16 Luglio 2024
Libreria Recensione

Quando la medicina è veleno

di Gianpiero Mattanza

Se la salute pubblica è il bene supremo, la migliore forma di governo è quella che persegue, prima di tutto, la salvaguardia di tale bene. Essendo i medici i sommi guardiani del benessere psicofisico, risulta chiaro come essi debbano anche essere investiti del potere politico. Poco importa se assoluto. Anzi, ben venga: in una dittatura medica, non può esistere sofferenza. È ciò che sostengono i fautori della Medarchia, totalitarismo mondiale retto da un’elite di seguaci di Ippocrate, per legittimare il proprio potere assoluto ne I prigionieri del caduceo, romanzo di Ward Moore proposto nell’uscita di maggio 2015 dalla collana Urania edita − se serve ricordarlo −  da Mondadori.

Nell’universo distopico creato dall’autore statunitense, il dispotismo medico opprime la popolazione mondiale con una psicosi salutista, un’ipocondria di massa giuridicamente legittimata. Chiunque non si sottoponga a dettagliati e continui esami medici, chiunque non circoli con la cartella clinica sempre a portata di mano per giustificare il proprio stato di salute viene considerato un anormale, un deviato, un sovversivo: l’unica vera cura, in questo caso, è la “tanatizzazione”, arcaizzante neologismo coniato dall’autore per definire il processo di eliminazione fisica.

In quest’utopia rovesciata, in cui il possesso del bene comunemente considerato massimo − la salute, appunto −  o la sua perdita possono diventare motivo di discriminazione e oppressione, c’è anche qualcuno che riesce a vedere la follia che si cela dietro tutto ciò. Un gruppo di “anormali”, come vengono chiamati i dissidenti, cerca di minare la stabilità della Iatrarchia, la versione statunitense − linguisticamente più integralista nel nome in senso greco−  della Medarchia. Ciò che lega il manipolo di anormali americani protagonisti del romanzo − che costituiscono una vera e propria, per quanto anomala, famiglia −  è l’impulso irrazionale e anti-scientifico per definizione: l’amore. Tensione verso la libertà e la verità in primis, ma anche reciproca philia tra esseri umani che non si piegano alla spietata dittatura della “salute”.

La costruzione narrativa, in realtà, non mette in discussione la stabilità del potere assoluto della Iatrarchia: i tempi non sono ancora maturi per una rivoluzione, quindi i protagonisti non possono che cercare di salvarsi da una repressione sempre più serrata, per poi organizzare una resistenza “a distanza”. Questo nell’unico luogo in cui la Medarchia mondiale non ha potere: l’Inghilterra. I prigionieri del caduceo presenta quindi una costruzione narrativa giocata integralmente sulla vicenda avventurosa dei protagonisti, che si allontanano sempre più dal centro della follia ipocondriaco-salutista, venendo braccati dagli inquietanti sgherri cyborg al soldo del Sistema.

Il romanzo mise in scena in tempi “non sospetti” (uscì per la prima volta su rivista nel 1959 come Caduceus Wild, per poi essere pubblicato postumo, in volume, nel 1978) la follia salutista a cui oggi siamo sempre più soggetti, come racconta l’interessante dossier firmato da Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco: “Il dono (tradito) di Apollo” (p. 276). In questa consistente appendice i due studiosi, tra i massimi esperti italiani di letteratura fantastica e fantascientifica, elencano anche vari precedenti letterari legati tematicamente al romanzo in questione. Si passa dalle paleo-antiutopie di Samuel Butler (Erewhon, pubblicato nel 1872) e Leon Daudet (Les Morticoles, uscito nel 1894) a grandi classici come Brave New World di Huxley (1932), proseguendo con Bernard Wolfe (autore, nel 1952, di Limbo), arrivando al “nostro” Trentasette centigradi (1963), scritto dal padre della sci-fi italiana Lino Aldani. De Turris e Fusco analizzano inoltre, con la precisione degli esperti di tradizionalismo, il simbolo attorno a cui ruota il titolo del romanzo: il caduceo. Spesso confuso con il bastone di Asclepio, che prevede un unico serpente attorcigliato ad un bastone, il caduceo è in realtà “[…] simbolo dei medici soprattutto negli Stati Uniti, dove è appunto ambientata la storia di Ward Moore.” (p.283). Questo ad evidenziare come, spesso, la grossolana modernizzazione del simbolo porti ad una deformazione e banalizzazione dello stesso, in direzione di un’immediata ma superficiale identificazione con un tale “referente” − per usare un termine legato alla linguistica −  e a scapito di una comprensione alta e totale del suo significato (o significati). Un pericolo, questo, dal quale gli autori di opere fantastiche o fantascientifiche − in cui più probabile risulta l’utilizzo del simbolismo tradizionale, per quanto celato o “mutante”−  dovrebbero guardarsi.

Anche se troviamo poco condivisibile la velata critica dell’autore ad alcune manifestazioni della società tradizionale, definite genericamente “primitive” e accostate in modo francamente goffo alla dittatura del romanzo (“Lui diceva che lo Stato medico è un tipo di governo tutt’altro che nuovo. Le tribù primitive, per esempio. Il vero capo era lo sciamano, che dominava con la paura, proprio come […] adesso”, p. 43), punto di vista probabilmente dovuto a quel “metodo storico” che tanto peso ha avuto e ha tuttora parlando di “cultura” in senso lato, riteniamo il romanzo di Ward Moore un lavoro di qualità.

I prigionieri del caduceo è una pubblicazione che si inserisce nella produzione generalmente soddisfacente di Urania spiccando per l’originalità del tema. L’oculata scelta operata dai curatori, che hanno dato spazio ad un autore forse non pienamente “classico” ma ampiamente rappresentativo della sci-fi statunitense, dimostra come anche scrittori ormai appartenenti ad un’altra epoca possano ancora tratteggiare − con lungimiranza doppia −  le inquietudini portate dalla modernità. Trasformando, è il caso di dirlo, il veleno in farmaco.

Urania 1618Ward Moore, I prigionieri del Caduceo, Urania Mondadori, Milano 2015, pp. 285, €4,90.

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