nella definizione di questi ultimi come “stregoni giunti dal Nord” secondo Snorri Sturluson (1156). Se poi a tutto ciò aggiungiamo anche la nota di Herman Wirth sulla significativa rilevanza che presso i Tuatha rivestiva la figura del cigno, aspetto che, come ricordato in precedenza, viene in particolare condiviso anche tra le genti lapponi, abbiamo un ulteriore elemento per assegnare, nell’origine della “Gente della dea”, un ruolo probabilmente cruciale all’area nord-scandivava, predominante e precedente a quello rivestito dalle sedi nordatlantiche, che vennero certamente invase ma solo in un secondo momento. La Scandinavia comunque dovette rappresentare la terra più settentrionale dell’ampia area che, alla fine della loro espansione, risultò occupata dai popoli Tuatha, se è vero che sempre Wirth ne ipotizza uno stanziamento postglaciale molto vasto, comprendente oltre alla Scandinavia stessa anche le isole britanniche, la Francia atlantica e la terra di Polsete, cioè il Doggerland allora emerso.
Azzardiamo che forse tale movimento, o almeno la sua parte finale, dal punto di vista archeologico potrebbe essere messo in relazione al manifestarsi dell’Ahrensburghiano, cultura tardo-paleolitica estesasi tra Gran Bretagna sudorientale, Belgio, Olanda e Germania settentrionale, terminata circa 11.000 anni fa e probabilmente associabile ad un flusso verso Sud di una popolazione precedentemente stanziata tra il settore baltico e quello che oggi è il Mare del Nord (1157). Quindi anche l’area svedese dovette essere abitata da queste genti, la cui cultura originaria viene spesso definita “Bromme-Lyngby” e che fu grossomodo contemporanea all’oscillazione temperata di Allerød, alla quale successe lo stadiale più freddo del Dryas III a conclusione del Pleistocene; ed il movimento verso Sud potrebbe essere stato innescato proprio da tale recrudescenza climatica, che portò all’invasione dei territori già occupati dai gruppi del complesso delle lame a dorso e della cultura amburghiana – in tutta probabilità riconducibili al vasto alveo del precedente Magdaleniano occidentale – forse meno adattati alle condizioni di vita della tundra, ed alla relativa caccia alla renna, rispetto ai nuovi venuti ahrensburghiani (1158). Dalla distribuzione geografica di tale ondata, si desume che il Doggerland fu un settore assolutamente centrale di questo popolamento; e, seguendo le analisi wirthiane, il riferimento a quest’ultimo lembo di terra, che già 8-9.000 anni fa doveva ormai trovarsi in larghissima parte sotto le acque del Mare del Nord, ci fornisce un limite temporale non valicabile, in quello specifico quadrante geografico, per gli stanziamenti di coloro che riteniamo corrisposero ai mitici Tuatha Dé Danann.
Si tratta quindi di un’occupazione che non può essere stata più recente del tardo Mesolitico: e forse è questo il momento nel quale i misteriosi Tuatha “spariscono”.
11.3 – La fase “ario-europea”: gli Indoeuropei in senso stretto
Dei Tuatha è anche interessante rilevare come, secondo Herman Wirth, sia proprio il Mesolitico post-glaciale il periodo che ne avrebbe visto “l’indoeuropeizzazione”. E’, questo, un passaggio molto significativo che conferma ancora una volta la prospettiva del Nostro, nella quale non sembra esservi spazio per un vero Urvolk unitario proto-indoeuropeo, dal momento che l’adozione dei nostri idiomi da parte dei popoli Tuatha viene descritto come un fenomeno decisamente secondario: talmente secondario, che, come già accennato in precedenza, Wirth sembra considerarli dei “germani primitivi” a prescindere dalla lingua che possono aver parlato. Il fenomeno della loro “indoeuropeizzazione” – avvenuta attraverso la disgregazione della lingua artica originaria, dalla struttura agglutinante verso una di tipo flessivo – secondo Wirth sarebbe partito in ambiente sudatlantico ed euro-occidentale per poi penetrare nel mondo nordatlantico secondo una dinamica meramente diffusiva e culturale.
In effetti, l’idea del passaggio da una tipologia agglutinante ad una flessiva, per certi versi può assomigliare alle ipotesi che avevamo segnalato precedentemente, in particolare nell’enucleazione della terza fase formativa della nostra famiglia linguistica, definibile come “ario-europea” o indoeuropea stricto sensu: tuttavia sono gli antecedenti che, nella nostra prospettiva, si discostano in modo sostanziale dal quadro wirthiano. Infatti la linea qui seguita, ricordiamolo ancora, contempla un’antica unità filogenetica – dunque anche etnica, ma soprattutto razziale – sussistente tra Indoeuropei ed Uralici, quindi radicando saldamente nel Nord la sorgente primaria delle nostre parlate, anche se in un momento in cui queste erano morfologicamente molto distanti dalle attuali ed attraversavano uno stadio ancora “pre-flessivo”. Ma si sarebbe trattato già di un ampio Urvolk proto-indouralico che, inoltre, avrebbe ricevuto sollecitazioni demografiche complesse, sia di “fissione” che di “fusione” con strati etnici di altra radice (ma sempre antropologicamente caucasoidi) per segmentarsi in tre macro-ondate: dall’iniziale ed unitaria fase “ario-uralica” del pleniglaciale, passando, almeno per una sua parte, attraverso quella intermedia “ario-atlantica” del tardoglaciale, giungendo infine al definitivo assestamento flessivo, ovvero alla compagine “ario-europea” del postglaciale.
E’ dunque solo nel traguardo finale che possiamo concordare con il quadro wirthiano, ma non nelle premesse e nei percorsi seguiti in precedenza. Soprattutto, l’esistenza di una “soggettività” indoeuropea, almeno in nuce, andrebbe ricercata in una prospettiva decisamente più antica di quella mesolitica e secondo linee più “continuiste” di quelle adottate da Wirth, per il quale invece l’indogermanizzazione delle genti nordiche sembrerebbe assumere dei tratti più simili a quelli di un tardo “incidente di percorso”. E, come detto, il livello mesolitico potrebbe al limite essere quello pertinente al solo terzo passaggio, “ario-europeo”, ed è quindi soprattutto in quest’ottica che riteniamo vadano interpretate le ipotesi che collocano la fase unitaria ed iniziale delle lingue indogermaniche in un momento genericamente tardo-pleistocenico (1159) o, più specificatamente, nell’interstadio di Allerød, attorno a 12.000 anni fa, (1160); in ogni caso, al più tardi, 9-10.000 anni or sono (1161).
La fase “ario-europea” più recente è quella dalla quale, in seguito, procederà la frammentazione dei sottogruppi storici (italici, germanici, illirici, slavi…) ed, in tale contesto, uno di quelli che anticamente godette di un’enorme diffusione, e ci sembra anche particolarmente interessante per la sua posizione geografica, è senz’altro rappresentato dai Celti.
Sulla collocazione cronologica di questi vi sono alcune possibilità alternative, due delle quali però manifestamente incompatibili tra loro. La prima, più radicale, ipotizza l’enucleazione autoctona del celtico nell’Europa nordoccidentale già nel Neolitico (1162) arrivando addirittura, nell’ambito della “Teoria della Continuità” ricordata in precedenza, a collocare queste genti nelle loro sedi attuali fino a 25.000 anni fa (1163): in pratica, immaginando “celtizzate” le isole britanniche prima ancora che queste diventassero isole (1164). La seconda ipotesi è invece più convenzionale e pone i Celti appena in corrispondenza della Età dei Metalli di solo qualche millennio fa. Sotto questo aspetto, va detto che le linee wirthiane tendono forse ad avvicinarsi di più a quest’ultima, dal momento che il ricercatore tedesco-olandese ricorda come sarebbe stato proprio l’arrivo in Irlanda di questo popolo, che nelle saghe tradizionali potrebbe corrispondere ai Milesi, a sostituire i precedenti Tuatha Dé Danann; e dal momento che abbiamo visto come la posizione cronologica di questi ultimi potrebbe essere anche post-paleolitica, ne deriverebbe un’antichità dei Celti ancora più ridotta.
Sono considerazioni che comunque potrebbero rimanere valide anche in un’altra prospettiva – che azzardiamo solo come ipotesi di lavoro – ovvero quella che inquadrerebbe i Milesi semplicemente come nuova veste nella quale sarebbero stati confusamente ricordati gli stessi Tuatha Dé Danann dopo la loro indogermanizzazione linguistica: un’identificazione secca che si potrebbe operare anche sulla scorta di un punto di origine praticamente identico tra le due stirpi – in certe tradizioni il Centro nordatlantico/nordoccidentale (1165), in altre le “isole a nord del mondo” (1166) o comunque in prossimità di quella Leukè, “la bianca”, dove nacque Latona, madre di Apollo (1167) – ed appoggiarsi anche sull’aspetto fenotipico, molto simile e spiccatamente nordico, che i primissimi Celti dovevano presentare, anche se poi questo venne sensibilmente a modificarsi (1168).
Tuttavia, è anche vero che sono proprio tali alterazioni del tipo iniziale a suggerire per i proto-Celti l’intervento di cospicui episodi meticciatori con gruppi atlantici – causa anche dello spostamento del loro baricentro culturale rispetto all’originaria tradizione iperborea (1169) – nei quali potrebbero essere state coinvolte genti fomoriane più occidentali e meno depigmentate di quelle falico-scandinave che, invece, erano entrate nelle prime mistioni con i Tuatha Dé Danann. Quindi, in tale prospettiva, i Celti/Milesi potrebbero aver effettivamente rappresentato una popolazione diversa rispetto ai Tuatha e, come ricordato nel Mito, a questi essersi demicamente sostituiti: in alternativa all’ipotesi dell’identificazione tout court tra i due gruppi – cioè i Milesi né più né meno che gli stessi Tuatha “post-indogermanizzazione” – si potrebbe invece immaginare, a partire dalla comune Urheimat nordorientale e nel generale macro-flusso verso ovest-sudovest che abbiamo già tratteggiato, l’intervento comunque di scansioni migratorie piuttosto diversificate che, tra le ultime genti del ciclo nordatlantico, avrebbero portato i Tuatha più direttamente a Sud, nelle isole britanniche e nel Doggerland, conducendo invece gli “ario-europei”, cioè i Protoindoeuropei stricto sensu, lungo itinerari più larghi e verso settori islandesi e subartico-occidentali. Qui potrebbero aver sostato per un non trascurabile lasso di tempo, tanto da veder progressivamente sbiadire il ricordo dell’antica origine nordorientale ed a privilegiare quello della sede secondaria collocata a nord-ovest, ovvero, come segnalato in precedenza, il Centro nordatlantico da qualcuno rimembrato con il nome di Tula/Tule. O, almeno, ciò potrebbe essere avvenuto in modo più pronunciato solo per alcuni sottogruppi indoeuropei come i proto-Celti, che infatti tramandano il mito della loro origine da una terra non distante dall’Islanda (1170): quella misteriosa Avallon la quale, non a caso, Evola accosta proprio a Ogyges (1171), quindi forse anche un’area prossima alle isole Fær Øer.
Tuttavia questa sede nordatlantica dovette anch’essa venire abbandonata per intraprendere un’ulteriore migrazione, ora però diretta verso sud-est ed il cuore del continente europeo. Fu tale movimento a portare i Protoindoeuropei/Protocelti nelle isole britanniche, dove incontrarono popolazioni già ivi stanziate, che in larga parte riuscirono a sostituire/indogermanizzare (i Tuatha Dé Danann) tranne le poche eccezioni costituite dagli ancor precedenti Pitti/Fir Bolg, forse a causa della maggior componente sudatlantico-fomoriana che tra questi, nel corso del tempo, era venuta ad infiltrarsi e forse a predominare.
Link articolo precedente:
NOTE
1125. Gaston Georgel – Le quattro Età dell’umanità. Introduzione alla concezione ciclica della storia – Il Cerchio – 1982 – pag. 211; Karl Georg Zschaetzsch – Atlantide. La patria ancestrale degli Ariani – Editrice Thule Italia – 2021 – pag. 13
1126. Julius Evola – Rivolta contro il mondo moderno – Edizioni Mediterranee – 1988 – pag. 245; Maurice e Paulette Déribéré – Storia mondiale del Diluvio – Mondadori – 1990 – pagg. 196, 302; Vittore Pisani – L’unità culturale indo-mediterranea anteriore all’avvento di Semiti e Indeuropei – in: Scritti in onore di Alfredo Trombetti, Hoepli, 1938, pag. 212
1127. Giuseppe Acerbi – L’Isola Bianca e l’Isola Verde – Simmetria Associazione Culturale – pag. 13 – http://www.simmetria.org/images/simmetria3/pdf/Rivista_41_2016_A5_booklet.pdf
1128. Giuseppe Acerbi – La questione dei “Tre Diluvi” nella tradizione ellenica – in: Algiza, n. 9, Gennaio 1998, pag. 13
1129. Julius Evola – Rivolta contro il mondo moderno – Edizioni Mediterranee – 1988 – pag. 276
1130. Angelica Fago – Mito esiodeo delle razze e logos platonico della psichè: una comparazione storico-religiosa – in: Studi e materiali di storia delle religioni, Vol. 57, 1991, pag. 240
1131. Frithjof Schuon – Caste e razze – Edizioni all’insegna del Veltro – 1979 – pag. 52
1132. Julius Evola – Rivolta contro il mondo moderno – Edizioni Mediterranee – 1988 – pag. 271
1133. Ian Wilson – I pilastri di Atlantide. Un grande diluvio distrusse e ricreò la storia – Fabbri Editori – 2005 – pag. 24
1134. Aleksandr Dughin – Continente Russia – Edizioni all’insegna del Veltro – 1991 – pag. 52
1135. Carlo Arrigo Pedretti – Mito polare e polarità di un mito nella Germania nazionalsocialista – RITTER – 2019 – pag. 83
1136. Michel Brezillon – Dizionario di Preistoria – Società Editrice Internazionale – 1973 – pag. 13; Janusz K. Kozlowski – Preistoria – Jaca Book – 1993 – pagg. 78 e 79; Stephen Oppenheimer – L’Eden a oriente – Mondadori – 2000 – pag. 35
1137. Marco Goti – Atlantide: mistero svelato. L’isola di Platone – Pendragon – 2017 – pagg. 130, 131; Marco Goti – La Bibbia druidica. Il reale scenario geografico europeo dell’Antico Testamento – Pendragon – 2022 – pag. 45; Un impatto cosmico provocò il raffreddamento di 13.000 anni fa – Le Scienze – 28/07/2015 – https://www.lescienze.it/news/2015/07/28/news/imppatto_cosmico_raffreddamento_clima_dryas_recente-2708030/; Elisabetta Intini – Un impatto apocalittico alla fine dell’ultimo periodo glaciale – Focus – 04/02/2018 – https://www.focus.it/scienza/scienze/un-impatto-apocalittico-alla-fine-di-unera-glaciale?fbclid=IwAR3im_fC_1aGd93W9PCl-rovOX0NJD6hVqBqdjeq4x6idMCKV-g669fxm-w
1138. Julius Evola – Il mito del sangue – Edizioni di Ar – 1978 – pag. 165
1139. Skender Hushi – Atlantide – EMAL – 2009
1140. René Guénon – Simboli della scienza sacra – Adelphi – 1990 – pag. 150
1141. Antonio Bonifacio – L’Egitto dono di Atlantide – Edizioni Agpha Press – 1998 – pag. 48
1142. Bruno D’Ausser Berrau – De Verbo Mirifico. Il Nome e la Storia – pag. 16 – https://fdocumenti.com/download/de-verbo-mirifico-il-nome-e-la-storia-prf-u-viewlapproccio-al-problema-partendo; Marco Goti – Atlantide: mistero svelato. L’isola di Platone – Pendragon – 2017 – pag. 142; Felice Vinci – I misteri della civiltà megalitica – La clessidra edizioni – 2020 – pag. 172; Felice Vinci – I segreti di Omero nel Baltico. Nuove storie della preistoria – Leg Edizioni – 2021 – pagg. 16, 29; Felice Vinci – Omero nel Baltico. Saggio sulla geografia omerica – Fratelli Palombi Editori – 1998 – pag. 24
1143. Felice Vinci – I misteri della civiltà megalitica – La clessidra edizioni – 2020 – pag. 265; Felice Vinci – I segreti di Omero nel Baltico. Nuove storie della preistoria – Leg Edizioni – 2021 – pag. 403
1144. Louis Charpentier – I Giganti e il mistero delle origini – Edizioni L’Età dell’Acquario – 2007 – pag. 234
1145. Eurialo De Michelis – L’origine degli indo-europei – Fratelli Bocca Editori – 1903 – pag. 381
1146. Giacomo Devoto – Origini indeuropee – Sansoni – 1962 – pag. 52
1147. Lorenzo Valle – Miti nordici e miti celtici – Il Cerchio – 2001 – pag. 73
1148. Julius Evola – Il mistero del Graal – Edizioni Mediterranee – 1997 – pagg. 50 e 278
1149. Lorenzo Valle – Miti nordici e miti celtici – Il Cerchio – 2001 – pag. 34
1150. Nuccio D’Anna – La religiosità arcaica dell’Ellade – ECIG – 1986 – pag. 25
1151. Julius Evola – Rivolta contro il mondo moderno – Edizioni Mediterranee – 1988 – pag. 255
1152. Franco Cardini – Radici della stregoneria. Dalla protostoria alla cristianizzazione dell’Europa – Il Cerchio – 2000 – pagg. 130, 131
1153. Emanuela Chiavarelli – Diana, Arlecchino e gli spiriti volanti: dallo sciamanismo alla caccia selvaggia – Bulzoni – 2007 – pagg. 74, 85, 222; Emanuela Chiavarelli – Intarsi: momenti di antropologia – Bulzoni Editore – 2009 – pag. 126; Carlo Frison – La comparsa dell’uomo secondo i miti sulle razze primordiali – Editrice La Bancarella – 1983 – pag. 21
1154. Emanuela Chiavarelli – Diana, Arlecchino e gli spiriti volanti: dallo sciamanismo alla caccia selvaggia – Bulzoni – 2007 – pag. 85; Emanuela Chiavarelli – Intarsi: momenti di antropologia – Bulzoni Editore – 2009 – pag. 126; Emanuela Chiavarelli – Sulle tracce della scarpina perduta – Il Calamaio – 2006 – pag. 51
1155. Franco Cardini – Radici della stregoneria. Dalla protostoria alla cristianizzazione dell’Europa – Il Cerchio – 2000 – pag. 130
1156. Emanuela Chiavarelli – Diana, Arlecchino e gli spiriti volanti: dallo sciamanismo alla caccia selvaggia – Bulzoni – 2007 – pag. 231
1157. AA.VV. (a cura di Fiorenzo Facchini) – Paleoantropologia e Preistoria. Origini, Paleolitico, Mesolitico – Jaca Book – 1993 – pag. 132
1158. Janusz K. Kozlowski – Preistoria – Jaca Book – 1993 – pagg. 78, 79; Kurt Pastenaci – La luce del nord. Le fondamenta nordiche dell’Europa – Editrice Thule Italia – 2018 – pag. 19
1159. Renato Del Ponte –Miti e simboli della Liguria “esoterica” in Evola – in: Arthos, n. 16, 2008, pag. 24
1160. Mario Giannitrapani – Protostoria indoeuropea – in: Julius Evola, Il mistero Iperboreo. Scritti sugli Indoeuropei 1934-1970, a cura di Alberto Lombardo, Quaderni di testi evoliani n. 37, Fondazione Julius Evola, 2002, pag. 73
1161. Harald Haarmann – Storia universale delle lingue. Dalle origini all’era digitale – Bollati Boringhieri – 2021 – pag. 182; Harald Haarmann – Sulle tracce degli Indoeuropei. Dai nomadi neolitici alle prime civiltà avanzate – Bollati Boringhieri – 2022 – pag. 53
1162. Anna Giacalone Ramat, Paolo Ramat – Le lingue indoeuropee – Il Mulino – 1993 – pag. 377
1163. Francesco Benozzo – Etnofilologia – Continuitas.org – pag. 6 – http://www.continuitas.org/texts/benozzo_etnofilologia.pdf
1164. Mario Alinei, Francesco Benozzo – Origini del megalitismo europeo: un approccio archeo-etno-dialettologico – in: Quaderni di Semantica, 29, 2008, pag. 5, http://www.continuitas.org/texts/alinei_benozzo_origini.pdf
1165. Christophe Levalois – La terra di luce. Il Nord e l’Origine – Edizioni Barbarossa – 1988 – pagg. 23, 30; Bernard Marillier – Gli Indoeuropei – Edizioni Età dell’Acquario – 2020 – pag. 30
1166. Marco Goti – Atlantide: mistero svelato. L’isola di Platone – Pendragon – 2017 – pag. 14
1167. Geticus – La Dacia iperborea – Edizioni all’insegna del Veltro – 1984 – pag. 24
1168. Madison Grant – Il tramonto della grande razza – Editrice Thule Italia – 2020 – pag. 164
1169. Geticus – La Dacia iperborea – Edizioni all’insegna del Veltro – 1984 – pag. 48
1170. Christophe Levalois – La terra di luce. Il Nord e l’Origine – Edizioni Barbarossa – 1988 – pagg. 29, 30
1171. Julius Evola – Rivolta contro il mondo moderno – Edizioni Mediterranee – 1988 – pag. 240