Nell’uomo il desiderio di evasione è innato. Per un periodo circoscritto egli può anche sedersi accanto al fuoco a meditare, ma prima o poi si alza e comincia a camminare. Che cosa c’è oltre la siepe? Novità, pericolo, conoscenza, avventura? Andiamo a vedere. Alla curiosità congenita vanno aggiunte le cause di forza maggiore, cioè le bizze del clima, le aritmie cardiache della Terra, gli imprevedibili colpi di testa del Cielo e le conseguenze talvolta catastrofiche delle «invenzioni» umane.
Una complessa miscela di motivi vaporizzò dunque l’«eredità polare» dell’Uomo/dio-natura delle Origini, il cammino del quale estese l’antichissima «koinè boreale» alle popolazioni dislocate nelle terre affacciate all’Artico, che a quei tempi costituiva un esteso bacino quasi completamente chiuso e quindi potenzialmente più caldo, come del resto il Mediterraneo [immagine 1].
Sul rafforzamento delle differenze fondamentali, propedeutiche alle contraddizioni inconciliabili, pesarono due cause prime: il fattore spaziale e l’elemento sociologico. Punti di partenza dai quali non si può prescindere, perciò era fisiologico che adattandosi alla varietà degli ambienti esterni ogni gruppo elaborasse un suo personale punto di vista in materia di agricoltura, scienza curativa delle erbe e geometria del cielo, arte di costruire oggetti utili e case decenti, vivere civile, riti e i miti.
Le disparità di vedute presenti in termini di connessioni spirituali ed emotive non cancellarono comunque le affinità di base che tuttora sono riscontrabili nei Lapponi, nei Siberiani, nei Nativi Americani del Canada e del Labrador, nei Celti (M. Ruzzai, Strade del Nord, https://www.alicedemo.net/ereticamente). Un ruolo fondamentale nella definizione dei tratti identificativi di ciascun popolo ebbero inoltre le ibridazioni, sempre più diffuse, come testimonia il recente ritrovamento di una dentatura vecchia di 48.000 anni nell’isola di Jersey, la quale presenta diverse caratteristiche proprie dei neandertaliani ma anche la forma del colletto dentale (la parte tra la corona e la radice) tipica di un Sapiens.
Di fatto il cammino dell’uomo è sempre stato reso possibile dalle azioni di due orientamenti distinti ma sinergici, quello dei «nomadi della civiltà della Terra» (nella fattispecie, i Neanderthal) e quello dei «nomadi della civiltà del Mare» (i Sapiens). Proprio dall’incontro/scontro di costoro sono scaturite fin dall’inizio dei tempi peculiarità specifiche in termini di strategie e valori, visione complessiva e originalità d’interpretazione.
Terra e Mare. Il confronto planetario tra tellurocrazia e talassocrazia esisteva nella Preistoria, c’è stato nella Storia e continua ad esserci nella Post-storia. Il giorno che al posto della geopolitica classica ci sarà uno strumento più efficace per interpretare le azioni del genere umano adegueremo i pensieri a nuove visioni, ma per il momento questa è l’unica finestra aperta sul mondo.
Terra e Mare
L’inesistenza in Eurasia di reali barriere fisiche permise al Neanderthal e al Sapiens d’incontrarsi e di portare in giro per il continente-madre il «fardello dell’uomo bianco», permanentemente impegnato nello sforzo di far rivivere la tradizione primordiale. Entrambi protagonisti del periodo che fece da cerniera tra la cultura artico-primordiale e la cultura aurignaziana essi lasciarono nell’ultima fase interglaciale impronte riconoscibili, cioè diverse, che cercheremo di sintetizzare.
Il modello tellurocratico del Neanderthal era più teso al potere terrestre, cioè imperniato su un universo valoriale «antico» e sostanzialmente immobile, mentre il modello talassocratico del Sapiens apparve fin dapprincipio più incline alle innovazioni e al movimento, prova ne è il fatto che la specie fuoriuscita dall’Artico in circa duemila anni di viaggi riuscì ad «abbracciare» le Americhe dal Canada alla Terra del Fuoco (S.Wells, Il lungo viaggio dell’uomo. L’odissea della nostra specie, 2006).
Alla fine i tempi in cerca di riscatto premiarono l’intraprendenza, sicché il Sapiens non soltanto ebbe la possibilità di inserire nel tessuto umano il «cuneo della razza pre-nordica» di cui parla il Wirth ma aprì altre menti a quella visione spirituale dell’esistenza destinata a diventare l’ossatura culturale della maggior parte dei popoli primitivi [immagine 2]. Simbolismi inequivocabilmente legati alle latitudini boreali sono tuttora riscontrabili nelle tradizioni di molti nativi nord-americani, tra i pigmei Semag malesi e i Batak di Sumatra, il cui albero della vita assomiglia in modo impressionante al frassino Yggdrasill della mitologia norrena. Persino le tradizioni degli zingari localizzano il «paradiso terrestre» nella regione siberiana … qualcuno deve pur averglielo detto.
Gira senza sosta in compagnia del suo trolley anche il Demens, è raro tuttavia che egli riesca a costruire qualcosa di serio là dove è diretto, non riuscendo a farlo neppure qua dove si trova. D’altra parte la decantata «libertà di movimento» del XXI secolo non è stata pensata per «civilizzare» bensì per tagliare i ponti con ogni appartenenza pregressa (vincoli comunitari d’origine, patria, tradizioni, cultura, famiglia, eccetera) al fine di tracciare e controllare la popolazione umana.
Comprensibilmente non sappiamo se l’incedere del Sapiens primordiale sia stato più o meno corretto di quello dei suoi discendenti, mossa però dal desiderio di migliorare la propria condizione la «stirpe sapiente» finì per arricchire anche quella degli altri. Una cosa che il Demens non potrebbe fare neppure volendo, dal momento che: 1) il baricentro antropologico della società è stato spostato e ancora non ha trovato un posto nella Storia; 2) sulla scacchiera planetaria attualmente non ci sono «civiltà» bensì «economie»; 3) lungi dall’accontentarsi di un miglioramento di vita la parte talassocratica vuole ottenere il dominio globale pensando che la parte tellurica nutra lo stesso desiderio, come testimoniano le parole del politico statunitense James Burnham (1905-1987): “geograficamente, strategicamente l’Eurasia circonda l’America ed è sempre pronta a rovesciarsi su di essa” (tratto da The Struggle for the world, 1947).
Detto tra noi: per quale motivo dovrebbe verificarsi una cosa del genere? Cosa manca all’Eurasia che già non possieda? Terra, risorse naturali ed energetiche, paesaggi incantati e mai uguali, Storia e cultura, tradizioni e religioni? Uomini e donne d’ingegno, artisti e scienziati, imprenditori e artigiani? Senza contare che non si è mai vista una civiltà tellurica (oggi, quella eurasiatica) «rovesciarsi» su una civiltà talassocratica (quella americana) con l’intenzione di conquistarla e dominarla.
Polimorfismo
Prima che arrivasse il «conquistatore» c’era il «civilizzatore», un personaggio i cui viaggi erano motivati da necessità e/o curiosità, non certo dalla brama di arraffare e portare via. I movimenti più significativi si registrarono durante il miglioramento generale delle condizioni climatiche seguito al picco del Primo Pleniglaciale wurmiano, con un aumento del traffico demografico nel lasso temporale tra 44-42.000 anni fa (interstadiale Laufen/Gottweig), caratterizzato da una situazione ancora più mite. Ne consegue che il Sapiens esportò se stesso, le sue credenze, la sua visione del mondo, il suo modo di vivere molto prima che le Coca-Cola e i McDonald’s colonizzassero gli stomaci e le menti.
A quell’epoca il mondo era un crogiolo di esseri insoliti che proliferavano negli angoli più remoti della Terra. I viaggiatori preistorici, sì, avrebbero avuto mille ragioni per esclamare alla maniera dell’indimenticabile replicante Roy Batty: “ho visto cose che voi umani [moderni] non potete immaginare”. Non solo spazi inediti, paesaggi inattesi, piante e fiori dalle forme astruse, animali sconosciuti, ma anche uomini che non sembravano uomini, nonostante l’unità della «razza umana» vada considerata a prescindere come una caratteristica terrestre che incarna il più alto livello della creazione.
Tralasciando le distorsioni lessicali introdotte nel XV secolo dal colonialismo europeo a proposito del termine «razza», le diversità razziali esistono e nella fase vergine dell’attuale Ciclo la varietà nell’unità della specie era ancora più marcata. Viaggiando in terre selvagge non era infrequente incontrare giganti e nani, bianchi con i capelli corvini e neri dal pelo rosso, nasi aquilini sotto occhi a mandorla, orecchie enormi attaccate a crani piatti, colli lunghi che sostenevano teste d’uovo e «creature scimmiesche» con le quali era necessario dividere i propri spazi vitali, sebbene nessun uomo sia mai disceso dalla scimmia.
L’immaginazione del Demens è inadatta a visualizzare la varietà umana che lo ha preceduto, mentre la mente del Sapiens era più incline a giocare con la Natura (K. Axelos, Le Jeu du monde, 1969). Nessuno può descrivere oggi i meccanismi che la regolavano, trattandosi tuttavia di un provetto cacciatore si presume che l’approccio applicato agli esseri umani non fosse differente da quello usato con gli altri animali. Sulle prime il nuovo arrivato se ne sarà stato zitto e muto ad aspettare che l’autoctono incuriosito saltasse fuori, poi lo avrà osservato avanzare a piccoli passi dalla boscaglia, piccolo e magro, infagottato in pelli conciate male, sporco e dall’aria impaurita, quindi si sarà stupito di quanto la vista del selvatico fosse insolita. Ruvida. Primitiva. Sconfortante.
Neppure chi si crede pronto a tutto, in realtà, lo è mai abbastanza. Ma se a caldo prevale lo spaesamento, in seconda battuta subentra la consuetudine, scende cioè dall’alto quel volano che permette all’uomo dotato di immaginazione di trasformare persino gli eventi sgradevoli in nuovi mondi di significati spirituali, religiosi, mitologici, allegorici e filosofici. Ecco perché uno accanto all’altro il primordiale e il primitivo hanno camminato insieme per millenni, seminando strada facendo un patrimonio di perle narrative riguardanti i tempi ancestrali in cui gli dèi avevano istruito gli uomini. Un nobile intento che non sempre andava a buon fine.
Se tendere la mano è un gesto spontaneo, o forse innato, a furia di dare finisce per svuotarsi dentro persino il «divino», cioè l’essere eccezionale. E a quel punto, poco importa se fuori va tutto bene. Fa niente se nelle pianure la tiepida brezza solletica costantemente i fusti degli alberi, la terra promette buoni frutti, l’acqua limpida non manca, e il sole neppure.
Non era in un posto simile che il Sapiens voleva venire sin dall’inizio? Perché, allora, stava costantemente con il piede levato, sempre pronto a ripartire? In seguito tra le tribù civilizzate cominciò a circolare la voce della profonda inquietudine di quegli esseri così speciali da sembrare quasi divini, i quali non diedero mai una motivazione alle loro peregrinazioni, né l’impressione di pensare a un possibile ritorno in patria. Vagabondavano consapevoli del proprio destino: come l’albero aveva mille radici profonde, ugualmente l’uomo possedeva due gambe fatte per camminare, e, di conseguenza, le usava per spostarsi.
Dallo spazio qualitativo allo spazio quantitativo
Da sempre la Storia è determinata dalla Geografia e perciò la genesi, lo sviluppo, le migrazioni di qualsiasi gruppo sociale appaiono indissolubilmente legati alla morfologia del territorio e al clima che lo caratterizza. Nel processo di trasformazione il fattore spaziale precede l’elemento sociologico, nel senso che il modo in cui una certa società umana percepisce lo spazio circostante condiziona le decisioni politico-strategiche del gruppo, cioè il «cosa fare» e il «come farlo insieme».
O, almeno, così è stato fino all’avvento del mondo-Demens, che immergendo le persone in uno spazio omogeneo derivato dal pensiero matematico di stampo cartesiano/newtoniano (la città urbana), cioè in uno spazio quantitativo, ha fortemente limitato le scelte soggettive e pressoché azzerato quelle collettive. All’opposto il mondo-Sapiens era inserito in uno spazio qualitativo, ossia nel perimetro di un’area disomogenea (naturalmente libera) caratterizzata dalla varietà di particolarità semantiche, consolidate e derivate da specifici elementi culturali, mitologici e religiosi.
Ne consegue che le differenze sviluppatesi in seguito tra i due blocchi continentali, l’Eurasia e le Americhe, trassero origine dal «fattore spazio» poiché ambienti diversi, a prescindere dal comune punto di partenza, generano adattamenti diversi, condizioni di vita diverse, formazione di mentalità diverse, nascita di ritualità diverse. Vedasi ad esempio le specificità germogliate nei due Centri Sacrali Secondari fondati dalla famiglia primordiale ormai definitivamente divisa, uno nella Siberia orientale (tellurocratico) e l’altro oltre il 62° parallelo nord nel quadrante posto tra Groenlandia, Islanda, Fær Øer e Scandinavia (talassocratico).
A loro volta questi «gemelli diversi» generarono una prole ancora più diseguale e numerosa poiché l’adeguamento socio-spaziale non ha mai riguardato una singola vita bensì svariate generazioni diluite in un periodo temporale medio-lungo. Abbastanza prolungato da deteriorarsi, motivo per cui si ritiene che la consistente dispersione demografica avvenuta nel corso del Secondo Grande Anno dell’attuale Manvantara (da 52.000 a 39.000 anni fa) sia andata di pari passo con l’erosione dell’eredità polare primordiale.
Strada facendo il patrimonio di conoscenze lasciato dal Sapiens venne capitalizzato in modo differente, cioè la cultura dei Beringiani assunse sfumature diverse rispetto a quella dei Tibetani, o degli abitanti dell’odierna Repubblica Ceca (dove reperti antichissimi come quelli di Brno/Predmost/Pavlov testimoniano insediamenti ancestrali). Fermo restando un punto, sul quale tutti i popoli si trovarono d’accordo: l’Uomo era stato creato da una divinità. Si trattava di un modo per dire che il Neanderthal «venne al mondo», cioè fu civilizzato, dal Sapiens che lo ri-creò?
In parte potremmo trovarci in presenza di ricordi fraintesi, attenzione però a non trasformare l’incredulità in una fede perché il fanatismo laico è molto meno ragionevole di quello religioso, come hanno scritto i fratelli de Goncourt, basta un attimo di distrazione per farlo degenerare in un vizio patologico. Ne consegue che anziché cercare il pelo nell’uovo dei racconti tradizionali, i quali comunque nascono sempre da una verità, il Demens farebbe bene ad occuparsi della «leggenda» nella quale lui stesso è immerso fino al collo senza sapere di esserlo.
Viviamo in tempi ingannevoli, ma finché il corpo fisico del Sapiens-Demens sarà fatto di carne e sangue nulla di realmente (s)travolgente potrà accadere alla specie umana, quindi il robot sapiens ha buone probabilità di rimanere ciò che è: un giocattolo con cui trastullarsi nei momenti di tristezza. Per caso o per fortuna, non si sa, “l’uomo [è] un animale isterico posseduto dai suoi sogni ma tuttavia capace di oggettività”, come ha scritto Edgar Morin nel suo libro Il paradigma perduto.
Poiché il Sapiens e il Demens sono due facce della stessa medaglia, impariamo dunque a non dare troppo peso alla società fluida creata da questo animale bifronte. Com’è noto in principio prevalgono i buoni propositi e il gruppo pretende al proprio interno rigore, metodo, disciplina; a metà strada arriva la voglia di lanciarsi in imprese spericolate, quindi aumentano i passi falsi e le stramberie; infine, dopo averle provate tutte (culti, riti, religioni, leggi, istituzioni, ideologie, teorie, eccetera), l’euforia diventa indistinguibile dall’insana follia. Ecco perché nessuna grande impresa è mai stata compiuta da un uomo ragionevole, ammesso che nella varietà che caratterizza l’unità della specie umana sia contemplata questa categoria di persone. Ed ecco perché dalle azioni irragionevoli, inspiegabilmente, sono nate le più grandi civiltà.
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