Sull’origine dell’equivoco e dei suoi multipli, fino al conflitto. Ovvero, in cosa sta il benessere.
Il mondo duale – quello degli opposti – ha le sue regole, ma i giocatori sembrano misconoscerle.
Eppure sono di facile comprensione. Le loro caratteristiche sono pari a quelle di un meccanismo qualsiasi, anche il più semplice va bene. Chiunque davanti all’errore compiuto nel muoverne un elemento, tanto da incepparlo, subisce la critica degli astanti ed è giocoforza costretto ad ammettere l’errore.
Nonostante la lapalissianità della faccenda, evidentemente c’è qualcosa di oscuro che sfugge. E sfugge a chiunque – poveretto o plurilaureato – non c’è differenza.
La svista – eufemismo – sta nell’estendere a tutti i tipi di relazioni umane, anche a quelle aperte, il criterio che abbiamo visto valere per i meccanismi, cioè per i contesti chiusi.
Questi possono stare entro il concetto di campo chiuso. Il campo chiuso per emblema è quello del gioco regolamentato. Se a rugby, passo la palla in avanti con le mani, l’arbitro fischia, l’autore del passaggio riconosce l’errore, la squadra corrispondente viene punita, quella avversaria ne gode l’esito. A scacchi, chi perde la regina, non si ribella, non cerca scuse, né chiede perdono.
Quindi chi partecipa conosce il regolamento. Nella figurazione campo chiuso stanno tutte quelle situazioni che ne mantengono il principio. Non a caso infatti il campo chiuso ha, quale corrispondenza nella vita pragmatica, la dimensione amministrativa.
Così per una raccomandata in posta, la domanda del passaporto, la spesa da pagare, la precedenza a destra. Nelle miriadi di situazioni ordinarie di tipo amministrativo, come nel contesto gioco, tutti sanno tutto quello che c’è da sapere. In tutti questi contesti, nel momento in cui sono innescati, i ruoli sono riconosciuti, gli eventi prevedibili, l’atto conclusivo garantito. Le parti sono in relazione attraverso un solo binario.
Volendo indicare il cuore irriducibile del campo chiuso questo è la replicabilità, mentre invece, se ne cercassimo l’anima, scopriremmo che esso – il campo chiuso o amministrativo – elude l’equivoco. La comunicazione del campo chiuso è una comunicazione lineare in quanto anche, se non soprattutto in questo aspetto, tutti i giocatori conoscono il linguaggio, le sue accezioni sono condivise da tutti, la possibilità di equivoco è pari a zero. Ludwig Wittgenstein (1889-1951) e Kurt Gödel (1906-1978) a parte, cioè in termini ordinari, ciò che è espresso in linguaggio matematico, ne è il campione per eccellenza.
Con queste, seppure inconsapevoli, verità ronzanti in testa, tanto l’uomo comune, quanto quello speciale, non hanno motivo di fermarsi a domandarsi alcunché. Tant’è che coadiuvati, sospinti, infervorati, convinti, da quella che loro chiamano scienza, se ne vanno spavaldi per il mondo e per trattorie a portare ragioni e argomenti al loro pensiero e alle loro posizioni. Hanno sempre nella manica l’asso vincente per tutte le partite. Credono cioè che con un ragionamento opportunamente formulato si possa sempre discernere il vero dal falso.
Il punto non è il vero e il falso, come si tenderebbe a credere, ma il sempre.
Ed è qui che vale quanto inizialmente accennato, ovvero che le banali regole del mondo duale sono misconosciute.
Misconosciute in quanto, tanto in giacca, cravatta e polsini, quanto col tovagliolo alla tu vuò fa l’americano, crediamo tutti che utilizzando la ragione e la logica si possa sempre arrivare a discernere la verità, come se tutte le relazioni degli uomini corrispondessero a meccanismi, cioè a campi chiusi, in cui, ad ogni sollecitazione – secondo il nostro interlocutore – saremmo tenuti a rispondere secondo un suo regolamento oggettivo (che non si avvede neppure di mettere in essere). Che peraltro è esattamente, quanto la nostra cultura a sfondo scientista, ci insegna fin dal biberon. Per i tovaglioloni e i cravattati tutte le relazioni vanno trattate nello stesso modo.
Prendersela dunque con qualcuno che non ha corrisposto al nostro stimolo in contesto relazionale aperto, significa esattamente concepire l’altro alla stregua di una macchina. Da parte degli interessati al discorso, e in termini logico-razionali, sarebbe anche facile da riconoscere. Basterebbe infatti fare presente che, ognuno di noi si assoggetta al regolamento del campo chiuso per qualche sua necessità, e che, fuori dal momento amministrativo, si riapre in lui il campo dell’infinito. Un volume in cui ruotano, cozzano, si trovano e si spezzano tutti gli elementi della nostra biografia. Accelerati o frenati da paure e aspirazione, da trame e fughe, impediscono per antonomasia la stabilità e, sempre per antonomasia, favoriscono l’atto creativo. Chi non ha paura vi nuota libero, chi ne ha traccia i margini della propria piscinetta.
Nelle relazioni tra campi aperti, cioè in quei territori sconfinati in cui ognuno osserva e ordina le parti utili alla propria sopravvivenza esistenziale, l’equivoco è una costante. La comunicazione, crassamente (1) o eruditamente pronunciata, ha in sé un carico di sterilità, inimmaginato e imprevisto dal sistema meccanicistico. Per questo, fondato sui principi della logica aristotelica, del tempo lineare, del causa-effetto, dell’oggettività della realtà, è normale applicare agli uomini in contesto libero, ciò che funziona solo in contesto chiuso.
Psicoterapisti, didatti, domatori, madri e pubblicitari lo sanno ma resta limitato al loro settore per gelosia, miopia, modestia o distrazione, quando a mio parere dovrebbero o dovrebbero di più se già lo fanno, operare per far entrare nella cultura ordinaria la consapevolezza degli universi diversi che siamo, affinché, distinguendo tra contesto chiuso e aperto e tutti i loro ibridi, ci si possa relazionare al meglio con il mondo.
In campo aperto non c’è verità duale, e trovarla significa imporre quella di una delle parti, il che comporta conflitto e distruzione. Se c’è una modalità affinché dalla relazione aperta si disinneschi il conflitto, questa comporta l’ascolto e la sua domanda identitaria: in che termini è vero ciò a cui sto assistendo? Qual è il vero significato? Interrogativi ben diversi da quelli che dominano sul campo chiuso, in cui effettivamente si può trovare il giusto e lo sbagliato. In cui, conoscendo le regole che vi vigono, possiamo far coincidere giudizio e verità.
Solo nel campo chiuso possiamo legittimamente andare a caccia della verità. Ritenere di poterlo fare anche in quello aperto corrisponde a stringere un dado con la chiave sbagliata.
Queste stesse parole recano equivoci più di quanto possano comunicare ciò che esse intendono. Ma giudicarle se non comprese, e concludere la loro inefficienza corrisponde a ritenere di essere in un campo chiuso le cui regole sono quelle di chi critica. Diversamente chi in qualche modo è consapevole di quando ci si trova a interloquire in campo aperto, oppure per qualche ragione vuole riconoscere il significato di quanto si sta affermando, non ci sarà giudizio recisorio o reazione, ma riflessione e ascolto, richiesta di chiarificazioni, integrazioni.
Se nel due chiuso la verità è una, in quello aperto no.
Nota
1 In realtà quando c’è emozione c’è anche comunicazione.