7 Ottobre 2024
Cultura

La morale inaccessibile di Mishima – Roberto Lobosco

Yukio Mishima fu molte cose in vita: saggista, drammaturgo, romanziere, poeta e soldato. Conoscitore e ammiratore della letteratura occidentale ebbe sempre amore per la parola ricercata e gusto per la metafora. Difficilmente si può trovare un esempio analogo nella letteratura del Novecento, nessuno come lui ha saputo fondere arte e vita, parola e gesto, prosa e poesia, forma ed esempio. Fu il più occidentale degli intellettuali giapponesi, ammiratore di O. Wilde e Balzac, spesso paragonato a D’Annunzio e Pasolini ma insieme così estraneo a ogni prospettiva cristiana ed europea. La sua opera è intrisa di misoginia e ossessione per la morte ma anche di esaltazione della bellezza, amore e mito della perfezione. Oltre a questo, però, Mishima fu soprattutto l’ultima tragica espressione spirituale, artistica ed estetica dello spirito del Giappone tradizionale che si opponeva alla sudditanza degli Stati Uniti e all’inevitabile declino. Le sue ultime parole, prima di eseguire il seppuku, il suicidio rituale furono:

Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo.”

Tanto, troppo si è parlato della sua scelta di morire in diretta televisiva, con il rischio di legare il personaggio a questo suo gesto e non al pensiero e alla filosofia di vita che lo ha ispirato. Spesso senza avere la necessaria profondità d’animo per capire la sacralità del suo atto, noi così legati alla vita terrena, così mondani e superbi, così intrisi nostro malgrado di morale cristiana secondo cui il suicidio è un peccato e una offesa a Dio. Eppure esistono

altre culture e altre religioni che hanno elaborato una diversa visione del problema legato al rapporto fra la vita e la morte, fra il gesto assoluto e la morale. Relativisti sempre, fin troppo, ma assolutisti del pensiero unico quando vengono toccate le piccole certezze che ci accompagnano, quando non siamo in grado di elevarci dalle piccole preoccupazioni di tutti i giorni, quando l’atto è così supremo da spaventare. Eppure Mishima non era un fanatico[1], era un esteta, un narciso sicuramente, un artista (più volte considerato un possibile vincitore del premio Nobel)[2] un cantore della Tradizione, la cui opera era diretta a rifondare l’etica giapponese e a riannodare legami spezzati dal tempo tramite la scrittura, il teatro, il corpo e l’azione (“i quattro fiumi della mia vita”). Contemplazione e azione, sole e acciaio[3]. Il sole, quel sole che aveva visto risplendere “sul sangue che sgorgava incessantemente dalle carni” dei giovani soldati morti nel corso della seconda guerra mondiale, una guerra in cui anch’egli aveva combattuto. Lo stesso sole che è sinonimo di vita, calore, aria aperta, spiritualità virile e olimpica. Nel 1952, nel corso di un suo viaggio all’estero, colse l’importanza del sole che abbronzandogli il volto gli impresse il marchio di appartenere a un’altra razza[4] e che lo stimolava a “trascinare il pensiero fuori dalla notte delle sensazioni viscerali, fino al rigonfiamento dei muscoli fasciati da una pelle luminosa”. E poi l’acciaio, materiale con cui sono fatti i bilancieri, necessari a modellare il suo corpo rendendolo un oggetto desiderabile da donare al mondo come immagine riflessa del suo spirito eroico. Lo spirito che si esprime attraverso il corpo (quel corpo che aveva in gioventù trascurato) perchè non accontentandosi più dello studio si fa azione, muscoli. Il corpo che diventa opera d’arte e si spiritualizza, nel definirsi accede ad un’altra dimensione spirituale dove si coniuga pensiero e azione e si dona alla vita ma anche alla morte. La morte e la vita sono due facce stessa medaglia. Si dice nero ma si allude al bianco. La morte è “la via del guerriero[5] nel senso che si deve essere sempre pronti alla morte, ogni mattina e ogni giorno va rinnovato il proposito di morire. Vivere come si fosse già morti, solo così si può trovare la propria libertà e la forza di adempiere ai propri doveri. Durante la pace viene soppresso l’impulso verso la morte ed essa diviene come un farmaco da somministrare. Quella del guerriero è una occupazione di morte. E in tempo di pace? La morte deve comunque orientare la via del guerriero e se uno la teme o la evita non è un vero samurai. Dalla morte vanno estrapolati quegli elementi che riteniamo utili per puntare su una esistenza più luminosa. Pensare alla morte ci obbliga a riflettere sulla vita. Oggi è il nostro ultimo giorno? Questa è la domanda. Bisogna vivere e morire in maniera nobile. Nell’autunno del 1960 Mishima scrisse un racconto di quindici pagine dal titolo “Patriottismo”, in cui descrive l’hara-kiri di un giovane tenente al tempo della rivolta del 1936. Nelle società scandinave e moderne ci si suicida per noia o disperazione, per una libertà che stanca, perché depressi, deboli o vinti dal mondo. In Mishima e nella cultura nipponica, in quello che fu lo spirito dei samurai, il suicidio rituale, il porre fine volontariamente alla propria vita è un atto di libero arbitrio, l’ultima vittoria, un modo per proteggere e far rivivere i valori più nobili del Giappone, una estrema manifestazione di difesa del proprio onore, un atto che da solo condensa un’esistenza, un modo di affermarsi alla vita, imporsi ad essa testimoniando la propria morale inaccessibile. L’uomo si fa Dio. Niente a che vedere con la nostra concezione occidentale. Mishima ha provato a collegare azione e contemplazione in una visione metafisica, aristocratica ed eroica che nel rifiuto del suo tempo (no dei suoi padri come i sessantottini) si è rivolta alla morte come forma di testimonianza e capacità di forgiare non solo il corpo e la mente ma anche il destino, il suo innanzitutto, perchè a differenza di molti rivoluzionari non ha ucciso nessuno ma solo sé stesso. Anche Jan Palach mise fine alla sua vita dandosi fuoco come gesto di protesta contro il totalitarismo comunista, mentre “i sessantottini incendiarono il mondo pensando a sé stessi egli incendiò sé stesso pensando al mondo[6]. Una bella differenza. In Mishima non c’è nessun elogio della morte o del suicidio ma semmai il suo contrario. L’orizzonte tracciato da Mishima è fatto di bellezza, grandi spazi aperti, di corse a torso nudo d’inverno verso il sole e verso il cielo, il suo ideale è la perfezione che si realizza nell’equilibrio tra corpo, anima e spirito, tra ciò che è stato e ciò che necessariamente sarà. E quindi a restarne coinvolto finisce per essere tutta la dimensione dell’essere, dell’Io che tende a Dio e si fa Dio e di conseguenza coinvolge anche quel rapporto sano con la morte, parola che noi moderni abbiamo anche paura a pronunciare perchè non conosciamo altro che questo mondo, oramai inariditi l’unica nostra prospettiva è quella della pancia piena e del godimento materiale, senza doveri, senza nessun anelito o spinta verso la trascendenza. L’accettazione della morte è l’esaltazione della vita, di chi comprende il ritmo delle stagioni e le fasi dell’esistenza che poi sono le fasi anche delle Civiltà come già Spengler spiegava nel suo “Tramonto dell’Occidente”. Morte e vita, ma anche amore e morte. In Giappone EROS E AGAPE non sono disgiunti e l’amore più alto e puro si consacra nella fedeltà al proprio signore e al proprio imperatore.

Questo legame tra amore e morte lo ritroviamo anche nella tradizione occidentale, ad esempio in Dante e nella Divina Commedia. Dante era un “fedele d’amore” e nel simbolismo dei «Fedeli d’Amore»,” esiste fra l’«Amore» e la «Morte» un rapporto duplice, poiché la parola «Morte» ha essa stessa un duplice significato. Per un verso, fra l’«Amore» e la «Morte» vi è un accostamento e quasi un’associazione, la seconda è intesa allora come «morte iniziatica»; e questo accostamento sembra si sia mantenuto in seno a quella corrente da cui sono nate, alla fine del Medioevo, le raffigurazioni della «danza macabra»; per l’altro, vi è anche un’antitesi, fissata attraverso un altro punto di vista , la quale si può spiegare, in parte, attraverso la stessa costituzione dei due termini: in entrambi è presente la radice mor, ma in a-mor essa è preceduta dalla a privativa, come nel sanscrito a-mara, a-mrita, di modo che «Amore» può interpretarsi come una sorta di equivalente geroglifico di «immortalità»[7].                        

Il V canto dell’Inferno è considerato il canto dell’amore ma è un amore che possiede un’antitesi: la morte. È il canto di amore e morte, Eros e Thanatos, uno dei pilastri dei grandi miti della nostra civiltà. Il verso “Amor condusse noi ad una morte”, ci rimanda anch’esso all’idea che per amore si muore e la morte intensifica e purifica l’ideale dell’amore. Un amore dichiarato perde di intensità, la sua forma più alta e completa è l’amore inconfessato. Una volta innamorati gli uomini devono poter dirigere i loro impulsi sessuali perchè senza di questo non esiste l’amore romantico. Mishima era sposato ma sembra ormai appurato avesse preferenze omosessuali. In “Confessioni di una maschera[8], romanzo semi-autobiografico, il protagonista narra lo sviluppo della propria omosessualità prima negata e poi accettata. Crescendo cercherà d’innamorarsi di una ragazza di nome Sonoko, ma è continuamente tormentato dalla sua tendenza omosessuale latente. Anche in Colori proibiti[9], un vero inno all’estetica e alla potenza dei sentimenti, verranno narrati amori omosessuali. Non per questo però Mishima credeva nell’esistenza di un terzo sesso, considerava giusta l’omogenitorialità o pretese che un suo fatto intimo e privato dovesse avere rilevanza pubblica o riconoscimenti amministrativi con tanto di sigillo del sindaco.

Mishima non accetta, non può accettare, l’americanizzazione del Giappone, le basi militari straniere, la degradazione del ruolo dell’Imperatore (non perdonò in alcun modo all’imperatore Hirohito di aver reso, il 1° gennaio 1946, la cosiddetta “dichiarazione della natura umana dell’imperatore”), la sovranità limitata.

«Abbiamo veduto il Giappone del dopoguerra rinnegare, per l’ossessione della prosperità economica, i suoi stessi fondamenti, perdere lo spirito nazionale, correre verso il nuovo senza volgersi alla tradizione, piombare in una utilitaristica ipocrisia, sprofondare la sua anima in una condizione di vuoto … Abbiamo sognato che il vero Giappone, i veri giapponesi, il vero spirito dei samurai dimorassero almeno nell’Esercito di difesa nazionale … Dov’è finito il vostro spirito di guerrieri? Qual è il significato di questo esercito ridotto ormai a un gigantesco deposito d’armi senz’ anima?… Abbiamo intrapreso quest’azione nell’ardente speranza che voi tutti, a cui è stato donato un animo purissimo, possiate tornare a essere veri uomini, veri guerrieri»[10].

Mishima è indisponibile a venire a patti con la modernità occidentale e con la sua imitazione giapponese. Lo ripugna l’utilitarismo gretto e l’individualismo, è convinto che la democrazia sia anche un ambiente sociale che crea uomini molli, deboli, dediti solo a realizzare una società di commercianti dediti al denaro. Egli si ribella a tutto ciò e invita l’esercito e i giapponesi a non rinunciare alla propria identità. Mishima vede scomparire il suo mondo, come Pasolini crede che l’unico argine al consumismo e all’omologazione siano i valori tradizionali. Lui, che trova conforto nelle cose antiche, rimpiange i tempi in cui gli uomini credevano nel valore dell’onore e della fedeltà ad ogni costo. Come, in fondo, nel nostro medioevo, laddove la Tradizione è unica nell’essenza anche se si manifesta in vari modi proiettandosi nel futuro conservandone la fiamma e l’Idea. In tempi democratici, egualitari e pacifisti credeva in una società basata sulla gerarchia e lo spirito guerriero, sullo spirito comunitario e sul rispetto dell’identità nazionale. La libertà non poteva essere intesa solo come pacifico godimento dei propri beni ma doveva essere incanalata in una partecipazione attiva alla vita della comunità, era un tutt’uno con i doveri che vengono prima dei diritti e con la responsabilità delle funzioni che si vanno a rappresentare e del ruolo che si ricopre. Di Mishima rimane molto, i suoi splendidi romanzi, le sue pose guerriere, quel corpo metallico e quello spirito indomito. Mishima non fu né un fascista né un pensatore politico, egli si rifaceva al codice dei samurai e ad un passato nipponico che pre esisteva al fascismo stesso. Totale il suo rifiuto della Modernità e del materialismo sovietico e americano. Egli si richiamava al Giappone eterno, ciò che più lo inorridiva era la mercificazione dei rapporti umani e dell’esistenza, la volgarità e la massificazione. Mishima è riuscito in quello che solo a pochi è concesso: proporre uno stile, una visione del mondo ed incarnare una morale inaccessibile.

 

 

BIBLIOGRAFIA ORIENTATIVA

Yukio Mishima, Confessioni di una maschera, Feltrinelli, Roma, 2013

Yukio Mishima, Sole e Acciaio, Guanda, Milano, 2008

Yukio Mishima, La via del guerriero, Feltrinelli, Roma, 2023

Yukio Mishima, Colori proibiti, Feltrinelli, Roma, 2018

Michele Lamanna, Yukio Mishima, Conservare il fuoco, Passaggio al bosco, 2022

 

NOTE

[1] Moravia lo definì un conservatore decadente

[2] “Non solo un concorrente perenne per il premio Nobel, ma, come Norman Mailer, [Mishima] si è anche ritagliato un posto permanente nella coscienza del pubblico con i suoi exploit teatrali sempre molto pubblicizzati: le sue apparizioni in film di gangster, la sua ossessione per il body-building e le arti marziali, le sue incursioni in politica e il piccolo esercito privato che aveva creato”.( Il New York Times, in un ritratto del 15 settembre 1985)

[3] Sole e acciaio fu una delle più riuscite opere di Mishima (Guanda, Milano 2016). I contenuti del libro apparvero a puntate tra il novembre 1965 e il giugno 1968 sulla rivista Hyōron zuihitsu

[4] Y.Mishima, Sole e Acciaio, Guanda, Milano, 2008 p. 20-21

[5] Yukio Mishima, La via del guerriero, Feltrinelli, Roma, 2023

[6] M.Veneziani, Rovesciare il ’68, Mondadori, Milano, 2008

[7] R. Guenon, “Il linguaggio segreti di Dante e sei “fedeli d’Amore”, estratti dagli articoli pubblicati su Le volie d’Isis, febbraio 1929 e marzo 1932 e raccolti nell’ antologia “L’esoterismo cristiano

[8] Y. Mishima, Confessioni di una maschera, Feltrinelli, Roma, 2013

[9] Y.Mishima, Colori proibiti, Feltrinelli, Roma, 2018

[10] Nel proclama poco prima del seppuku che compie dopo aver occupato l’ufficio del generale Mashita, il capo di stato maggiore dell’esercito di autodifesa

 

l’Autore

Roberto Lobosco, è nato a Cecina (LI) il 2 ottobre 1984. Laureato in giurisprudenza con una tesi di Diritto pubblico comparato. Ha pubblicato due saggi: La rivoluzione conservatrice europea. Storia e interpretazione del fascismo (Edizioni del Borghese, 2022) e Controstoria del franchismo (Edizioni idrovolante, 2023).

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