16 Luglio 2024
Tolkien

Memorie dalla Terra di Mezzo – Andrea Scarabelli

Negli appunti di quella che avrebbe dovuto essere la conclusione de Il monte analogo René Daumal scrisse: «Non si può restare sulle vette, bisogna ridiscendere… A che pro, allora? Ecco, l’alto conosce il basso, il basso non conosce l’alto». È il senso iniziatico e spirituale dell’avventura, che alla fuoriuscita dalla realtà quotidiana coniuga una realizzazione di tipo metafisico… Affrontare un viaggio significa infatti acquisire una nuova immagine del proprio Io, ricevere un nuovo nome, essere iniziati a nuova vita. Ma poi c’è il rientro a casa, il reinserimento nella vita di tutti giorni, nelle consuetudini. È l’ultima prova cui è sottoposto l’eroe, che dopo essersi messo alla prova deve far ritorno tra i propri simili, come scrisse Joseph Campbell in quel piccolo capolavoro che è L’eroe dai mille volti. Che fare a questo punto? È sempre Daumal a rispondere: «Si sale, si vede. Si ridiscende, non si vede più; ma si è visto. Esiste un’arte di dirigersi nelle regioni basse per mezzo del ricordo di quello che si è visto quando si era più in alto. Quando non è possibile vedere, almeno è possibile sapere».

Primavera 2011. Giampiero Rubei, da poco direttore della romana Casa del Jazz, chiede a Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco – nomi che non hanno bisogno di presentazione per gli amanti del fantastico – un testo teatrale ispirato alle opere di J. R. R. Tolkien, da proporre con l’accompagnamento di un genere musicale solitamente considerato piuttosto distante dal mondo del filologo di Oxford. Nasce così Ricordi di un Hobbit tra le note di Keith Jarret, che viene messo in scena alla Casa del Jazz nel febbraio dell’anno successivo, con la collaborazione della Società Tolkieniana Italiana. Pubblicata dapprima sul terzo numero della rivista «Antarès» (J. R. R. Tolkien. Un’epica per il nuovo millennio, Edizioni Bietti, Milano 2012), la pièce esce ora per Tabula Fati. Oltre al testo, il volumetto contiene una prefazione di Quirino Principe, altro nume tutelare del Legendarium tolkieniano in Italia, e una postfazione di Stefano Giuliano, autore di J. R. R. Tolkien. Tradizione e modernità nel Signore degli Anelli (Edizioni Bietti, Milano 2013), insieme a un inserto fotografico e una copertina realizzata da Dalmazio Frau.

Il dramma si svolge a Hobbiville, quindici anni dopo la partenza di Frodo e Gandalf dai Grey Havens. La giovanissima figlia di Sam Gangee pone domande a suo padre (personaggio fondamentale all’interno del Lord of the Rings, anche se spesso dimenticato dai critici, come ricorda Stefano Giuliano nella postfazione) su quel che accadde. Stimolato da Elanor, Sam ripercorre quel viaggio, esercitando in questo modo l’arte del ricordo citata in apertura. Lo scenario dell’opera è crepuscolare, «nobile e forte, che sa di erica verdeggiante in principio e alla fine odora d’incendio», scrive Quirino Principe nella sua straordinaria introduzione. Tra le righe intravediamo infatti il chiudersi di un ciclo, il declinare di un mondo. La Terza Era volge al termine, senza lasciar presagire nulla di quanto accadrà successivamente.

Hobbit

Sam rievoca mondi, gesta eroiche e atmosfere oniriche, consegnando ai lettori una narrazione epica nella quale la memoria (come, d’altra parte, avviene sempre nel mondo tradizionale) è creatrice. Assieme a quest’epica, tra i migliori doni di Tolkien all’Occidente, ad emergere nella pièce sono tutti i temi che costituiscono l’ossatura del Legendarium: dall’incontro con il mostruoso e il diverso alla necessità di affrontare i fantasmi del passato e le proprie paure, dall’incontro con il Male e i suoi subalterni al rapporto tra bellezza e dolore, sino al desiderio – antico quanto la nostra civiltà – di spingersi oltre i propri confini, siano essi le colonne d’Ercole o i verdeggianti campi d’una Contea immaginata da un professore di Oxford.

C’è una dialettica che percorre interamente il Signore degli Anelli, e non è la bigotta opposizione Bene-Male, come ha scritto Principe, che in tanti – troppi – hanno ravvisato, ma quella tra bellezza e orrore, tra luce e buio, tra altezza e fango. Una dialettica che permea per intero anche la pièce in questione, ambientata nella notte di un’epoca, nella quale tuttavia arde «la luce di una stella sempre viva / nel golfo della notte, che risplende / quando d’ogni altra fiamma / anche l’ultimo guizzo s’è consunto». È la fiamma della speranza, che permea i ricordi di Sam e degli altri personaggi, evocati e materializzati dalle sue parole – nell’ordine: Gandalf, Aragorn, Arwen, Gimli e Frodo.

Spetta a Gandalf, che chiude la narrazione, affidare il terribile scettro all’uomo, al declinare della Terza Era, con le sue due uniche compagne a scortarne l’incedere: la Spada e la Morte. Questo modernissimo cavaliere di Dürer, solo dopo l’eclisse di eroi ed elfi, deve affrontare e percorrere sino in fondo il proprio destino. Un destino di morte ma anche di rinascita, specie in un mondo come quello moderno, verso cui Tolkien provava orrore, tanto da raffigurarlo a mezzo della terribile Mordor, nemica della natura e dei popoli liberi. Una sola via ci è data, analoga a quella di Daumal, per sopravvivere a quell’oscurità che dilaga ovunque: «Ricordiamoci, noi che ancor viviamo / in queste lande dal buio opprimente, / le stelle chiare del cielo d’Occidente».

Andrea Scarabelli

Gianfranco de Turris, Sebastiano Fusco, Ricordi di un Hobbit, presentazione di Quirino Principe, postfazione di Stefano Giuliano, Tabula Fati, Chieti 2015, pp. 56, € 8,00.

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