7 Ottobre 2024
Punte di Freccia

Il più fragile, il più puro… – Mario Michele Merlino

Stavo scrivendo di Socrate che girava per le vie di Atene a piedi nudi e dell’incedere austero e possente del suo discepolo Platone, aristocratico di nascita e di pensiero, entrambi attratti – non è citato da alcuna fonte ed è il mio genio creativo a raffigurare la scena – dal camminare e aggraziato e provocante di una giovane etera. Al primo venne in bocca l’acidulo amaro dei succhi gastrici, comparando le forme di quella fanciulla con quelle sgraziate e stagionate di sua moglie Santippe, passata alla storia come donna di insopportabile carattere tanto che, nel Fedone, descritta capace solo di lagnarsi costringendo il marito a rimandarla a casa per morire in pace. Al secondo, incerto ancora se abbandonare l’agone della politica per dedicarsi a tempo pieno alla filosofia (tema questo che non verrà sciolto compiutamente. Siracusa docet!), l’intuizione anche se ancora confusa dell’Idea di Amore, come si esprimerà appieno anni dopo nel Simposio. Icasticamente il poeta latino ne trarrà la morale della volpe e dell’uva… E tutto ciò non per fare della facile e banale ironia, per irridere alla filosofia – potrebbe ciò intendersi con i precedenti miei interventi sul tema dell’Essere e del Nulla e del Chaos – di cui sono stato cultore e insegnante, forse con discutibile professionalità e accenti di troppo istrionismo. Non è così. Sono stato un uomo fortunato – compresa la libera università dei bastoni e delle barricate in piazza il collegio dei chiavistelli e delle sbarre a Regina Coeli – avendo svolto l’attività a me cara e già determinatasi all’età di sedici anni. Solo privilegiare le emozioni – ‘il divino stupore’ per Platone, degli occhi la ‘meraviglia’ per Aristotele – e saperle, semmai, trattenere e renderle alte e nobili…

M’è tornato a mente come, nei giorni ‘caldi’ del rapimento Moro, avessi parcheggiato la Fiat 127, usata, sul marciapiede e che mi venisse rimossa da zelanti vigili urbani (non nei modi, s’intende). Costoro, quando si accertarono chi fosse il proprietario, furono solleciti a chiedere l’intervento di una macchina della polizia e, sirena spiegata e sgommando, mi perquisirono l’auto dove trovarono – da ‘bombarolo’ ancora sotto fase di ennesimo processo – la base della carrozzina e un pacco di pannoloni. Mio figlio Emanuele era nato il primo di febbraio di quell’anno. Tante (finte) scuse e arrivederci… Circa un mese dopo all’età di ventotto anni, due giorni prima d’essere scarcerato e quattro dal testimoniare in mio favore nell’aula della Corte d’Assise di Catanzaro (avevo trascorso parte del pomeriggio del 12 dicembre da lui), Riccardo s’era suicidato – ‘strano modo di morire’ – nella cella d’isolamento con il volto devastato da ferite ed ecchimosi. Era il 20 aprile del ’78 – il 9 maggio le BR eliminavano Aldo Moro e ne facevano ritrovare il corpo all’interno di una Renault rossa. A gennaio, il giorno dopo l’Epifania, a raffiche di mitra erano stati assassinati i giovani della sezione di via Acca Larentia e Stefano Recchioni da colpi esplosi dalla pistola di un capitano dei carabinieri. Prevedibile l’indifferenza verso quell’eccidio e, a maggior ragione, verso Riccardo – infatti nessuno ha pagato, nessuno pagherà. Del resto sullo stesso rapimento dell’esponente DC e sulla sua esecuzione le ombre il sospetto le interpretazioni sono insormontabile muro di gomma.

Il ‘mio’ ’78: dieci anni dopo la mitica mattina d’annunciata primavera del 1 marzo a Valle Giulia, con nella mano destra i resti dell’asse della panchina – di cui il primo spezzatosi in testa al carabiniere ed il secondo al compagno stronzo che, isterico, avrebbe voluto impedirmi di continuare a menar botte – e in quella sinistra una molotov in attesa d’essere scagliata; il 16 marzo, il sogno infranto mazzate banchi a volare giù dal tetto di Giurisprudenza cercare un’altra via, respirando ‘aria di rivoluzione’; ad aprile ospite critico dei colonnelli ad Atene, dove appresi a diffidare degli uomini in divisa, e a maggio sempre più annoiato nella Sorbona occupata e rischiarato alfine dalla tomba di Brasillach e ancora tante battaglie ed ulteriori viaggi gli incontri e gli anni della galera… Il ‘mio’ ’78: ancora faticoso l’inserimento nel mondo della scuola, con le supplenze in istituti della periferia di Roma; il mini-appartamento nei casermoni lungo l’Aniene e a due passi dalla sezione del MSI di via Val Solda e le due bombe in piena notte a squarciarne la saracinesca; la nascita appunto di Emanuele (quel ‘Gott mit uns!’, con cui i soldati del Reich fregiavano la borchia del cinturone, ignari come qualcuno del loro stesso ‘blut und boden’ avesse chiarito che quel Dio era morto). In fondo schifosamente, giorno dopo giorno, una vita da borghese piccolo inutile stolido, privato forse da allora e forse per sempre di fare la morale, il verso su quanto m’accadeva intorno, avvenimenti e ricorrenze. Acca Larentia. Eppure, 7 gennaio 2016.

Umidità freddo pioggia mi convincono a restare a casa, l’ospedale mi ha dimesso ma i cardiologi inducono alla prudenza, mi sento le gambe pesanti le articolazioni doloranti e il braccio sinistro tende a tremarmi. Sì, me ne resto a casa, fra i miei libri il computer il muto e grigio linguaggio dell’inutilità. E, in qualche misura, ne ho vergogna… In questa notte i ‘camerati’, che furono e sono parte della mia storia (a ciascuno di noi il senso autentico della propria esistenza è dato dalla solitudine) si ritrovano sotto l’obelisco del Foro Italico dove a caratteri cubitali è inciso il nome del Duce. Un ‘Presente!’ a pochi minuti dalla mezzanotte, E’ una scelta presa un paio di anni fa ed io fui fra i promotori e, cioè, sottrarsi a quella sorta di mercato becero e volgare, ognuno decanta se stesso in rivalità con gli altri, in cui si era andata trasformando la ricorrenza del 7 gennaio. L’ultima volta che mi ci recai, ad un lato della porta della sezione, un lungo striscione indicava gli orari di ogni gruppo per gratificarsi contarsi emularsi tornarsene a casa felici e contenti. Simile al menù di una trattoria, di una bettola per frequentatori rissosi ed ubriachi. Il sangue di quei tre giovani non meritava tanto… Dalla Cavalleria rusticana: ‘Mamma, quel vino generoso, troppi bicchieri n’ho tracannato, vado fuori all’aperto’, canta compare Turiddu prima di farsi sbudellare…

(Leggo il comunicato che preannuncia l’iniziativa. Confesso: resto perplesso. Nelle adesioni compaiono più volte realtà, a me la maggior parte sconosciute, che si riconoscono nel nome e nel simbolo di Avanguardia Nazionale, pur se ci si cautela essere comunità d’affetti e non d’intenti. E, allora, non si corre il rischio di finire uno fra tanti, d’essere parte di quel ‘divide et impera’, nonostante che ci si sforzi ci si giustifichi ci si paludi citando il presidente Mao, il grande timoniere, quando ci si beava con le sue – in fondo, banali – citazioni su quanto disordine ci fosse sotto il cielo e che valesse la pena rallegrarsene…?).

Cosa s’intende per ‘passaggio del testimone’? All’insaputa della madre – ormai non è in grado, di sera, sotto effetto della morfina, di rendersi conto esattamente di quanto le accade intorno – Cri si reca al ‘Presente!’ tutelato dai ‘vecchi’ camerati, a cui l’ho affidato e se ne fanno un titolo d’onore, che conoscono la fragilità delle sue emozioni. M’insiste, sono incerto, alfine cedo. Gli chiedo di rivolgere un muto pensiero a Riccardo quando saranno tutti schierati perché – ne sono convinto – il sangue non è una astrazione ideale ma uomini e donne che appartengono alla mente ed al cuore. E sono commosso, lo so, si è patetici quando la prostata s’è ingrossata tutti i capelli bianchi e il volto solcato da troppe rughe… E so che gli farà bene sentirsi parte di una comunità, essere egli stesso di quella comunità passo tra altri passi voce all’unisono con altre voci e il braccio portato sul petto come altre braccia. Il più fragile, il più puro…

Cosa avrebbero deciso Socrate e il suo discepolo? Presumo che, sfruttando la dialettica, il primo avrebbe tentato di conciliare le difformità, un ricompattare l’area in nome di un principio unitario (Aristofane ne avrebbe tratto ulteriore critica ed ironia per denigrarne la persona e il suo intento). Platone, sdegnoso dei suoi concittadini raccolti nell’agorà, avrebbe trasformato quel sangue sparso e ogni ricorrente cerimonia in ‘pallida ombra di sogno’, nell’inesorabile imperfezione a cui soggiacciono gli uomini e gli accadimenti…

Entrando nel Tempio Malatestiano di Rimini, quante volte ne ho scritto, la seconda cappella a destra, detta anche degli Angeli, contiene l’arca sepolcrale di Isotta tanto cara e sovente citata da Ezra Pound. Al poeta americano era rimasto impresso il cartiglio con la scritta ‘Tempus Loquendi – Tempus Tacendi’, di cui darà testimonianza ancora una volta nei Canti Pisani, ristretto nel campo di prigionia di Coltano, poco distante da Pisa sotto il suo cielo azzurro solcato da nuvole bianche. Due genietti alati sostengono la targa di bronzo con la scritta ‘D. Isottae. Ariminensi. B. M. Sacrum. MCCCL (interpretata con arguzia e mala lingua la D. per Divae e B.M. Beatae Memoriae – come perdonare al Malatesta questo amore così coinvolgente impudico e pubblico?). E tanto più si giustificò, quando nel 1912, sotto la suddetta targa fu rinvenuta l’iscrizione ‘Isote. Ariminensi. Forma. Et. Virtute. Italiae. Decori MCCCCXLVI (qui la traduzione non dava adito a dubbi: A Isotta da Rimini per avvenenza e virtù ornamento d’Italia). Forse sembrò inaudito, viva ancora la moglie Polissena, che Sigismondo osasse tanto così che i frati francescani (il Tempio è dedicato a San Francesco d’Assisi) la ricopersero e ne apposero altra dal carattere più sobrio.

Eppure, nell’animo in fondo romantico dei romagnoli, tra atteggiamenti sfrontati e ribelli e un tacito senso radicato della famiglia, alberga una interpretazione, a cui ho sempre voluto dare credito. Essere Sigismondo stesso a voler murare nel marmo, quasi un nascosto ricordo, un muto sigillo d’amore… E Pound scrive come ‘Quel che veramente ami è la tua vera eredità’. Allora il sangue versato sul selciato di via Acca Larentia, così come quello di tanti altri, nero e rosso nell’identità di ciascuno e rosso per tutti, se non si ha la sensibilità di renderlo unitario oltre le divisioni, spesso speciose e stupide, oltre la stagione del conflitto e dell’odio, lo si può ben rinserrare muto nel nostro cuore e renderlo puro ed eterno in noi, pur se vittime ed eroi nel tempo del divenire nostro così presto e tanto breve, lo siamo…

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