Di Fabio Calabrese
La ricostruzione che, negli articoli dedicati alla “Ricerca delle origini” abbiamo cercato per l’appunto di tracciare sulle origini della nostra specie si basa su di un implicito presupposto: la specie umana ha un suo divenire biologico ed è sorta distaccandosi da un ceppo di antenati non umani. Più in generale. Le specie si trasformano nel tempo per l’accumulo di vantaggi selettivi in conseguenza della pressione dell’ambiente e della lotta per sopravvivere e trasmettere il proprio patrimonio genetico alle generazioni future.
Si tratta in sostanza della teoria di Charles Darwin. Noi tutti sappiamo che nei nostri ambienti il nome di Charles Darwin e il concetto di evoluzione provocano immediatamente una fortissima ostilità. Si tratta di un atteggiamento fondato o di un pregiudizio? Non ci è forse sfuggito qualcosa di fondamentale? Non abbiamo forse fatto nostra senza avvedercene un’assimilazione fra il darwinismo biologico e il concetto “progressista” compiuta dalla sinistra e che, a conti fatti potrebbe anche essere totalmente errata? E’ venuto il momento di rifare i conti con Darwin.
Darwin è stato forse, a metà ottocento, uno degli ultimi grandi scienziati della linea genealogica che congiunge Copernico, Galileo, Newton, Lavoisier: Charles Darwin, ed ha avuto una grande intuizione: la trasformazione delle specie viventi nel tempo si spiega con la selezione naturale, la sopravvivenza dei più adatti nella lotta per l’esistenza, l’incessante battaglia non solo fra predatori e prede, ma fra membri della stessa specie, per accedere alle risorse e per riprodursi. La selezione non è solo il carnefice degli inadatti, ma attraverso l’accumulo di variazioni favorevoli, costruisce i tipi superiori.
Questa concezione, ferocemente contrastata ancora oggi da alcuni per motivi religiosi, per altri è un’ovvietà, e in effetti, se non ci fossero di mezzo l’imperiosità e l’astrattezza di dogmi delle religioni abramitiche, ci sarebbe veramente da chiedersi quale singolare presunzione possa spingere qualcuno a pensare che la natura non possa fare quello che l’uomo fa comunemente: modificare le specie animali e vegetali nel corso del tempo, non è stato necessario arrivare alle odierne escogitazioni dell’ingegneria genetica, la specie umana lo fa da millenni attraverso l’agricoltura e l’allevamento.
Questa concezione veniva a urtare frontalmente con il racconto della genesi in un’epoca in cui la bibbia era ritenuta “la verità” per definizione e il cristianesimo era considerato in modo indiscusso “la tradizione”. In più si poteva interpretare la trasformazione delle specie nel tempo con un giudizio di valore, facendone uno sviluppo sempre e comunque ascendente, cioè quella che si chiama “evoluzione” (termine che Darwin non amava e che ne “L’origine delle specie” compare una sola volta).
Potremmo dire che se per evoluzione intendiamo la trasformazione delle specie nel tempo per effetto della selezione naturale, questa è certamente la concezione di Darwin, ma se intendiamo con questa parola l’idea di uno sviluppo sempre e comunque ascendente perché guidato da un impulso insito nella vita a perfezionarsi o perché manifestazione di un piano provvidenziale che la guida, allora, paradossalmente, dovremmo contare Charles Darwin fra gli anti-evoluzionisti. Egli, ad esempio, si compiaceva di far notare ai suoi interlocutori come la degenerazione di un parassita che perde gli organi non necessari alla vita all’interno di un organismo ospite, sia altrettanto perfettamente adattiva del salto di una gazzella.
Che Darwin sia stato totalmente frainteso, era anche l’idea espressa dal biologo francese Jacques Monod nel bel “saggio di filosofia naturale” “Il caso e la necessità”. Secondo Monod, negli esseri viventi sono riconoscibili due proprietà: l’invarianza e la teleonomia. L’invarianza è la tendenza a replicarsi in maniera simile a sé nei propri discendenti, a trasmettere l’informazione genetica da una generazione all’altra; la teleonomia è la tendenza a formare strutture complesse funzionali alla sopravvivenza. Vi possono essere due modi completamente diversi e antitetici di interpretare il divenire degli esseri viventi (se non vogliamo usare la parola “evoluzione” per il giudizio di valore che implica): o l’invarianza precede la teleonomia, che è semplicemente l’accumulo selettivo di variazioni casuali a partire da una struttura tendenzialmente invariante, che è precisamente la concezione darwiniana, o al contrario la teleonomia precede l’invarianza, e allora abbiamo il concetto di evoluzione come è comunemente inteso, lo sviluppo delle forme viventi come materializzazione di un progetto ascendente in cui un principio teleonomico (o teleologico) produce, orienta e guida l’invarianza. Questa concezione è assolutamente non-darwiniana, e Monod elenca i pensatori che hanno frainteso Darwin presentando una concezione evoluzionistica che è l’esatto opposto del pensiero dello scienziato inglese: Karl Marx in primo luogo, poi Henry Bergson e infine quel gran mescolatore di idee scientifiche e religiose mal comprese sia le una sia le altre che è stato il gesuita Teilhard de Chardin.
Nell’idea non-darwiniana di un’evoluzione teleologicamente guidata verso livelli progressivamente ascendenti, si vede bene il residuo di un elemento teologico cristiano, “Dio” che si manifesterebbe appunto attraverso l’evoluzione, e se laicizziamo questo residuo di cristianesimo sostituendo a Dio la dialettica immanente alla storia in una conce
zione che fraintende Hegel così come fraintende Darwin, si vede bene a cosa si arriva. E’ questa l’accezione più comune con cui viene inteso il concetto di evoluzione, ma occorre insistere su questo punto: siamo proprio all’altro capo dell’universo rispetto a Darwin.
zione che fraintende Hegel così come fraintende Darwin, si vede bene a cosa si arriva. E’ questa l’accezione più comune con cui viene inteso il concetto di evoluzione, ma occorre insistere su questo punto: siamo proprio all’altro capo dell’universo rispetto a Darwin.
Inteso in questo senso, ha pienamente ragione Silvano Lorenzoni quando osserva che l’evoluzionismo è un concetto tipicamente cristiano.
Questa idea, a sua volta, si mescolava con quella delle trasformazioni tecnologiche, economiche, sociali e politiche comunemente etichettate come “progresso”, assumendo una valenza politica molto lontana dal pensiero del suo autore, oltre che dalle tematiche scientifiche. In realtà, si tratta solo di una rozza e ingannevole metafora, poiché come possiamo facilmente comprendere, il divenire biologico delle specie non può avere nulla a che fare con trasformazioni di ordine politico e culturale che avvengono all’interno di una cultura umana, e basterebbe solo considerare la scala dei tempi, miliardi di anni per il primo fenomeno, pochi secoli per il secondo, qualunque cosa si voglia intendere con l’ambigua parola “progresso”.
Karl Marx in una lettera a Friedrich Engels definì il darwinismo “Il fondamento naturalistico del nostro modo di pensare”. Non poteva sbagliarsi di più, come non potevano sbagliarsi maggiormente tutti coloro che hanno visto nel darwinismo “una cosa di sinistra”.
Invece, se noi andiamo a scrollare dalla concezione darwiniana la patina emotiva che le è stata appiccicata, ci accorgiamo che l’idea della selezione naturale, della costruzione dei tipi migliori e più elevati attraverso la lotta che non ammette pietà per i deboli e i malriusciti, è la più bruciante sconfessione di tutte le utopie e farneticazioni cristiane, democratiche, progressiste, “di sinistra”, è una concezione aristocratica che permettere di cogliere a colpo d’occhio cosa siano nel loro insieme il complesso delle idee cristiano-demo-marxiste, niente altro che negazione della vita, puramente e semplicemente, il “santo masochismo” cristiano di cui democraticismo e marxismo non sono altro che le versioni laicizzate. Il santo masochismo di un’etica suicida in base alla quale oggi ad esempio cristiani, democratici e marxisti ci vogliono spingere ad accogliere a braccia aperte invasori allogeni che potrebbero finire per cancellarci come popolo.
La tendenza insita in ogni vivente a persistere nell’essere e a trasmettere alle generazioni future il proprio patrimonio genetico (il proprio, non quello di qualcun altro), tradotta in termini politici è alla base di quelle “brutte cose” – orribili per ogni “buon” cristiano, democratico o marxista – che si chiamano nazionalismo e razzismo.
Io ho già dedicato sulle pagine di “Ereticamente” un articolo, “La scienza manipolata”, a illustrare le assurdità, le contraddizioni, i contorcimenti e funambolismi logici cui sono costretti gli scienziati e i divulgatori democratici per non arrivare alle ovvie conclusioni implicite nella concezione darwiniana, e facevo tra l’altro il caso di Stephen Jay Gould che si era lanciato in un violento attacco contro il celebre etologo Konrad Lorenz, colpevole di non essersi attenuto alle regole dell’autocensura democratica, che fa la stessa impressione di un noto bugiardo che calunnia un galantuomo di riconosciuta e apprezzata onestà.
Tuttavia, se c’è qualcosa che sembra essere davvero comune a destra e sinistra, è il fraintendimento a questo riguardo. Io penso che il rifiuto della concezione darwiniana sia la falla nel cosiddetto pensiero tradizionalista: esso non lascia alla fine altra possibilità che quella di ricascare nel creazionismo, e quindi nelle religioni abramitiche. Da questo punto di vista, la casistica non esigua di coloro che sono passati da tradizionalisti evoliani a cattolici fanno più la pena per chi ha contratto una malattia psichica cronica che la rabbia per chi ha abbandonato una causa che si era impegnato a sostenere.
Si tratta di una posizione in ogni caso insostenibile che ci accomuna, o accomuna molti di noi ai fondamentalisti cristiani (soprattutto “made in USA”), agli islamici, ai testimoni di Geova, ma che soprattutto implica un restringimento degli orizzonti, in contrasto non solo con la biologia, ma con la geologia e, potremmo dire, tutte le scienze naturali, la riduzione della scala della storia del nostro pianeta da miliardi a poche migliaia di anni, oltre al rifiuto dell’evidenza fornita da tutta la documentazione fossile e geologica nonché la prova della parentela di tutti gli esseri viventi fornita in maniera eloquente dal DNA.
Non è un caso che, a parte un pugno di irriducibili fondamentalisti, anche la maggior parte dei cristiani abbia finito per ripudiare il creazionismo, o almeno cercare di non evidenziare quanto il racconto biblico sia in contrasto con le conoscenze scientifiche. Certo, rimane intransigentemente creazionista l’islam, ma l’islam è – fuori dai denti – una religione ignorante per gente ignorante e culturalmente deprivata al cui fonte di “conoscenza” è perlopiù rappresentata solo dalla “madrasa”, la scuola coranica, non solo, ma nettamente non-europea a cui rimane fondamentalmente estraneo non solo il il pensiero scientifico, ma tutto quell’approccio razionale alla comprensione del mondo che caratterizza tutta la nostra storia e ha cominciato a svilupparsi con la filosofia ellenica sette-otto secoli prima di Cristo. Io mi preoccuperei e mi vergognerei di trovarmi al fianco simili “alleati”.
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Ma non tutti sono cascati nella trappola.
“Tutti gli esseri crearono qualcosa di superiore a loro. E voi volete essere il riflusso di questa grande marea? Tornare alla scimmia e al verme piuttosto che superare l’uomo?”
Questo non è Darwin, è Nietzsche, “Così parlò Zarathustra”.
Oppure, ancora più sinteticamente:
“Chi non vuole lottare per la propria sopravvivenza, non merita di vivere”.
Anche questo non è “L’origine delle specie”, è il “Mein Kampf”.
Noi possiamo considerare con rispetto e venerazione l’antichità ellenica, e allora scopriamo che nella filosofia presocratica erano presenti intuizioni che potremmo chiamare evoluzioniste (sempre intese in senso non-provvidenziale), ad esempio Anassimandro, e il grande Eraclito aveva intuito il valore della lotta nella costruzione dei tipi più elevati, un intuizione filosofica, forse poetica, che anticipa il concetto scientifico di selezione naturale: “La guerra è madre e regina di tutte le cose”. Davvero al confronto “un’idea moderna, dunque un’idea falsa” appare piuttosto il creazionismo cristiano apparso sulla scena europea sette-otto secoli più tardi.
Esiste, è vero, un limitato gruppo di tradizionalisti che ritiene di poter letteralmente “saltare” il problema interpretando in maniera rigida il concetto di ciclicità del tempo. In questo caso, il problema non si porrebbe: tutto il discorso sulle origini, lo svolgimento, la fine verrebbe vanificato dalla perfetta circolarità, esattamente come non si può indicare alcun punto iniziale o finale di una circonferenza.
E’ un tipo di discorso che non trovo per nulla persuasivo, perché il tempo presenta una precisa “freccia” caratterizzata da fenomeni irreversibili, come per esempio tutti quelli che conosciamo come tendenza alla degradazione entropica.
Se ricordate, ne avevo già parlato sempre su queste pagine: noi di solito associamo il tradizionalismo a un atteggiamento pessimistico: “laudator temporis acti”, ma costoro mi sembrano davvero degli “ottimisti a scoppio ritardato” in misura davvero eccessiva. Possiamo davvero credere che una volta giunto il Kali Yuga alle sue estreme conseguenze degenerative, ricominci la risalita verso condizioni simili a quelle di una remota “età dell’oro”? E la biosfera stravolta e inquinata? Le risorse energetiche dissipate? Le numerose specie animali e vegetali portate all’estinzione? La stessa umanità stravolta dall’emergere dilagante di tipi umani inferiori a cui assistiamo oggi? Davvero, qui occorre o una fede cieca in qualche forma di intervento provvidenziale di origine trascendente, o non avere chiaro quale sia la dimensione dei problemi.
I sostenitori di questa tesi, chiamiamola della “perfetta circolarità” trovano un appoggio o almeno credono di trovarlo, nella concezione dell’Eterno Ritorno espressa da Friedrich Nietzsche. E proprio facendo leva sul concetto nicciano di Eterno Ritorno che, ad esempio Giuseppe Sermonti ha interpretato Nietzsche in funzione nettamente anti-darwiniana.
Tutto ciò lascia quanto meno aperto un problema: come si concilia quest’interpretazione con le tesi palesemente evoluzioniste che troviamo ad esempio nel discorso di Zarathustra al mercato? E questo nell’ambito della stessa opera, “Così parlò Zarathustra”. O Nietzsche è caduto in un’incoerenza assoluta, oppure abbiamo frainteso quel che ha cercato di dirci.
Io ho l’impressione che con l’intuizione dell’Eterno Ritorno, Nietzsche abbia attinto realmente una dimensione metafisica nel senso vero della parola, cioè una dimensione che oltrepassa la “phisis”, la realtà che conosciamo, a vederla dall’esterno, come una pellicola che può essere proiettata e riproiettata all’infinito. E’ un’intuizione che ricorda quella di Platone quando ha definito il tempo come “immagine mobile dell’eternità”, oppure l’ampiezza dei cicli cosmici descritta nei Veda.
Ma ovviamente il tempo interno del nostro mondo, il “tempo della narrazione” è tutt’altra cosa!
Julius Evola ha sviluppato quella che possiamo considerare come un’alternativa non creazionista all’evoluzionismo: la comparsa nella storia della vita di tipi di creature man mano più complesse e “superiori” non sarebbe l’espressione di una tendenza globalmente ascendente, ma al contrario, della caduta nella di
mensione materiale di tipi di esseri man mano più elevati: una concezione che salva la compatibilità con le acquisizioni della biologia e della geologia, ma ne cambia il segno, che mostrerebbe quella che dal punto di vista ontologico non è progresso, ma decadenza.
mensione materiale di tipi di esseri man mano più elevati: una concezione che salva la compatibilità con le acquisizioni della biologia e della geologia, ma ne cambia il segno, che mostrerebbe quella che dal punto di vista ontologico non è progresso, ma decadenza.
C’è solo un problema: si tratta di una concezione troppo difficile da comprendere per i molti, moltissimi “evoliani” che si sono scoperti tradizionalisti perché hanno letto qualche pagina di Julius Evola, magari solo “Orientamenti” e che, faute de mieux, finiscono poi per ripiegare su un abramitico creazionismo, perché, e scusatemi se lo dico fuori dai denti in tutta franchezza, ma a mio parere coloro che hanno poi visto nel tradizionalismo integrale una sorta di ponte per arrivare a quello cattolico, significa che avevano raggiunto una comprensione assai rozza, superficiale e approssimativa del pensiero del barone siciliano.
Charles Darwin e Julius Evola, il padre, o almeno colui che è reputato tale, del concetto di evoluzione, e il pensatore del tradizionalismo integrale. A prima vista, non sembrerebbe esserci nulla di più antitetico, ma se ci pensiamo bene, se ci rendiamo conto che Darwin non ha in realtà teorizzato l’evoluzione quanto piuttosto la selezione naturale, cioè il valore costruttivo della lotta per la sopravvivenza, e che Julius Evola non ha mai avallato concezioni creazioniste che avrebbero finito per riportare molti dei suoi presunti discepoli su posizioni abramitiche, la distanza che li separa è forse meno abissale di quel che avevamo pensato. In comune ci sono almeno il senso della tragicità dell’esistenza e l’avversione per le consolatorie favolette cristiane.
La distanza fra i due rimane nondimeno grande. Uno spazio dove possiamo situare la riflessione sull’essere umano, il suo divenire, il significato dell’esistenza, una volta sgombrato il campo dalle ubbie e dalle mistificazioni progressiste e democratiche.
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