16 Luglio 2024
Appunti di Storia

1922: l’anno primo dell’Era Fascista (sesto capitolo)

11. La fiumana

Per reazione all’operato della “colonna di fuoco”, l’“Alleanza del lavoro”, neo costituita Associazione sindacale e politica, in funzione principalmente antifascista, proclama lo sciopero generale nazionale, che si rivelerà un completo fallimento, non solo per la pronta reazione fascista, ma anche e soprattutto, per la ormai scarsa rispondenza che le parole d’ordine socialcomuniste hanno nel Paese.

Si va infatti sviluppando, fino a diventare sempre più consistente, in parallelo alla ripresa offensiva squadrista del primo semestre dell’anno, il fenomeno del passaggio di campo di leghe e sezioni socialiste al completo; è un fenomeno soprattutto sindacale, che riguarda le masse organizzate e che può essere sintetizzato in alcune cifre: gli iscritti ai Sindacati fascisti passano dagli iniziali 250.000 a 450.000 al Congresso corporativo di giugno a Milano, e sono 700.000 ad ottobre, alla vigilia della marcia:

Masse di operai passano ai nostri Sindacati. I socialpussisti, davanti al fatto, hanno sentito l’estremo pudore di ritirare dalla circolazione la storiella dei “prigionieri” del fascismo. I prigionieri sono ormai in numero così imponente che potrebbero aver ragione dei loro “carcerieri”. Inoltre, questi passaggi sono accompagnati da manifestazioni clamorose e mortificanti di pentimento, come la consegna di simboli e bandiere.

L’irrompere di tante nuove forze comporta anche la nascita di problemi nuovi, politici ed organizzativi; Farinacci, al Comitato centrale del 13 agosto, fa presente  con chiarezza che, il fatto di aver ereditato dalle organizzazioni socialiste la massa bracciantile delle campagne impone che il fascismo divenga al più presto forza di governo, perché l’inverno è alle porte ed i problemi di mera sopravvivenza di tali masse possono essere efficacemente risolti solo controllando per intero l’economia nazionale.

Se così non sarà, se a queste masse non si potranno dare fatti, oltre che belle parole, esse si riveleranno, alla lunga, un fattore di debolezza e non di forza per il movimento, così come lo sono stato per  il socialismo.

Se si sono ereditate le masse, appare giusto che si erediti anche l’apparato immobiliare che, spesso con il sacrificio economico di queste masse, è stato costituito: a Firenze, dopo un comizio di Giacomelli e Rossoni, a fine agosto, viene approvato un ordine del giorno che chiede all’Autorità la consegna della Camera del lavoro cittadina alle Organizzazioni del lavoro fasciste, in considerazione proprio del fatto che la gran parte degli aderenti alla stessa Camera del lavoro ha ormai, di fatto, sconfessato l’operato dei suoi vecchi dirigenti, passando al fascismo.

Il fenomeno delle adesioni collettive, con bandiere, simboli e sedi, interessa anche Partito e gruppo parlamentare: Bianchi, nello stesso periodo, si vede costretto a ribadire che non sono consentite iscrizioni collettive, ma ogni singola domanda, controfirmata dai soci presentatori, deve essere opportunamente vagliata, mentre anche al gruppo parlamentare è fatto divieto di accettare ulteriori adesioni.

E’, però, tra i lavoratori che la disgregazione dell’associazionismo socialista e popolare, che sembrava imbattibile, è totale: non è solo l’uso del manganello, lamentato dai soccombenti, che può spiegare il fenomeno:

Credete voi, o signori del Fascio o dell’Agraria, che le vostre conquiste effettuate in virtù di tali sistemi potranno avere una consistenza di stabilità?…. ora è bambinescamente ingenuo credere che un così vasto edificio politico… possa in un attimo crollare  sotto il colpo di un bastone o la minaccia di una rivoltella.

Sono, quindi, altre le cause alla base del successo fascista: c’è, innanzitutto la capacità di attrazione delle idee sociali e sindacali fasciste sulle masse, ma anche sui dirigenti  più politicizzati (capilega, responsabili sindacali e segretari di sezione), ma c’è anche, non trascurabile, il naturale esaurirsi di quel diffuso fenomeno di “sbandamento” che, seguito al conflitto e durato per oltre tre anni,  ha portato molti a guardare al Partito socialista come l’unico in grado di dare una risposta valida alle diffuse aspirazioni di cambiamento.

Quando, però, una nuova possibilità di ottenere giustizia sociale e riconoscimento della propria dignità di uomini e lavoratori si presenta e prende consistenza, sotto la forma delle nuove organizzazioni fasciste, l’esodo dal socialismo, che si è dimostrato non all’altezza delle aspettative, è spontaneo ed inarrestabile.

Lo strumento “tecnico” che favorisce i passaggi è proprio il sindacalismo fascista, affidato in gran parte a vecchi sindacalisti, che ben danno toccare le corde della sensibilità delle classi meno abbienti, conoscendone a fondo e per lunga esperienza i veri bisogni.

Non si tratta, quindi, solo di “colpe” del Partito socialista: la verità è che il Partito si è trovato – senza alcun particolare merito, escluso quello della tradizionale difesa dei diritti del più debole – in mancanza di ogni vera alternativa, a far da portavoce di stati d’animo ed istanze vagamente e confusamente protestatarie, sulle quali non ha e non può pretendere di conservare diritti di monopolio.

Quando l’alternativa è arrivata, il castello di sabbia è crollato: patetico è, allora, l’appello al “fascista proletario” della segreteria nazionale della Federazione dei lavoratori della terra:

Io ti conosco, fascista dal berretto nero e con l’insegna della morte, che terrorizzi i poveri contadini lavoratori. Sei noto nell’ampia palude del Ferrarese che confina col Polesine, ove crescono i canneti e vivono le rane. Sei figlio dei lavoratori della terra anche tu… E anche tu, in un giorno di entusiasmo vibrante nel cuore dei lavoratori, in un 1° maggio, entrasti nella lega che univa tutti gli sfruttati in uno sforzo continuo di difesa dei loro corpi e di rivendicazione delle loro anime maciullate dalla schiavitù…

Oggi sei fascista sicario pagato dagli agrari per distruggere col bastone e con le micidiali armi corte le conquiste che i tuoi compagni lavoratori hanno ottenuto in venti anni di lotte, di scioperi, di sofferenze di ogni genere.

 

Per sortire qualche effetto, queste parole dovrebbero almeno trovare un giornaliero riscontro nel comportamento dei capi socialisti, comunisti ed anarchici che, invece, è troppo spesso da biasimare, e contribuisce ad accrescere lo sbandamento dei gregari.

Ad avere responsabilità di comando sono quasi sempre burocrati che, aldilà della truculenta della propaganda, sono personalmente miti ed inoffensivi, quando non pavidi, contenti di essersi ricavata, all’interno dell’apparato, una posizione di prestigio e di vantaggio, non di rado con una ricaduta positiva anche in termini economici, anche al prezzo di qualche irregolarità amministrativa nella gestione della cosa pubblica, che poi la rivoluzione,quando verrà, penserà a cancellare:

La verità è che il Partito socialista è ormai morto e putrefatto. un Partito operaio che, su 80.000 soci ha 62.000 funzionari, è solo un’escrescenza morbosa del proletariato.

In questo quadro, il diritto alla fuga è quasi teorizzato, come il modo migliore per “calmare” l’ira dei fascisti e sventarne così la prevedibile violenza, ma la verità è che spesso i capi che le masse si sono scelti o si sono trovati per imposizione partitica, sono miserevoli, quando non, come accade non di rado nei piccoli centri, assolutamente inaffidabili anche sotto il profilo penale.

Sarà anche vero che “il proletariato è forte”, come si ripete nei sempre più rari comizi , ma è altrettanto vero, come si sussurra tra gli ascoltatori degli stessi comizi che troppo i suoi capi sono indegni di lui”, anche quelli che “si chiamavano massimalisti e rivoluzionari, ma tutto quello che sapevano fare era di risciacquare la bocca con una rivoluzione che non arrivava mai”.

 

12. Ancora fuoco all’Avanti

 

Un segno di riscossa lo vuol dare l’Alleanza del lavoro, che, nella speranza di invertire la tendenza e provocare il tracollo del fascismo,decide di proclamare lo sciopero generale, con un mossa improvvisa e senza termine di tempo, a partire dalla mezzanotte del 31 luglio.

Con singolare intempestività, però, la notizia viene data dal “Lavoro” di Genova nella sua edizione del 30 luglio, che annulla la sorpresa, e provoca la immediata mobilitazione fascista; in verità, il PNF è già stato messo in allarme, sin dal 21, con una circolare di Bianchi alle Federazioni, nella quale, dopo il consueto richiamo alla disciplina “ferrea”, ed alla necessità di non iniziare alcun movimento locale senza autorizzazione, si fa esplicito riferimento alla possibilità di uno sciopero generale, in vista del quale:

… è opportuno, per non farci cogliere alla sprovvista, in caso che il tentativo si riaffacciasse con l’eventuale partecipazione di ferrovieri rossi, che i fascisti non trascurino di assicurarsi fin d’ora i necessari mezzi di trasporto: autocarri, automobili,motociclette, etc.

 

A questo preavviso fa seguito, all’atto della proclamazione dello sciopero, la prima circolare “da leggere e distruggere” articolata in otto punti, che prevede l’immediata mobilitazione fascista gli spostamenti delle squadre sulle zone più “difficili”, le dipendenze gerarchiche in caso di azione.

Ma, ciò che è più importante, viene fissato un termine di quarantotto ore per la fine dello sciopero, trascorso il quale, le squadre muoveranno sui capoluoghi di provincia e li occuperanno, provvedendo direttamente a stroncare l’agitazione.

Nei giorni successivi, il controllo del vertice politico sul movimento sarà scandito da tre telegrammi, il 2, il 3 e l’8 agosto, che Bianchi indirizza alle Federazioni provinciali: con il primo, quando ormai lo sciopero sembra avviato alla fine spontanea, entro il termine stabilito delle quarantotto ore, viene ordinata la smobilitazione, pur senza escludere la possibilità di rappresaglie; col il secondo si fa marcia indietro e si dispone il proseguimento della mobilitazione per “sopravvenute circostanze”, e solo con il terzo telegramma, quello in data 8, l’azione fascista viene dichiarata definitivamente conclusa, con la piena vittoria.

Che cosa è dunque successo in queste convulse giornate ?

Iniziato lo sciopero, nonostante il Comitato centrale dell’Alleanza del lavoro si sia costituito ottimisticamente in “Comitato segreto d’azione”, per dirigere una manifestazione che si prevede imponente, appare subito chiaro il rischio di un fallimento, di fronte ad un riscontro nel Paese piuttosto tiepido.

Di contro, il concentramento delle squadre fasciste procede alacremente e minacciosamente; le prime quarantotto ore di sciopero trascorrono sostanzialmente tranquille, finchè, di fronte alle scarse adesioni, gli stessi organizzatori si decidono a dichiarare conclusa il giorno 3, l’agitazione.

Gli squadristi, però, che vedono l’occasione come quella propizia e tanto attesa per la spallata finale, non intendono fermare tutto proprio ora che hanno completato i concentramenti; perciò, proprio il giorno 3 iniziano la loro azione, con epicentro a Milano e Parma.

Nel capoluogo lombardo, già il giorno 31, alle 4,00 di mattina, in coincidenza con l’inizio dell’agitazione,  una quarantina di fascisti e nazionalisti, tra i quali Sandro Giuliani, Dino Alfieri e Piero Parini, si recano alla rimessa dei tram e ne mettono in circolazione un buon numero, improvvisandosi conducenti e bigliettai, al grido di “Scadono i rossi, i rossi son scaduti!”

Tra tutti, fa spicco Aldo Finzi, conduttore “con perizia invidiabile” di un tram che, comunque, ad ogni buon conto, porta appeso, sulla vetrata anteriore, un nodoso manganello; l’iniziativa piace ai cittadini che sono tutti dalla parte dei fascisti, e Lusignoli telegrafa a Roma:

Certo è che gran parte della popolazione stanca dello sciopero dimostra chiaramente di parteggiare per i fascisti. Non nascondo che cittadinanza, nel suo attuale stato d’animo, mal tollererebbe azione a fondo contro fascisti.

E’ anche approfittando di questo che, nel pomeriggio del giorno 3, i fascisti mettono in atto il loro capolavoro: l’occupazione di palazzo Marino, sede dell’Amministrazione comunale socialista. I prodromi dell’azione vera e propria si hanno verso le 15,30, allorché uno squadrista, il tassista Natale Guadagna, di quarantanove anni, riesce ad arrampicarsi sulle mura esterne del palazzo e colloca una bandiera tricolore sul balcone centrale.

Verso le 18,00, mentre in piazza si verificano colluttazioni tra le Forze dell’ordine e i manifestanti fascisti che vanno aumentando di numero, un gruppo di camicie nere penetra all’interno del palazzo, da un abbaino nell’ammezzato, con lo scopo di sostituire la bandiera precedentemente esposta con una più grande.

La situazione precipita, con l’esposizione della nuova bandiera, fiancheggiata dal gagliardetto fascista e da quello del Sindacato dei dipendenti comunali fascisti: infatti, a quella vista, la folla rompe i cordini di polizia, e penetra all’interno, guidata da Teruzzi, Finzi e Cesare Forni, “l’Ercole biondo della Lomellina”, come lo chiama D’Annunzio, sopraggiunti con due colonne motorizzate che, opportunamente manovrando in circolo e a zig zag, impediscono a Carabinieri e Guardie regie di sgombrare la piazza.

Rossi e Bonomelli, un ex Consigliere socialista, espulso a suo tempo dal Partito per interventismo, danno una nota di colore all’avvenimento, il primo inneggiando ripetutamente alla “Rivoluzione fascista”, e il secondo gridando trionfalmente a più non posso: “Rientro a palazzo Marino!”.

Tutto si svolge, comunque, senza grossi eccessi, e Rossi si preoccupa di far constatare agli Assessori presenti all’interno, prima di farli scortare fuori dal palazzo, come l’iniziativa sia “popolare”,  e gli assaltatori siano “in maggioranza proletari”.

In serata, gli squadristi rafforzano la loro presenza all’interno ed all’esterno del palazzo, predisponendosi anche al peggio, e cioè, allo scontro con le Forze dell’ordine; contemporaneamente, però, una delegazione si reca da Lusignoli per chiedere la nomina di un Commissario prefettizio, promettendo, in cambio, un rapido sgombero dell’edificio occupato.

Si sparge anche la voce di un prossimo arrivo di D’Annunzio, e la folla si trattiene pazientemente in piazza, fino alle 23,00, quando, finalmente, il poeta arriva, accompagnato da Finzi, e, con vibranti parole, arringa gli astanti dal balcone centrale.

Si rivolge particolarmente ai giovani “amore d’Italia, primavera di bellezza”, loda la marcia che, grazie a loro, ha preso la Nazione e commuove l’uditorio con il lirico racconto di quando,incontrato  un contadino sovversivo, negatore del sacrificio bellico, lo ha convinto della purezza del proprio sentimento di amor di Patria mettendosi a vangare con lui la terra, in fraterna solidarietà.

Gli incidenti più gravi avvengono il giorno dopo: a seguito della morte del fascista Edoardo Crespi, squadristi pavesi, cremonesi e milanesi, guidati da Forni e Farinacci attaccano l’Avanti, dopo che è stata scartata l’idea di bombardare dal cielo d’edificio che si sa ben protetto.

Verso le 16,00, due colonne fasciste, montate su una quarantina di automobili, muovono verso la sede del giornale; come scriverà Nenni.

Bisogna riconoscere che fummo attaccati con tutte le regole dell’arte militare. Da due lati le colonne fasciste avanzarono, protette da una nutrita fucileria. Dopo un simulacro di resistenza, la Guardia Regia che virtualmente occupava il giornale, per proteggerlo, si ritirò, protestando la superiorità delle forze fasciste.

Nei reticolati che proteggono l’edificio viene allora immessa dai socialisti corrente elettrica, e due squadristi, Emilio Tonoli e Cesare Melloni,  cadono fulminati nell’attacco, senza che per questo, l’impeto degli assalitori si freni, se non con la distruzione del giornale socialista, per la seconda volta, dopo il 15 aprile del ’19.

Adesso come allora, l’azione fascista non manca di suscitare in tutto il Paese una grande impressione: a Milano, in particolare, l’Autorità militare si sostituisce a quella civile, nel tentativo di riportare l’ordine.

Lo stesso accade anche a Genova, Livorno, Ancona e altrove: con il passaggio dei poteri ad una Autorità verso la quale i fascisti hanno sempre dimostrato un formale rispetto, si vuole bloccare la loro azione, che sta assumendo i caratteri di  una vera e propria insurrezione generalizzata.

Nel capoluogo lombardo, in assenza di Bianchi e Mussolini che: “… era a Roma, insatirito in una non difficile conquista… in foia e girovago nei compiacenti alberghi dei castelli romani”, l’azione è in mano a Finzi, Farinacci, Forni e Teruzzi, determinati ad andare avanti, ad occupare tutti i Comuni socialisti della regione ed allargare il movimento al resto d’Italia, fino ad ottenere lo scioglimento delle Camere, a qualunque prezzo, come fa notare il Questore Gasti in una “riservata personale” al Generale comandante il Corpo d’Armata cittadino:

Lo spirito di cui sono animati i fascisti è vibrante di fede nel loro ideale, pieno di sicurezza nella propria forza e nella prossima vittoria, ardente di odio contro i sovversivi, determinato alle più rischiose imprese ed alle più decise azioni, senza alcuna preoccupazione delle conseguenze e con sprezzo della vita.

Non è, però, ancora il momento: il giorno 6 si svolgono, imponentissimi, i funerali degli squadristi caduti, e, nella stessa giornata si fa vivo anche Mussolini, da Roma, con una lettera ai camerati milanesi, pubblicata sul Popolo d’Italia, nella quale egli si assume la responsabilità morale dell’accaduto, e afferma di condividere appieno gli intenti dei rivoluzionari milanesi.

Lo scopo della lettera e la sua pubblica diffusione dovrebbe essere proprio quello di fugare le ricorrenti voci di dissenso tra il capo e la base, ma il dubbio rimane, e chi sa leggere tra le righe non è molto convinto di una sintonia che, in effetto, appare altalenante.

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