Così, ad esempio, è nel libro VIII, dove troviamo un brano che costituisce il più antico documento greco relativo all’argomento che abbiamo affrontato. L’episodio è il seguente. Zeus convoca il concilio degli dèi sulla più alta cima dell’Olimpo, per enunciare solennemente il divieto di partecipare alla battaglia, divieto al quale tutti dovranno sottostare. Oltre a formulare una terribile minaccia di ritorsione nei confronti dell’eventuale trasgressore (sarebbe scagliato nelle profondità del Tartaro), Zeus lancia una sfida che intende mettere in evidenza la sua schiacciante superiorità su tutti gli dèi:
“Orsù dunque, provatevi, dèi, perché tutti possiate vedere;fate pendere dal cielo una catena d’oroe tutti quanti attaccatevi, dèi e dee:ma non potrete tirare dal cielo sulla terraZeus, consigliere supremo, neppure se vi affaticaste moltissimo.Invece, qualora io volessi tirare sul serio,vi tirerei su con la terra e col mare,e poi la catena a una cima d’Olimpolegherei, e tutto rimarrebbe sospeso.Tanto io sono al di sopra degli dèi e sono al di sopra degli uomini”. (5)
“Allora il Padre tese la bilancia aureae vi mise le due Chere di morte crudele,quella di Achille e quella di Ettore domatore di cavallie, presala per il punto mediano, la tenne sospesa: precipitò il giorno fatale di Ettoree andò all’Ade. Lo abbandonò Febo Apollo”. (6)
“Zeus, chiunque mai sia, se con tal nomegli è caro esser chiamato,con questo lo invoco.Nulla posso paragonare a lui,tutto ponderando,tranne Zeus, se il vano peso derivante dall’angosciasi deve veramente gettar via”. (7)
“Gloriosissimo tra gl’immortali, dio dai molti nomi, onnipotente sempre,Zeus, principio della natura, Tu che governi tutto con la legge,salve!” (8)
“Cominciamo da Zeus! Lui, in quanto mortali, noi non tralasciamo maidi nominare. Piene di Zeus sono tutte le vie,tutte le piazze degli uomini, pieno ne è il maree i porti; ed a Zeus in ogni circostanza tutti facciamo ricorso” (10).
È noto che nella fortuna del monoteismo solare nell’Impero romano ebbe un ruolo determinante un culto solare già molto diffuso fra i popoli del Mediterraneo orientale, specialmente in Siria. Depurato degli aspetti meno accettabili dallo spirito romano, il culto del cosiddetto “dio solare di Emesa”, nato fra le popolazioni nomadi dell’Arabia preislamica, diventò un culto romano di Stato e il dio Sole fu identificato con Giove Capitolino e con Apollo. Questo fatto, che René Guénon avrebbe potuto definire come “un provvidenziale intervento dell’Oriente” a favore di Roma, poté verificarsi per la ragione che il culto solare della tarda antichità rappresentava la riemergenza di una comune eredità primordiale.
Ed è lo stesso Guénon che conviene citare per quanto concerne il significato del simbolismo solare:
La dottrina del cosiddetto “monoteismo solare”, secondo cui Helios è l’ipostasi del Principio, mentre le numerose divinità del pantheon greco-romano sono solo suoi aspetti specifici e settoriali, si trova esposta nell’inno Al Re Helios (Eis tòn basiléa Hélion) dell’imperatore Flavio Claudio Giuliano. Il riferimento fondamentale è Platone. Giuliano cita un brano della Politèia (508B-C) dal quale risulta che il Sole (Hélios) è, nel mondo sensibile (aisthetòs) e visibile (oratòs), ciò che il Sommo Bene, sorgente trascendente dell’essere, è nel mondo intelligibile (noetòs); in altre parole: l’astro diurno non è che un riflesso di quel Sole metafisico che illumina e feconda il mondo delle essenze archetipiche, le platoniche “idee”. Ovvero, per dirla con Julius Evola: “Helios è il Sole, non come astro fisico divinificato ma come simbolo di luce metafisica e di potenza in un senso trascendente” (14). Ma tra il mondo intelligibile dell’Essere puro e il mondo delle forme corporee percepibili dalla vista fisica e dagli altri sensi s’interpone un terzo mondo: un mondo che viene definito “intellettuale” (noeròs), ossia dotato di intelligenza.
Ricordo per inciso che il teosofo islamico Mahmûd Qotboddîn Shîrâzî (1237-1311) riassume la dottrina dei tre mondi dicendo che Platone e gli altri sapienti dell’antica Grecia “professavano l’esistenza di un doppio universo: da un lato l’universo del puro soprasensibile, che comprende il mondo della Divinità e il mondo delle Intelligenze angeliche; dall’altro, il mondo delle Forme materiali, vale a dire il mondo delle Sfere celesti e degli Elementi e, tra l’uno e l’altro mondo, il mondo delle Forme immaginali autonome” (15).
Ipostasi del Principio supremo (“figlio dell’Uno”) al centro di questo mondo mediano, Helios vi svolge una funzione mediatrice, coordinatrice e unificatrice in rapporto alle cause intellettuali e demiurgiche, partecipando sia dell’unità del Principio trascendente sia della molteplicità contingente della manifestazione fenomenica. La sua posizione è dunque la più centrale che possa essere concepita e giustifica il titolo di Re che gli viene riconosciuto. In termini teologici: tutti gli dèi dipendono dalla luce di Helios, che è l’unico a non essere sottoposto alla necessità costrittiva (anánke) di Zeus, con il quale, in realtà, egli si identifica.
Sulla scia di Henry Corbin, che include i “neoplatonici cosiddetti tardivi” (e quindi anche l’imperatore Giuliano) tra le coraniche Genti del Libro (16), uno studioso italiano ha suggerito che Helios “equivale a ciò che nell’Islam è chiamato an-nûr min ‘amri-llâh, ‘la luce che procede dal comando divino'”, per cui la divinità solare “non è altra cosa da quella ‘nicchia delle luci’ dalla quale (…) è attinta ogni sapienza” (17).
Giuliano viene poi a trattare dei poteri (dynámeiai) e delle energie (enérgheiai) di Helios, cioè, rispettivamente, delle sue potenzialità e delle sue attività in relazione ai tre mondi. L’aspetto più considerevole di questa parte dell’Inno (143b-152a) consiste nel tentativo di ricondurre la molteplicità degli dèi ad una Unità principiale rappresentata per l’appunto da Helios, cosicché le varie figure divine ci appaiono come suoi aspetti, ovvero come Nomi corrispondenti alle sue innumerevoli qualità. Una dottrina analoga, d’altronde, era stata formulata da Diogene Laerzio, il quale interpretava Zeus, Atena, Era, Efesto, Posidone, Demetra come appellativi corrispondenti ai “modi della potenza” dell’unico Dio (18).
In Helios, dunque, confluisce il potere demiurgico di Zeus; né d’altronde esiste alcuna reale differenza tra i due. Atena Prónoia è scaturita, nella sua integralità, dalla totalità di Helios; essendo l’intelligenza perfetta di Helios, essa riunisce gli dèi che lo circondano e realizza l’unione con lui. Afrodite rappresenta la fusione degli dèi celesti, l’amore e l’armonia che caratterizzano la loro essenziale unità. Ma soprattutto, in quanto racchiude in sé i principi della più armonica sintesi intellettuale, Helios viene identificato con Apollo, il quale, date le sue qualità fondamentali di immutabilità, perfezione, eternità, eccellenza intellettuale, è la personificazione dell’unità divina esprimentesi come intelligenza pura ed assoluta.
L’ultima parte dell’Innocontiene una rassegna dei doni e dei benefici dispensati da Helios al genere umano, che da lui trae origine e da lui riceve sostentamento. Padre di Dioniso e signore delle Muse, Helios elargisce agli uomini ogni saggezza; ispiratore di Apollo, di Asclepio, di Afrodite e di Atena, egli è il legislatore della comunità; infine è lui, Helios, il vero fondatore e protettore di Roma. È dunque a questo dio, creatore della sua anima immortale, che Giuliano rivolge la richiesta di accordare all’Urbe un’esistenza parimenti immortale, identificando così “non solo la sua missione personale sulla terra, ma anche la sua salvezza spirituale, con la prosperità dell’Impero” (19).
Il discorso è suggellato da una preghiera finale a Helios, la terza contenuta nell’Inno: che il Re dell’universo conceda al suo devoto celebrante una vita virtuosa e un più perfetto sapere e, nell’ora suprema, lo faccia ascendere in alto fino a Sé.
Giuliano dedica l’Inno al Re Helios a quel Sallustio che nel trattatello Sugli dèi e il mondo formula la dottrina dell’Unità nei termini seguenti: “La causa prima conviene che sia una, poiché l’unità precede ogni molteplicità e supera tutto in potenza e bontà; e per questo è necessario che tutto partecipi di essa, poiché nient’altro la ostacolerà, data la sua potenza, né la allontanerà, data la sua bontà” (20).
Considerata in un quadro storico, la teologia solare di Giuliano si colloca in una fase matura del neoplatonismo, nella quale i cardini dottrinali di questo movimento spirituale si trovano già definitivamente fissati e consolidati. Se il fondatore della scuola, Plotino (204-270), aveva riconosciuto nell’Uno il principio dell’essere ed il centro della possibilità universale, il suo successore Porfirio di Tiro (233-305) aveva dedicato alla teologia solare un trattato Sul Sole, andato perduto (21). Ne sussiste una citazione nei Saturnalia, là dove Macrobio, riconducendo al principio solare Apollo, Libero, Marte e Mercurio, Saturno e Giove, dice che secondo Porfirio “Minerva è la forza del Sole che dà prudenza alle menti umane” (22). D’altronde nel trattato Sulla filosofia degli oracoli(23), Porfirio aveva citato un responso apollineo secondo il quale c’è un solo dio, Aiòn (“Eternità”), mentre gli altri dèi non sono altro che i suoi angeli.
Dopo Giuliano, è possibile seguire la tradizione “solare” fino a Proclo (410-485), autore fra l’altro di un Inno a Helios in cui Helios è invocato come “re del fuoco intellettuale” (pyròs noeroû basileû, v. 1) e “immagine del dio generatore di tutte le cose” (eikôn panghenétao theoû, v. 34) (24), cioè come epifania del Dio Supremo. Per quanto riguarda la pluralità degli dèi della religione, Proclo la risolve riportandola all’Uno; e l’Uno è Dio, perché, argomenta, il Bene e l’Uno sono la stessa cosa e il Bene si identifica con Dio (25). Si capisce allora perché Henry Corbin abbia caldamente auspicato il confronto tra la teologia di Proclo e le dottrine dello Pseudodionigi e dello Shaykh al-Akbar. In particolare, egli scrive, sarebbe molto istruttiva
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