8 Ottobre 2024
Antropologia Preistoria

Discontinuità nella nostra Preistoria

Di Michele Ruzzai
Nel mio precedente articolo “Quale Evoluzione ?” avevo accennato all’importanza di un approccio che, per arrivare ad una ricostruzione più completa possibile delle vicende legate alle origini ed ai primi percorsi umani, ponesse accanto alle acquisizioni delle moderne discipline scientifico-accademiche (paleoantropologia, paleolinguistica, archeologia preistorica, genetica delle popolazioni, storia delle religioni, ecc…) anche tutti gli elementi utili presenti nei Miti tradizionali dei popoli; Miti che, ricordavo, molto spesso esprimono concetti ben precisi, che in termini storici rimandano ad un’idea di ciclicità e di discontinuità temporale piuttosto che di lineare “progressività”, in termini geografici ad una lontana provenienza boreale piuttosto che africana, in termini antropogenetici a mitiche origini sovrumane piuttosto che subumane.

Il tema delle radici sovrumane e di una lettura critica delle teorizzazioni “evoluzionistico-progressive” è stato appena affrontato, mentre mi riprometto prossimamente di esporre qualche considerazione in merito alle evidenze di una provenienza boreale e ad una critica delle presunte origini africane. Rimane quindi sul tavolo il discorso della discontinuità temporale della nostra storia antica, il cui episodio più rilevante credo si sia verificato proprio all’inizio del nostro ciclo – o Manvantara – a marcare una netta separazione rispetto al ciclo precedente, di pertinenza di un’altra Umanità. Come già accennato in precedenza, in termini “tradizionalisti” su questi concetti si sono espressi soprattutto Renè Guenon e da Gaston Georgel, ma quello che mi interessa esporre ora sono soprattutto gli elementi di carattere preistorico che possono fornire una conferma a questo assunto. 

Nei miei articoli precedenti avevo infatti già accennato a quello che ritengo costituire uno hiatus piuttosto significativo, situato nel lasso di tempo posto fra 65.000 e 52.000 mila anni or sono e corrispondente alla prima metà dell’età paradisiaca, nonchè al primo quinto della durata totale del nostro Manvantara (lungo, appunto, all’incirca 65.000 anni ed al cui termine siamo quindi molto prossimi); uno hiatus durante il quale la forma umana pertinente al nostro ciclo non era ancora arrivata alla fisicizzazione che ci caratterizza attualmente, implicando quindi una carenza di ritrovamenti riconducibili alla specie Sapiens.

Tuttavia, vi sono anche reperti nettamente antecedenti a 65.000 anni fa ed attribuibili ai cosiddetti “uomini anatomicamente moderni” (in breve “U.a.m.”, sinonimo di Homo Sapiens), dove il termine “moderni” in paleoantropologia viene utilizzato in una prospettiva ovviamente evoluzionistica, presupponendo altre specie del genere Homo – come ad esempio i Neanderthal o gli Erectus – considerate meno “moderne” di noi; ma, nell’ottica che abbiamo scelto di prendere come base, questi ritrovamenti antichi appartengono a Manvantara, e ad Umanità, precedenti e separate dalla nostra. Ne viene data un’ampia panoramica nello studio di Cremo e Thompson, che si pone in termini “eretici” rispetto all’ambiente accademico, ma che comunque è utile per la conferma dell’estrema antichità della forma Sapiens, addirittura su grandezze che arrivano fino a diversi milioni di anni. Dal canto suo, la comunità scientifica odierna si guarda bene dallo spingersi così indietro nel tempo e data i più antichi ritrovamenti ricollegabili a U.a.m. non oltre ai 200.000 anni (tranne quello, potenzialmente molto destabilizzante, di Qesem in Israele, che potrebbe arrivare anche a 400.000 anni): si tratta dei siti africani di Omo, Herto, Pinnacle Point, Border Cave, Klasies, Blombos, e quelli extraafricani di Jebel Faya, Skhul, Qafzeh, Liujiang, Kununurru (e quindi tali da mettere in discussione la validità della teoria “Out of Africa”, ma questo è un discorso che vedremo nel dettaglio più avanti). Il limite inferiore dei 65.000 anni viene avvicinato dai ritrovamenti di conchiglie perforate risalenti a 82.000 anni fa a Taforalt in Marocco orientale, dai ritrovamenti menzionati da Nicholas Wade (76.000 anni) o i resti di ocra rossa accennati da Tartabini / Giusti (forse di 70.000 anni fa); gli stessi ritrovamenti di Klasies non sembrano comunque avere, al minimo del loro range ipotizzato, un’antichità inferiore a 70.000 anni fa e denotano successivamente un completo abbandono dall’occupazione umana, probabilmente a causa di siccità della zona durata fino a 15.000 anni or sono. In tempi immediatamente più recenti, da quanto a mia conoscenza, vi sarebbe solo la cultura sudafricana di Howiesons Poort, forse collocabile circa 60-65.000 anni fa ma le cui caratteristiche pienamente “moderne” non sembrano trovare unanimità tra gli studiosi; destano infatti diverse perplessità le enigmatiche circostanze della sua scomparsa, in quanto stranamente soppiantata da una tecnologia che sembrerebbe meno raffinata e quindi in rapporto alla quale potrebbe non aver rappresentato un livello realmente superiore. Si è osservato, cioè, che tutte queste labili e precoci evidenze di comportamenti “moderni” sarebbero stranamente comparse e scomparse “ad intermittenza”, ponendo i ricercatori davanti ad una serie di problematici interrogativi. Alcuni autori, infatti, mettono in dubbio la presenza di comportamenti umani inequivocabilmente “moderni” prima di 45-50.000 anni fa (ad esempio, Klein pone l’inizio della tarda età della pietra in Africa nel Kenya centrale non prima di tale data), se non in un momento ancora più recente, come ad esempio Lewin che ne considera m
o
lto incerta Ia presenza prima di 40.000 anni fa nell’Africa subsahariana; altri invece ammettono nella stessa zona alcune caratteristiche di comportamento umano “moderno”, come qualche evidenza di arte astratta, già 90.000 anni fa (quindi, nella nostra ottica, ricadenti nel Manvantara precedente), ma sono evidenze che però sembrano poi scomparire circa 65.000 anni fa (strana coincidenza !) per ripresentarsi ben 25.000 anni dopo. Uno “hiatus” forse avvicinabile a quanto segnalato da Nicholas Wade che rileva come circa 50.000 anni fa buona parte dell’Africa fosse disabitata.

Pur sempre rimanendo nella classica ottica “continuista”, alcuni autori arrivano ad ipotizzare che tale incertezza nel percorso evolutivo umano sia dovuta al fatto che la prima popolazione “moderna” di 100.000 anni fa doveva comunque essere anatomicamente piuttosto diversa da quella di 50.000 anni dopo e forse priva di facoltà neurologiche pienamente adeguate, elemento non riconoscibile attraverso i reperti scheletrici; appena attorno a 50.000 anni fa queste capacità cognitive si sarebbero pienamente consolidate portando al definitivo passaggio – che in termini culturali (industrie litiche e manifestazioni artistiche) sembra sia stato piuttosto netto – tra Paleolitico medio e Paleolitico superiore. Un passaggio che, in termini paleoclimatologici, può forse essersi verificato nell’interstadiale Laufen / Gottweig tra 40.000 e 50.000 anni fa, o magari più precisamente nel periodo di Peyrards tra 44.000 e 42.000 anni fa, e che denoterebbe una discontinuità culturale forse anche da mettere in sincronìa con la nascita del linguaggio umano, idea condivisa anche dal genetista Svante Paabo e singolarmente molto vicina a quella a suo tempo proposta dal glottologo Alfredo Trombetti.

Rispetto alla fase (Manvantara) precedente, quindi, tale hiatussembrerebbe ravvisabile in diversi elementi di discontinuità della storia umana; oltretutto, in termini paleoclimatologici, potrebbe trovare un’ulteriore conferma anche dalle recenti ipotesi sulla “Catastrofe di Toba”, ovvero l’esplosione – avvenuta proprio 60-70.000 anni fa – di un supervulcano in Indonesia che avrebbe causato, su scala globale, una grave crisi climatica e demografica, della quale la nostra specie conserva ancora alcune evidenze genetiche, ipotesi rafforzata da ulteriori dati che indicherebbero un crollo della popolazione in Africa a causa di un improvviso e forte calo di temperatura. In “Puntualizzazioni e approfondimenti, seconda parte” Fabio Calabrese ha espresso delle perplessità in merito alla veridicità di questo cataclisma, osservando come ne sarebbero stati miracolosamente preservati i famosi “Hobbit” (una popolazione di piccoli ominidi – ribattezzata Homo Floresiensis – esistiti fino a tempi recenti nell’isola di Flores in Indonesia); una perplessità perfettamente giustificata qualora gli Hobbit vengano fatti derivare in linea continua da precedenti Homo Erectus asiatici, ipotizzandone quindi la presenza in zona anche all’epoca della catastrofe. Ma, come sembrano mostrare le più recenti datazioni che li pongono tra 15 e 18.000 anni fa, e non più in un arco molto maggiore che inizialmente li situava potenzialmente tra 90.000 e 12.000 anni fa, forse è anche ipotizzabile che gli Hobbit all’epoca della Catastrofe di Toba non esistessero ancora, e che potrebbero essere sorti solo successivamente per “involuzione” (analogamente al caso di Pestera cu Oase segnalato nell’articolo preced
ente) delle popolazioni “moderne” locali, vista anche la relativa somiglianza che denotano con gli attuali pigmoidi dell’area ed il fatto che Homo Floresiensis sembrerebbe aver realizzato manufatti il cui livello è altrove associato solo a Homo Sapiens.

Quindi, ormai entrati nel nostro Manvantara, e se escludiamo la controversa cultura di Howiesons Poort, con i dati attualmente in mio possesso nel mondo non sembrano proporsi reperti “Sapiens” situabili nel periodo tra 65.000 e 52.000 anni fa; nel dettaglio, proviamo ora a fare una carrellata tra le più antiche datazioni, o ipotesi di occupazione umana, proposte dai vari ricercatori per U.a.m., e vediamo se ne emerge qualcuna che presenta antichità maggiore di 52.000 anni.

Iniziando dall’Africa, non mi risulta vi sia notizia di altri siti chiaramente legati a U.a.m. prima di quelli di Dar-es-Soltane e Temara in Marocco, situabili a circa 40-50.000 anni fa, o forse anche un po’ di più ma, anche qui, senza il generale consenso dei ricercatori; nell’immediata prossimità del continente africano, le prime manifestazioni di Paleolitico superiore sarebbero risalenti a 50.000 – 47.000 anni fa, rappresentate dai siti di Boker Tachtit in Negev e El Wad sul Monte Carmelo, o analoghe industrie, ma un po’ più recenti (44.000 anni fa), sarebbero quelle di Ksar Akil in Libano. Procedendo poi verso sud-est, nello Sri-Lanka in prossimità di Balangoda (grotta di Batadomba), si segnalano ritrovamenti relativamente recenti, forse databili a 34.000 anni fa, mentre nell’Insulindia i reperti di Niah Cave nel Borneo vengono genericamente collocati tra 50.000 e 35.000 anni fa, con quelli di Giava (Wadjack) e Filippine (Palawan) che dovrebbero essere ancora meno antichi. In ogni caso, per Lewin, prove archeologiche anteriori a 45.000 anni fa di una presenza umana in zona (Nuova Guinea) sono scarsissime. 

Per quanto riguarda l’Australia ci troviamo su date simil
i: ad esempio Willandra Lakes tra 50.000 e 35.000 anni fa e Lago Mungo a “soli” 42.000 anni fa (ridatato dai precedenti 60.000 anni). Wade peraltro segnala circa 46.000 anni fa un episodio di massiccia estinzione di tutti i mammiferi più grandi, desumendone da ciò, in quel periodo, il primo ingresso di U.a.m. in Australia. In buon accordo con questa datazione, l’antichità della famiglia linguistica australiana viene stimata a circa 40.000 anni da Merritt Ruhlen o al massimo a 45.000 anni da Johanna Nichols assieme a quella “Indopacifica” della Nuova Guinea. Al massimo, da stime genetiche, australiani e melanesiani non sarebbero migrati in sito più di 50.000 anni fa.

In alternativa alla via costiera sud asiatica, una ipotetica direttrice migratoria più continentale non sembra trovare per Cavalli Sforza elementi archeologici a sostegno databili attorno a 60-70.000 anni fa; ad esempio, vi sono reperti situabili non prima di 35-50.000 anni fa a Diarra-i-Kur (Afganistan). Il genetista, infatti, ipotizza proprio tra 30 e 50.000 anni fa l’iniziale popolamento centroasiatico che secondo lui – e qui già iniziamo a parlare di famiglie linguistiche – avrebbe generato il sumerico, il burushaski nel Pamir, e parte del caucasico. In buon accordo con Diarra-i-Kur sembra la datazione di 43.000 anni fa dei reperti rinvenuti nella zona degli Altai, bacino del Tarim, segnalati da Olson, mentre un po’ più ad est, lo scheletro Tianyuan 1, rinvenuto nel 2003 vicino a Pechino, evidenzierebbe un’età non superiore ai 38.500-40.000 anni, classificandolo tra i più antichi dell’Asia orientale.

Più ad ovest, sempre secondo Cavalli Sforza, e provenendo dall’Asia meridionale e dall’Africa nord-orientale, inizia tra 40.000 e 45.000 anni fa il popolamento del Medio Oriente e da qui quello dell’Europa; il genetista vi connette gli elementi linguistici sopra ricordati come parte di una più ampia famiglia “sinodenecaucasica” (che comprenderebbe anche il basco, le lingue sinotibetane, il nadene nordamericano e l’etrusco) e che, citando anche Ivanov, poteva essere al massimo della sua espansione circa 40.000 anni fa, estendendosi su tutto il settentrione dell’Europa e dell’Asia. Forse per l’Europa vi è la possibilità di andare ancora qualche millennio più indietro se consideriamo i ritrovamenti di Creta, pur non inequivocabilmente riconducibili a U.a.m. e risalenti a 51.000 anni fa, o quei di Starosel’e in Russia, genericamente segnalati da 35.000 a forse fino 50.000 anni or sono. Va detto che sino a qualche anno fa i più antichi ritrovamenti sicuramente riconducibili al Paleolitico Superiore, e quindi collegabili alla presenza di uomini anatomicamente moderni in Eu
ropa, erano considerati i siti di Bacho Kiro e Temnata in Bulgaria, datati oltre 40.000 anni fa, suggerendo un’ingresso di popolazioni dal medio oriente attraverso la penisola balcanica; in questo quadro appariva coerente anche il ritrovamento ungherese della grotta Istallosko, nei monti Bukk, di punte di cultura aurignaziana valutate attorno a 42.000 anni fa. Successivamente, però, il tutto è stato reso meno chiaro da stime similari emerse anche per altri siti europei, avviando un processo generale di retrodatazione della colonizzazione dell’Europa dell’est e delle pianure russe; ad esempio, analisi sui reperti russi di Kostenki evidenzierebbero un’antichità, per l’occupazione dell’area, vicina a 45.000 anni fa. Una tendenza generale che tuttavia sembra coinvolgere anche reperti meno orientali, come la mandibola di Cavern Kent dell’Inghilterra sud-occidentale (tra 44.000 e 41.000 anni fa), quelli della Grotta del Cavallo nella Baia di Uluzzo in Puglia (44.000 anni fa per reperti precedentemente ritenuti neandertaliani), di Fumane in Veneto (40.000 anni fa) e di Magrite in Belgio (tra 43.000 e 41.000 anni fa). Inoltre, tra 45.000 e 40.000 anni fa è stata osservata un intrusione rapida di gruppi aurignaziani cromagnoidi verso ovest lungo le rive settentrionali del Mediterraneo, fino ad arrivare in Spagna dove i siti di El Castillo e Romanì vengono fatti risalire ad un periodo compreso tra 43.000 e 41.000 anni fa. Peraltro, in altre aree appartate dell’Europa occidentale, vi sono prove di industrie associabili all’Uomo di Neandertal (Castelperroniano, Uluzziano) che addirittura, in rapporto a quelle aurignaziane, risulterebbero più recenti. Guardando invece verso nord-est, Kozlowski pone tra 45.000 e 30.000 anni fa la “rioccupazione” umana della grande pianura europea fino al bacino del fiume Pechora (Russia settentrionale, oltre il Circolo Polare Artico….).  

Infine l’America. In tempi recenti si è alquanto ravvivato il dibattito attorno ai tempi ipotizzati per il primo popolamento del continente da parte di Homo Sapiens; ciò essenzialmente sulla base di ritrovamenti che presenterebbero datazioni anteriori a quelle attribuite alla cultura Clovis, di circa 12.000 anni fa, e a lungo ritenuta la più antica del “Nuovo Mondo”. Va innanzitutto ricordato che la via principale di questo popolamento dev’essere stata costituita dall’istmo di terra, allora emerso, che ora è costituito dallo stretto di Bering, stretto braccio di mare che divide la Siberia orientale dall’Alaska; sono state ipotizzate anche vie migratorie alternative, sulle quali ora non è però il caso di soffermarci e che eventualmente tratteremo in seguito. In ogni caso, è stato valutato che tale istmo emerso – la “Beringia” – dovette essere alquanto esteso, rendendosi geologicamente percorribile in un arco di tempo sul quale la letteratura propone date abbastanza differenziate, i cui limiti più larghi sarebbero collocabili tra i 72.000 ed i 14.000 anni fa. In merito ai reperti rinvenuti in America, ve ne sono diversi tra quelli incompatibili con la teoria del popolamento Clovis, ma i più antichi che vorrei qui ricordare sono costituiti dal bambino di Taber, nel Canada occidentale, risalente forse a 40.000 anni fa, il sito di Topper nella Carolina del Sud, abitato forse già 50.000 anni fa (ma la data è contestata) ed i resti rinvenuti a Pedra Furada in Brasile, anch’esso di circa 40.000 anni fa. Sulla base di tali elementi, non è quindi più azzardato collocare, da parte di un settore crescente della comunità scientifica, l’inizio del popolamento continentale ad opera dei primi Paleoamericani attorno – anche qui – a 40-50.000 anni fa; datazione forse confermata anche dalla “distanza genetica” delle genti americane rispetto a quelle del vecchio mondo, che situerebbero il momento di primo ingresso in America attorno ai 43.000 anni fa, o anche da valutazioni di carattere glottologico, che porterebbero Johanna Nichols a stimare in non meno di 45.000 anni l’età linguistica americana. Se quindi il popolamento di tutto il continente è stato così arcaico, ne consegue che anche la presenza umana nella stessa Beringia deve esserlo stata almeno altrettanto; possono certamente essere esistite anche vie alternative di ingresso in America, ma comunque una elevata antichità della presenza umana alle latitudini più elevate sembrerebbe confermata anche in via diretta dal sito forse più antico di tutto il continente, quello di Old Crow, nel nord Yukon in Canada (posto oltre al Circolo Polare Artico), dove sono stati rinvenuti reperti risalenti ad almeno 50.000 anni fa. Una datazione significativa che potrà servire da spunto di partenza per le analisi del prossimo articolo.

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