“Il ritorno è il movimento della Via”.
Non mi piacciono le persone che si sforzano d’esser buone. Il superbo che tenta d’esser umile, il violento che si atteggia a pacifico, il lascivo che fa voti di castità. V’è in loro una sgradevole innaturalezza. Ogni vera virtù è ignara di sé stessa. Si è buoni senza volerlo, senza saperlo. Perciò, compiere intenzionalmente una ‘buona azione’, perché mossi da obblighi o convenienze morali, mi pare un atto essenzialmente cattivo, perché offende la verità. Come dice Carlyle, “la natura non tollera menzogne”.
È lo spirito, in quanto fondamento metafisico della natura, a non ammettere falsità, ad aborrire la moralità fondata su una falsa coscienza. Anche quando hanno funzione di menzogna utile, in certi casi necessaria, i deliberati atteggiamenti morali spostano il baricentro dell’esistenza dalla dimensione del naturale a quella dell’artificio, dell’opportuna finzione. Creano un attrito tra interiorità e ruolo sociale, ciò che siamo e ciò che vogliamo apparire, nascondono la nostra vera natura sotto un velo di virtuosa simulazione.
Dobbiamo dunque essere brutali, maldicenti, egoisti, dissoluti ecc. se è questa la nostra indole? La domanda è mal posta. Essere non è una scelta. Cambiar disposizione d’animo non dipende infatti dalla volontà. Possiamo solo assecondare o frenare i nostri impulsi, decidere se è più opportuna, date le circostanze, la dissimulazione o l’autenticità, l’esprimere alcune spontanee inclinazioni o reprimerle, secondo regole di urbanità.
Diceva Pascal che “chi è solito dire frasi spiritose ha cattivo carattere”. Ora, uno che avesse l’abitudine di dire facezie, che stimasse Pascal e leggesse queste parole, potrebbe decidere di non far più dello spirito. Ciò cambierebbe il suo carattere? Certamente no, semplicemente lo nasconderebbe un po’. E questo è uno degli scopi precipui dello sforzo morale, il negare a una sollecitazione interna il diritto di manifestarsi, inibirla, esibendo al suo posto qualcosa che non ci è connaturato. V’è dunque nell’atto morale un elemento di falsificazione, di occultamento, che con l’abitudine diventa inconsapevole.
Non voglio così assimilare tout court moralità e ipocrisia. Occorre riconoscere che l’honnête homme, il gentleman, l’uomo ben educato, che sa come comportarsi in società, è il prodotto di un moralismo raffinato, arte del recitare indispensabile nelle relazioni interpersonali quanto lo è la giusta pressione dell’aria nei pneumatici. Seguire alcuni principi morali non è una mera questione di etichetta. Può evitare all’uomo di far del male agli altri e a sé stesso, come quando si rispetta una segnaletica stradale o una regola dietetica.
In fondo, sia il prudente contenersi che l’assecondare gli istinti, l’attenersi a una disciplina morale o l’abbandonarsi a un’impulsività incontrollata, sono manifestazioni della nostra libertà. Rivelano una natura che non coincide né con un monolitico blocco di pulsioni né con un’etica tutta d’un pezzo, ma con un’energia fluida, dove la passione e la ragione lottano, si elidono o si fondono.
Non credo che siamo creature di un Dio sigillato dentro una statica perfezione, Actus Purus come l’immaginano Aritotele o san Tommaso. Per me l’universo è emanazione di una divinità contraddittoria, sempre in divenire, immagine non di un infinito chiuso in sé stesso ma di un’infinita potenzialità. Partecipiamo di un potere creativo in sé conflittuale, in cui l’esistenza del bene implica il male, e la libertà, per esprimersi, ha bisogno di forze che le resistano.
Non credo neppure all’ingenua, mitologica antropodicea secondo cui la nostra natura vergine sarebbe stata corrotta dall’ingerenza di maligne forze esterne. Il male, il satanico, mi sembra una nostra realtà intrinseca, forse inestirpabile dall’animo umano. E francamente trovo assurdo supporre che l’uomo nasca buono e sia la società a corromperlo.
È indubbio tuttavia che la nostra libertà di scegliere e decidere, di stabilire giudizi e valori, dipende per lo più dalla tradizione in cui siamo cresciuti, dall’educazione, dall’ambiente e da una fiducia nell’autorità che tende a indebolire la confidenza in noi stessi. Una serie di regole culturali limita il nostro raggio visivo, determina in noi una contrazione dell’universo di significati in cui l’esistenza ci pone. Finiamo col valutare le cose secondo la loro conformità o difformità rispetto ai modelli e agli ideali che una società, una morale, una religione ci impongono. Perdiamo così il contatto con la dimensione profonda e invisibile della nostra soggettività, con quella trascendenza da cui procede la nostra libertà.
Ogni procedura tesa a rimuovere o a nascondere la natura spirituale dell’uomo è dunque un tentativo di restringere la sua libertà. È perciò nella sostanza un atto politico o, più essenzialmente, satanico. Volontà maligna di esercitare un controllo sugli altri, pregiudicando la dimensione metafisica su cui poggia l’autodeterminazione personale. Gran parte della nostra vita è di fatto soggetta a un rigido sistema di controllo e repressione, stretta tra una vincolante organizzazione sociale, giuridica da un lato e obbligazioni etico-religiose dall’altro, sottomessa alla doppia coercizione, fisica e mentale, di due opposti e complementari totalitarismi.
Un tempo erano la teocrazia papale e la Santa Inquisizione a rappresentare il totalitarismo morale. Fides suadenda non imponenda, diceva saggiamente san Bernardo. Ma se la persuasione non bastava si ricorreva alle torture e ai roghi. Totalitarie erano pure quelle sette eretiche o riformiste che pretendevano di formare comunità pure e spirituali attraverso il letteralismo teologico e la repressione dell’Eros. Totalitario era l’ascetismo ottuso, intransigente, che esigeva la mortificazione della natura.
Espressione estrema di questa prepotenza morale e punitiva, l’idea più inconcepibilmente ingiusta nella storia dell’umanità, fu quella di minacciare un castigo eterno, tessendo una trama di assurde sottigliezze per renderla compatibile con l’idea di giustizia divina. E forse solo per paura del fuoco inestinguibile tanti cristiani si son preoccupati di tenere una condotta visibilmente conforme alle norme, alle prescrizioni rituali, alle osservanze canoniche, sperando che Dio, nel suo giudizio, tenesse conto più delle apparenze che della realtà. La moralità divenne così una straordinaria scuola di doppiezza.
Ma questo era il passato. Oggi, col declino della Chiesa, la prassi della doppia costrizione è passata in gran parte nelle mani di un totalitarismo prettamente secolare. L’umanità moderna è schiacciata dal tallone di una dittatura – ideologica, politica, economica, scientifica, tecnologica – chiamata Progresso. Sorta di titanismo anti-divino, fede assoluta nel potere di perfezionare il mondo grazie alla sola volontà umana. Pretesa che potrebbe avere un senso se la volontà dell’uomo fosse orientata al bene.
Ma di fatto, questo ottimistico umanesimo si rivela una forma di delirio, se consideriamo quanto in noi sia il riflesso di una coscienza sedotta da tentazioni sataniche, dominata da avidità e amore del potere, odio, egoismo, crudeltà. Ebbra di slogan idealistici e moralizzanti, la società progressista affonda così in una cloaca di vizi, di appetiti abominevoli, e i suoi utopici programmi finiscono col partorire solo più perfette tirannidi.
Ogni sistema morale, statale o ecclesiastico, crede infatti di poter estirpare il Male sopprimendo la libertà che lo rende possibile. Ordinamenti sociali, ordini religiosi, movimenti ‘spirituali’, tutti trovano legittimo perseguire i propri obiettivi con l’uso di metodi repressivi e costrittivi, di una pedagogia aggressiva, che non solo controlla l’uomo esternamente, ma crea in lui automatismi censori, sensi di colpa, pulsioni auto-punitive, abituandolo a una moralità che cura il male col male.
La virtù, l’umanità, la giustizia, dice Laozi, sono un male, perché nella loro formale precettistica sanciscono la perdita di una naturale armonia, divengono causa di confusione e discordia. Finché regna l’originaria com-passione non c’è alcun bisogno di un’etica e di una Legge. Quando si spegne l’amore tra gli uomini, la moralità ne diventa il pallido spettro, la cenere fredda.
In una società come la nostra, che non è sicuramente guidata dall’amore, la moralità appare dunque un male inevitabile. In assenza di una spontanea e reciproca carità, la costrizione morale e giuridica può sembrare in certa misura giustificata, come ammortizzatore di opposti egoismi, come argine al dilagare di tendenze asociali e criminali. Ma la moralità è essa stessa una forma di corruzione, e non può distruggere un singolo atomo di malvagità nel mondo. Se la moralità aumenta d’un pollice l’immoralità la imita, se la legge si inasprisce il crimine fa altrettanto. Una segue l’altra come un’ombra
Perciò Cristo dice di non resistere al male. Il Male è infatti realtà spirituale, refrattaria a ogni legalismo e a qualsiasi intervento esterno. Solo un’educazione del cuore, un’intuizione spirituale, possono penetrarlo e superarlo. Se Dio ci dà dei comandamenti non è per imporci un sistema morale ma per ricordarci che l’uomo, prima che la sua libertà venisse corrotta, non mentiva, non rubava, non uccideva ecc. Questo è evidente quando Dio ci prescrive di “non desiderare”, il che è evidentemente impossibile.
Anche “amare i nemici”, “essere perfetti come il Padre”, non indicano compiti morali, perché nessuno può amare o essere perfetto volontariamente. L’ordine morale è dunque un’ingiunzione paradossale, il cui scopo è renderci consapevoli della nostra condizione decaduta. Non si riferisce tanto a norme di comportamento quanto a una trascendenza inattingibile alla volontà. Ogni devota imitatio, emulazione di un modello di santità esteriore, è quindi grottesca quanto tingersi i capelli sperando che torni la giovinezza.
L’atteggiarsi, il conformarsi a stereotipi virtuosi, può solo farci comprendere quanto sia nocivo per lo spirito il fingere e il mentire a sé stessi. Meglio di un moralismo velleitario è una sincera immoralità. La coscienza di portare in noi un male immedicabile può infatti favorire un abbandono e con ciò l’irrompere in noi di forze naturali e spirituali, risananti. Può essere l’inizio di una redenzione, metanoia impossibile finché siamo convinti che a salvarci siano i nostri atti morali.
Ma nella nostra epoca materialista redenzione è parola ormai priva di significato. Liquidata ogni prospettiva metafisica, oggi prevale la dimensione del concreto e dell’utile (termini che nel lessico attuale, nella sua logica capovolta, rimandano ad astrazioni superflue). La libertà vien vista in termini puramente secolari, come protocollo politico, empirico, tecnico. Anche lo spirito è gestito secondo il principio della medicina sintomatica: nascondere il male senza curarlo.
Abbiamo perciò un’etica sintomatica, una giustizia sintomatica, una bontà sintomatica, rimedi intesi a sopprimere i sintomi di una libertà pericolosa ma per sua natura insopprimibile. Alla libertà si oppongono governi repressivi della vita collettiva, sistemi autocratici, strutture politiche che appaiono personificazioni del Male, secondo le parole di S. Agostino: remota justitia, quid sunt regna, si non latrocinia magna – senza giustizia, cosa sono gli stati se non bande di briganti?
Nel suo tendere all’iperbole della sorveglianza e della dipendenza, la società moderna appare l’incarnazione più compiuta di un demonismo ormai senza freno, “il più gelido di tutti i gelidi mostri”, per usare l’espressione di Nietzsche. Società che nasconde il suo carattere costrittivo sotto presunte necessità di ordine, sicurezza, prevenzione ecc.
Ogni misura politica, sociale, economica, ha ormai natura satanica. Satanici sono i fantasmi di libertà che il sistema ci offre: cambiar sesso, soddisfare turpi desideri, navigare nelle paludi malariche della Rete, sostenere col proprio voto regimi totalitari travestiti da democrazie. Sataniche sono tutte quelle iniziative tese ufficialmente a migliorare il sistema – razionalizzare, ottimizzare, semplificare, rendere più efficiente e funzionale ecc. – che in realtà erodono la libertà delle persone, le costringono fisicamente e moralmente a digitalizzarsi, a medicalizzarsi, o a fare qualsiasi altra cosa possa favorirne il controllo.
La nostra è probabilmente la società più corrotta a memoria d’uomo, perciò la più moralistica. Siamo obbligati a pesare ogni parola con bilancini da orefice, per non offendere nessuno, per non istigare all’odio e alla violenza, per non discriminare, per non essere politicamente o sessualmente scorretti. Dobbiamo essere “inclusivi, rispettosi, tolleranti”, secondo una moralità cosmetica, fatta di vuote parole.
È la società del corruptissima re publica plurimae leges, farisaica, sepolcrale e verminosa all’interno, ma fuori immacolata e scrupolosamente igienizzata. “Noi addestriamo dei giovani a scaricare Napalm sulla gente, ma i loro comandanti non gli permettono di scrivere cazzo sui loro aerei perché è osceno”, dice il colonnello Kurtz. Questa è la nostra società. Un capolavoro di ipocrisia, un’unica totalizzante Menzogna. E, come direbbe Kurtz, “non c’è nulla che io detesti di più del fetore delle menzogne”.
Da questa pianificazione sociale, che mira a estirpare natura e spirito, nascerà infine un mondo in cui pochi statisti e plutocrati criminali si sentiranno in diritto di far qualsiasi cosa, di fissar leggi che loro primi non rispetteranno, di esercitare un potere maligno sull’uomo, come divinità amorali, auto-deificanti, che reggono in modo arbitrario i destini umani, che sanno tutto di noi. Non sarà più Dio a violare la nostra privacy ma una rete di macchine occhiute. E la gente crederà d’esser libera.
Cancellando la libertà si distruggerà il potere creativo dell’uomo, senza il quale la libertà stessa non avrebbe senso. Perciò l’arte rapidamente scomparirà, sostituita con artefatti banali o surrogati virtuali. Avremo un’umanità sempre più sterile e volgare, dal linguaggio coatto, dominata dal brutto e dal disarmonico. Saremo cavie di un’ingegneria morale che cercherà di omologare ogni giudizio e ogni valore. Infine, le nostre decisioni dipenderanno da un sistema etico fittizio, nel quale opposti principi, apparentemente in lotta tra loro – giustizia e ingiustizia, verità e menzogna, libertà e schiavitù – saranno in realtà espressioni di uno stesso Male. Avremo così un annichilimento radicale di ogni valore, di ogni verità, un Nulla satanico.
C’è qualche ragione di sperare che ciò non accada? Non so. Di certo la soluzione non cadrà su di noi come manna dal cielo. Credo che l’umanità sia a un bivio. Una via avanza, insegue i sogni illimitati del progresso, ci promette intelligenza artificiale, morale artificiale, salute artificiale, vita artificiale; un mondo dove tutto è soggetto a un controllo scientifico e tecnologico sempre più perfetto, a normative sempre più minuziose e ineludibili, come in certe distopie fantascientifiche. È la via dei lemming. Lì le regole morali serviranno solo a dissimulare oscure pulsioni di morte.
Forse questo destino è già scritto. Ma ai visionari è data un’alternativa. Per loro c’è una via che ritorna, si volge alla semplice libertà della natura e dello spirito. È la via di chi usa le cose senza esserne usato. Non conduce a vaneggianti ascensioni, verso vette sempre più alte, fino a perdersi nelle nuvole. È la via di chi sa abbassarsi, porsi liberamente dei limiti, senza altre regole che quelle dell’armonia e del rispetto della vita.
Perciò ridiscende verso la terra, vuol ritrovarne la piana e sicura superficie sotto i piedi. Ha capito che “più lontano si va meno si capisce”. Sente che dopo i suoi tragici vagabondaggi, dopo aver dissipato la sua fortuna, è ora di tornare a casa. Forse la natura lo riabbraccerà felice. Lo spirito lo spoglierà dei suoi cenci maleodoranti e gli darà vestiti puliti, come a un figliol prodigo.
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