12 Ottobre 2024
Irlanda

Bobby Sands: il cuore e l’anima della rivoluzione irlandese

 

La protesta che investì il complesso penitenziario di Long Kesh, collocato vicino Belfast, iniziò a divampare nel 1977, quando gli oltre trecento detenuti irlandesi, tutti prigionieri politici repubblicani incarcerati per reati consumati contro l’occupazione britannica, considerati volutamente dalle autorità penitenziarie alla stregua dei detenuti comuni, decisero di rifiutarsi di indossare la tenuta carceraria che li equiparava ai criminali comuni per rivendicare, in quanto militanti nazionalisti, il riconoscimento della loro condizione reale di prigionieri politici.

La blanket protest aveva anche lo scopo di fare giungere all’esterno del carcere notizie sulla reale situazione nella quale versavano i detenuti e sui continui e pesanti maltrattamenti fisici e sulle perduranti violazioni della dignità personale che i prigionieri nazionalisti erano costretti a subire in quanto tali.

Maltrattamenti, pestaggi, “terapie” di correzione che a malapena mascheravano gli sfoghi delle guardie (tutte protestanti e ‘lealiste’, quindi torturatori volontari) che, con il beneplacito dell’amministrazione carceraria, potevano accanirsi senza riguardo alcuno contro i prigionieri repubblicani: “La tortura era una di quelle cose cui avevamo imparato ad abituarci. In realtà avevamo dovuto abituarci (…) non sapevamo mai quale porta avrebbero aperto, chi di noi avrebbero trascinato fuori dalla cella e pestato senza pietà.” Nudi come dei vermi, si coprivano solamente le parti intime con un asciugamano, i prigionieri, vista l’indifferenza glaciale dei carcerieri, furono costretti ad inasprire la protesta passando successivamente alla dirty protest ovvero cominciarono a rifiutarsi di radersi, di farsi tagliare i capelli, di lavarsi e infine si opposero allo svuotamento quotidiano dei buglioli, presenti nelle celle, che contenevano i loro escrementi.

La feroce perfidia delle guardie arrivò al punto di trovare divertimento, ogni mattina, nell’irrompere nelle celle e rovesciare sul pavimento, con un calcio, il contenuto dei buglioli.

Così tutti i giorni, per settimane. Le celle erano diventate delle squallide e sudice fogne dove, a denti stretti, continuava la resistenza dei prigionieri: “Ci sono diversi modi per scuoiare un animale e, nel nostro caso, per tentare di spezzare la resistenza di un prigioniero di guerra.”

Le guardie, sempre tutelate e incitate dalle autorità, si misero d’impegno per piegare la protesta dei blanketmen diminuendo le già ridotte razioni di cibo e utilizzando alimenti avariati, aumentando il numero delle irruzioni nelle celle, sia di giorno che nella notte, per gli ormai divenuti consueti pestaggi e per le degradanti perquisizioni corporali nelle parti intime che precedevano i pestaggi.

A fronte di quelle continue umiliazioni i prigionieri trovarono lo stesso il conforto necessario nella certezza della vittoria, proclamando orgogliosamente “il nostro giorno verrà”, e lo proclamarono in gaelico: Tiocfaidh ar là!

Quando venne permesso all’arcivescovo cattolico Thomas O’Fiaich di visitare i prigionieri lo squallido spettacolo che si presentò agli occhi del prelato fu così sconvolgente da lasciarlo profondamente turbato: “Lasciando da parte l’essere umano, difficilmente si lascerebbe vivere un animale in tali condizioni. L’immagine che più si avvicina a ciò che ho visto è quella delle centinaia di homeless che vivono nelle fogne di Calcutta.” Lo stesso turbamento, però, non scalfì la ferrea arroganza britannica.

I prigionieri avanzarono, allora, al Governo britannico una serie di richieste politiche che se concesse avrebbero posto fine alla protesta. Richiesero che ai prigionieri repubblicani fosse garantito il diritto ad indossare i propri indumenti anziché la tenuta carceraria, non fossero obbligati al lavoro carcerario, fosse loro garantita la possibilità di ricevere una visita e una lettera settimanalmente, fosse loro permesso di unirsi con gli altri prigionieri durante l’ora d’aria e, infine, che potessero usufruire anche loro degli sconti di pena al pari dei detenuti comuni. Il Governo britannico rispose che non avrebbe mai trattato con dei terroristi e, pertanto, avrebbe rigettato le richieste. Per questi motivi e visto il perdurare dell’indifferenza dell’amministrazione politica inglese, che non si sentiva minimamente colpita dalla campagna di controinformazione che dall’esterno gettava logicamente discredito su di essa, il consiglio politico dei prigionieri decise, dietro indicazione strategica dell’IRA, di alzare ancor di più il tono della protesta adottando la forma più estrema e radicale che si potesse immaginare: lo sciopero della fame.

Il primo prigioniero ad iniziare la nuova protesta sarà Brendan Hughes, comandante dei prigionieri repubblicani di Long Kesh, lo seguiranno a ruota altri sette detenuti.

Queste prime proteste durano poco — pur sempre una cinquantina di giorni che ridussero i prigionieri in fin di vita — perché gli inglesi, barando, fecero trapelare la notizia di una possibilità di intesa riguardo alle richieste. Ma si trattò solamente di una delle solite vigliaccate inglesi. Non rimaneva, a questo punto, per gli avviliti prigionieri altra scelta che riprendere con decisione la protesta e portarla fino alle estreme conseguenze.

Toccherà, per sua libera scelta, ad un giovane prigioniero di nome Bobby Sands diventare il protagonista e il simbolo di tutti gli hunger strikers.

Bobby Sands era un volontario dell’IRA a tutti gli effetti, si era voluto arruolare nel 1972 dopo che aveva provato sulla propria pelle e su quella della famiglia le angherie e i soprusi dell’occupazione britannica, le discriminazioni e le intimidazioni degli attivisti protestanti e soprattutto il particolare senso della ‘giustizia’ degli inglesi. Era arrivato a Long Kesh, “ospite” nei famigerati H-Blocks verso la fine del 1977 per scontare una condanna a 14 anni di reclusione per partecipazione ad azioni di terrorismo, fu quindi automaticamente solidale e partecipe con gli altri prigionieri nello svolgimento della protesta per i diritti politici. In carcere irrobustirà la propria formazione politica e culturale e si impegnerà, anche, nello studio del gaelico e il 1 marzo del 1981 deciderà di donare integralmente sé stesso alla causa del suo popolo, per la liberazione dell’Irlanda, per denunciare a tutto il mondo i crimini britannici in terra irlandese.

Inizierà così lo sciopero della fame ad oltranza di Bobby Sands che, per la generosità del suo gesto e la bontà della fede che albergava nel suo grande cuore, diventerà il simbolo della sofferenza irlandese e la bandiera del riscatto nazionale: “Accettare lo status di criminale significherebbe degradare me stesso e ammettere che la causa in cui credo e di cui mi nutro è sbagliata. Quando penso agli uomini e donne che hanno sacrificato la loro vita, le mie sofferenze mi sembrano insignificanti. Ci sono stati molti tentativi per piegare la mia volontà, ma ognuno di questi tentativi mi ha reso ancora più determinato.”

Il Governo britannico, allora guidato dalla Margaret Thatcher, manifestò imperterrito tutto il suo cinico disprezzo nei confronti degli hunger strikers, nonostante che il valore della protesta avesse ormai già varcato i confini dell’Irlanda del Nord e generasse, ovunque, commozione e solidarietà.

L’opinione delle autorità britanniche consistette nell’affermare che se dei “terroristi” avevano deciso di morire di fame, allora potevano pure tranquillamente farlo, con la “benedizione” di Sua Maestà.

Eppure, grazie alla grande solidarietà del movimento repubblicano e agli sforzi del Sinn Fein, guidato dal nuovo presidente Gerry Adams (l’ex comandante della brigata di Belfast dell’IRA) Bobby Sands venne, anche, eletto deputato al parlamento di Westminster.

La notizia che un “terrorista” era diventato un parlamentare rappresentò un boccone troppo indigesto, anche per la Lady di ferro, e al contempo dimostrò che quel “terrorista” era il volto dell’Irlanda e che la Nazione irlandese si stringeva attorno ai suoi prigionieri politici.

Secoli di lotta contro la dominazione britannica avevano abituato gli irlandesi ad andare incontro alla morte anzitempo, anche quando la morte si presentava sotto le forme della casualità e della sfortunata coincidenza, come spesso accadeva nell’Irlanda del Nord. Bastava trovarsi nel posto sbagliato e nel momento sbagliato e poteva succedere di tutto all’improvviso: un’autobomba che esplodeva di fronte ad un pub, una raffica di mitra proveniente da una macchina in corsa, i colpi sparati da un cecchino inglese troppo nervoso o da uno sbirro della RUC troppo zelante. Ma l’andare incontro alla morte, come fecero gli hunger strikers, come se fosse un estremo atto d’amore nei confronti del proprio popolo e della propria Nazione, rappresentò una novità così sconvolgente da marcare la coscienza degli irlandesi in maniera indelebile.

Dopo 66 giorni di digiuno, Bobby Sands, morendo poneva fine al suo doloroso calvario.

A coloro che nei giorni precedenti il decesso, implorandolo, gli chiedevano di smettere, di interrompere la protesta Bobby Sands, serenamente, rispondeva: “Sorry, but I must die”, Scusatemi, ma io debbo morire. Il 5 maggio 1981 l’Irlanda repubblicana era in lutto, quella protestante in apprensione per quello che avrebbe potuto fare l’IRA.

Non era ancora tempo di vendette, quel momento sarebbe giunto, ma dopo i funerali.

Dopo Bobby Sands moriranno altri nove prigionieri che avevano iniziato a ruota lo sciopero della fame ad oltranza: Francis Hughes, Raymond Mac Creesh, Patsy O’Hara, Joe Mac Donnel, Martin Hurson, Kevin Lynch, Kieran Doherty, Thomas McElwee e Micky Devine. Anche loro si immoleranno volontariamente sull’altare sacrificale della libertà irlandese e il numero dei “votati al martirio” sarebbe stato anche maggiore se, nel frattempo, non fosse giunto a Long Kesh l’ordine da parte del Comando dell’IRA di interrompere la protesta.

I funerali di Bobby Sands saranno solenni e imponenti, decine e decine di migliaia di irlandesi accompagneranno il feretro del combattente repubblicano, avvolto nella bandiera tricolore irlandese, nel suo ultimo viaggio verso il cimitero di Milltown, non mancherà neppure il picchetto armato d’onore dell’IRA.

I fucili dell’IRA spareranno a salve per rendere testimonianza e gratitudine al coraggioso volontario.

L’esercito britannico che in forze e a distanza presidiava la zona dovrà sopportare anche questo affronto.

“Bobby Sands, deputato al Parlamento, volontario dell’IRA, prigioniero politico di guerra, Requiescat in Pacem.”

Con i funerali di tutti e dieci hunger strikers si andava così chiudendo una delle pagine più gloriose della tormentata storia dell’eroico popolo irlandese. Dimenticare tutto questo, dimenticare il loro sacrificio sarebbe ingiusto nei confronti della Storia della Nazione irlandese, ma soprattutto sarebbe un’offesa alla nostra coscienza e alla loro memoria

Onore ai caduti dell’Esercito repubblicano irlandese!

Onore a Bobby Sands e ai martiri di Long Kesh!

 

 

Maurizio Rossi

2 Comments

  • Lupo nella Notte 19 Maggio 2015

    Speriamo che non lo dimentichino soprattutto loro, gli Irlandesi di oggi, accerchiati anch’essi, come tutti i popoli occidentali e non solo, dai mille subdoli tentacoli di una modernità invasiva e omologante, di cui, con la breve quanto illusoria parabola delle “tigri celtiche” – durante gli anni ’90 vi era associata anche la Scozia – declinata nel solo aspetto economicistico e di ottuso “benessere”, son rimasti vittima né piú né meno di tanti altri. L’Irlanda vista oggi conserva angoli che sembrano ancora salvarsi da tale appiattimento intellettuale – meno a Dublino, per ragioni di inevitabile centralità politico-economica e per costituire la città piú popolosa del Paese – soprattutto grazie alla presenza di una Natura, che, sebbene anche lí stuprata da secoli, per mano dell’onnipresente protervia inglese – l’Irlanda era ricoperta di foreste durante l’Età di Mezzo, mentre oggi si conta solo qualche riserva naturale – conserva un severo fascino che lascia presentire il legame con la realtà spirituale che vi si cela dietro. Pensare che Margaret Thatcher sia ancor oggi presa ad esempio da sedicenti “tradizionalisti” la dice lunga sulla grettezza che guida il pensiero umano “moderno”.

    Go mbeannaí Dia dhuit, Éire!

  • Lupo nella Notte 19 Maggio 2015

    Speriamo che non lo dimentichino soprattutto loro, gli Irlandesi di oggi, accerchiati anch’essi, come tutti i popoli occidentali e non solo, dai mille subdoli tentacoli di una modernità invasiva e omologante, di cui, con la breve quanto illusoria parabola delle “tigri celtiche” – durante gli anni ’90 vi era associata anche la Scozia – declinata nel solo aspetto economicistico e di ottuso “benessere”, son rimasti vittima né piú né meno di tanti altri. L’Irlanda vista oggi conserva angoli che sembrano ancora salvarsi da tale appiattimento intellettuale – meno a Dublino, per ragioni di inevitabile centralità politico-economica e per costituire la città piú popolosa del Paese – soprattutto grazie alla presenza di una Natura, che, sebbene anche lí stuprata da secoli, per mano dell’onnipresente protervia inglese – l’Irlanda era ricoperta di foreste durante l’Età di Mezzo, mentre oggi si conta solo qualche riserva naturale – conserva un severo fascino che lascia presentire il legame con la realtà spirituale che vi si cela dietro. Pensare che Margaret Thatcher sia ancor oggi presa ad esempio da sedicenti “tradizionalisti” la dice lunga sulla grettezza che guida il pensiero umano “moderno”.

    Go mbeannaí Dia dhuit, Éire!

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