C’è ormai un’idea fissa, fra le tante, alcune aberranti, date a bere nello smarrimento generale del nostro tempo, e cioè che il Risorgimento fu opera di una minoranza, una sorta di “quattro gatti” non si sa come ritrovatisi, ai quali la gran maggioranza del popolo italiano, contadina e analfabeta, rimase estranea se non addirittura refrattaria o avversa. Questa fola, in parte partorita dai soliti noti, in parte lanciata e rilanciata da spalti non meglio identificati, è rimbalzata qui e là, e infine ha preso a galoppare e si è imposta in quel nebbioso e inaffidabile anfratto della coscienza che si chiama immaginario collettivo.
Queste e altre inesattezze, unite ai luoghi comuni sull’Italia e gli Italiani, capita di sentirle sovente da gente improvvisata che del Risorgimento non sa nulla, o conosce quelle poche nozioni scolastiche-convenzionali che da decenni forniscono agli studenti un’infarinatura superficiale e insufficiente, per non dire mediocre.
Anzitutto, per chi lo ignora, il Risorgimento ebbe un seguito, dopo il 1870 in cui avvenne la presa di Roma. Se la presa di Roma, infatti, sancisce la fine del Risorgimento ufficiale, esso in realtà continuò con un altro nome: Irredentismo. A parte ogni altra considerazione, perciò, se il Risorgimento fosse stato di una minoranza, relegato in un angolo, non si capisce come avrebbe potuto dar vita al vigoroso fenomeno dell’Irredentismo che è la sua prosecuzione, il quale fu così forte e radicato che portò alla rottura della Triplice Alleanza tra Vienna, Roma e Berlino, e, sull’onda di imponenti dimostrazioni popolari con le quali non poteva competere la minoranza dei pacifisti e neutralisti, all’intervento dell’Italia nella Grande Guerra a fianco di Francia e Inghilterra il 24 maggio del 1915.
Né l’Irredentismo si esaurì con questa, ma continuò dopo la Vittoria del 4 novembre 1918, infine unificandosi al Fascismo, che sempre mirò alle terre italiane che ancora rimanevano sotto dominazione straniera. Ciò ebbe un senso fino all’8 settembre del 1943, dopodichè l’Italia, a seguito della sconfitta nella seconda guerra mondiale, passò dallo stadio di potenza a quello di comparsa o poco più, e quindi non fu più in grado di rivendicare un bel nulla.
Ciò premesso, bisogna chiarire una volta per tutte che il Risorgimento attraversò in ogni direzione la società italiana, senza eccezioni di sorta: né il censo, né l’età, né l’essere o meno istruito, né la collocazione geografica, né il sesso, né le idee politiche personali, né la classe sociale, riuscirono a porsi come uno steccato a una passione che coinvolse, cointeressò e, spesso, travolse nel suo impeto generoso e coraggioso, un popolo intero. Il nome stesso “Risorgimento” rimanda non già ai sommessi conciliaboli di pochi, bensì a un atto corale, collettivo, che è poi quello che salta all’occhio guardando alle numerose stampe e opere pittoriche dell’epoca, dove la coralità, la partecipazione popolare, gli assembramenti di popolo, la condivisione, sono chiaramente delineati da artisti e ritrattisti che amavano la riproduzione dal vero.
Parlare del Risorgimento, perciò, mentre sembra facile, in realtà è assai difficile. Erroneamente si crede che basti aver leggiucchiato qua e là qualche libro sparso per poter dire di conoscerlo, ma non è così. Esso sorprende sempre, quanto più ci si addentra a studiarlo nelle decine di migliaia di pagine che formano l’ossatura della sua documentazione. E’ una galleria in cui, una volta entrati, non si riesce più a uscire perché sono tante e tali le sue vicissitudini, i personaggi e le vicende che lo riguardano, che se ne resta sbalorditi. Altro che minoranza.
E, del resto, come avrebbe fatto Garibaldi a salvarsi, sempre, in ogni situazione, inseguito com’era da sei polizie che gli davano la caccia e con una taglia elevatissima messa dagli austriaci sopra la sua testa, se la popolazione non l’avesse sempre accanitamente protetto e nascosto? In massima parte proprio quei contadini ignoranti che si vorrebbero estranei al processo risorgimentale. Garibaldi era dappertutto e andava dappertutto, avrebbero potuto catturarlo cento volte. Ma non lo presero mai. Perché la popolazione unanime faceva muro: coriacemente e pervicacemente.
Tralascio le ragioni, spesso meschine, se non riprovevoli, che hanno portato a rimpicciolire il Risorgimento, addirittura denigrandolo. Non tutti i revisionismi sono corretti dal punto di vista storico, e fare il parallelo con la Resistenza –soggetta a un giusto revisionismo- non ha alcun senso, trattandosi di due fenomeni storici completamente diversi, checchè a suo tempo ne abbia detto il Presidente Ciampi. Di conseguenza, la tesi che il Risorgimento fu di una minoranza è inaccettabile, e metterlo in chiaro è fondamentale per intraprendere qualsiasi discorso storico di più ampio respiro sull’Italia. Non bisogna confondere gli stati d’animo attuali di un popolo abbattuto, scoraggiato, deluso e disilluso com’è il nostro, con quelli di un popolo che, centocinquant’anni fa, nonostante fosse molto più povero e ignorante, possedeva tutto ciò che noi non possediamo: il coraggio, la fede, la speranza e la volontà. Altrimenti, in che altro modo spiegare episodi di massiccia coralità quali l’insurrezione di Catania, di cui ci parla lo scrittore Federico Di Roberto nel suo capolavoro “I Vicerè”, l’epica resistenza di Venezia all’assedio austriaco, quella di Ancona, l’insurrezione di Livorno, di Perugia, dell’Aquila, di Potenza, e tante altre? Nel 1835, un “maxi-processo” nell’Italia settentrionale contro patrioti accusati di appartenere alla Giovine Italia, portò a 19 condanne a morte, trecento all’esilio e sessanta a pene detentive di varia entità, con relative confische dei beni. Quando non era sufficiente colpire i capi, le autorità colpivano la popolazione che li seguiva: così avvenne, per esempio, a Cesena, dove le truppe papaline e austriache si scagliarono sulla città dando luogo a quello che è passato alla storia come il “massacro di Cesena.” Del resto, la popolazione che seguiva il Risorgimento, pur essendo la quasi totalità, più che partecipare attivamente alle azioni cruente, conduceva una preziosa opera fiancheggiatrice e simpatizzante, nascosta e defilata, clandestina e silenziosa, ma non per questo meno utile, meno incisiva e meno rischiosa. I “falò patriottici”, per esempio, una sorta di fuochi a tre colori accesi in cima alle colline, molto frequenti in Veneto, erano una delle innumerevoli trovate escogitate dagli Italiani per infastidire gli Austriaci e i loro manutengoli. La fantasia certo non mancava nell’ideare sempre nuove forme di provocazione, di resistenza e di protesta che, benchè indolori e incruente, sortivano il loro effetto.
Cavour, che con tanta angoscia seguiva le prodezze dei patrioti, rimproverò aspramente Mazzini accusandolo di mandare schiere di rivoltosi allo sbaraglio, e per questo si disse contrario a insurrezioni che si risolvevano in un bagno di sangue senza concluder nulla. Fu per tale motivo che imbastì un accordo segreto con il poco affidabile Napoleone III, imperatore dei francesi (figlio di un fratello di Napoleone Bonaparte), nell’intento di raggiungere risultati più concreti, ponendo un argine allo spontaneismo-ribellistico che, per un uomo calcolatore e lungimirante come lui, appariva inutile. E Garibaldi finì per assecondare l’impostazione diplomatica impressa da Cavour agli avvenimenti, che poi dette la svolta pratica al Risorgimento italiano, ma abbisognò comunque di altre due guerre d’indipendenza e di ulteriori operazioni militari, tra cui l’impresa dei Mille, cui presero parte in realtà decine di migliaia di combattenti.
Dunque, il Risorgimento italiano fu e restò sempre un fenomeno collettivo.
A Potenza, nelle carceri di Santa Croce, erano stipati nel 1848 più di 1600 patrioti, (la cifra è indicata nel libro “Lucania 1860” di Enrico Ajello -1960), per la maggioranza provenienti dalle campagne: erano i “generosi della Lucania”, poi vertiginosamente aumentati nel corso degli anni seguenti, cui si rivolse Garibaldi in varie occasioni, e che tanta importanza ebbero nell’impresa dei Mille.
A Trapani, il Re Umberto I decorò l’intera città per i suoi alti meriti risorgimentali.
A Torino, il 3 dicembre 1847, si radunò una folla di 40.000 persone in delirio a cantare “Fratelli d’Italia” davanti a Re Carlo Alberto e a suo figlio Ferdinando il duca di Genova.
L’esistenza e la diffusione capillare della Carboneria in tutta Italia, perfino nell’isoletta di Favignana nelle Egadi, ove esisteva un duro carcere borbonico nel quale molti carbonari, per lo più di origini modestissime, patirono i ferri e l’ergastolo, non si spiega con l’idea di un Risorgimento esiguo, pianificato dai Massoni o da un cenacolo di idealisti e intellettuali, magari del nord Italia. Peraltro la Massoneria, al contrario della Carboneria (che nacque senz’altro nel Sud Italia), era un cenacolo aristocratico-altolocato di derivazione inglese, piuttosto tradizionalista, ormai assai diverso dall’antica progenitrice medioevale. Tra Carboneria e Massoneria esistevano fondamentali differenze, rimaste a lungo misconosciute dietro l’apparente analogia, il che ha creato la “communis opinio” che si trattasse di sette molto affini se non uguali (o che addirittura la Carboneria fosse nata dalla Massoneria), ma non era così, e infatti nel tempo, mentre la Carboneria ha continuato a rimanere misteriosa e a far arrabbiare gli storici, la Massoneria è venuta allo scoperto coi suoi riti, le sue beghe, i suoi adepti, i suoi intellettualismi, le sue evoluzioni e involuzioni, e, soprattutto, le sue divisioni. Bisogna perciò essere molto chiari su questo punto, e sbugiardare i denigratori di professione, che di solito sono anche incompetenti.
Prenderò a ulteriore esempio della diffusione a livello nazionale del Risorgimento, la città di Trento: una volta baluardo di Italianità e di Romanità, adesso, in questi tristissimi tempi, è divenuta una cittadina austriacante, disdegnosa del suo eroe Cesare Battisti e del di lui monumento funebre (peraltro un’opera d’arte, inaugurata con gran solennità dal Fascismo nel 1935): i suoi cittadini sono platealmente disinteressati alle Patrie memorie, incuranti della casa natale dell’eroe ubicata in pieno centro cittadino, e si guardano bene dal celebrare degnamente l’anniversario della Grande Guerra, mentre si sono mostrati solleciti nel fare affiggere una lapide per commemorare i trentini morti, a detta loro, per l’Impero asburgico. Dietro a questi gesti antipatici c’è sempre lo zampino dell’amministrazione locale, si sa, e possiamo immaginare come sia quella di Trento in particolare e della regione Trentino Alto-Adige in generale.
E’ d’uopo a tal proposito puntualizzare alcune cose non di poco conto, e cioè che la maggioranza dei soldati trentini “morti per l’impero asburgico” era costretta a farlo, tant’è che veniva inviata in fronti lontani dove si dava spesso e volentieri prigioniera al nemico, invocando, da quella prigionia, l’Italia; i rifugiati trentini in Italia furono molte migliaia, per non parlare di quelli rinchiusi nei campi di concentramento austriaci; ma gli smemorati di oggi non sanno o fingono di non sapere che anche l’allora podestà di Trento, cav. Vittorio Zippel, destituito dalla sua carica, fu imprigionato e condannato a otto anni di carcere duro, così come il vicepodestà, avv. Giuseppe Menestrina, che si salvò solo nascondendosi, e perfino l’arcivescovo di Trento, mons. Celestino Endrici, per tradizione considerato un principe austriaco, venne esiliato nell’abbazia di Heiligenkreuz, presso Baden, e sottoposto a processo disciplinare per aver manifestato chiari sentimenti d’italianità. Fine ancor peggiore fece il Presidente della Camera degli Avvocati di Trento, avv. Valentino Peratoner, che, rinchiuso nelle tetre carceri del castello del Buon Consiglio, non resse alle torture e si suicidò.
Soltanto sulle fughe e sui sistemi di fuga adottati dai trentini per varcare il confine con l’Italia allo scoppio della Grande Guerra, non basterebbe un libro. E infatti ne furono scritti diversi, tra cui “Per l’ideale- Fughe avventurose dei Trentini dall’Austria”, di Mario Ceola, edito nel 1933. Alcuni fuggiaschi vennero perfino nascosti in casse con sopra scritto “fragile-non toccare”. Altri si travestirono da ferrovieri. Altri ancora si nascosero sotto il carbone o immersi nel deposito d’acqua delle locomotive. Nei più svariati in molti riuscirono a farcela, anche con l’aiuto di organizzazioni apposite che procuravano documenti falsi, ma per alcuni la fuga si concluse tragicamente, come per Guido Ducati, un magistrato di Rovereto che fuggì attraverso la montagna, ma fu travolto da una valanga. Le fughe attraverso la montagna erano infatti assai rischiose: Vico Bonfioli, di Trento, dalla Galizia ove si trovava presso l’imperial esercito in qualità di soldato automobilista, scappò percorrendo in due giorni 800 chilometri con l’automobile di servizio che avrebbe dovuto far riparare dopo averla guastata intenzionalmente. Giunto in Val di Sole, lasciò colà l’automobile, e coraggiosamente, a dir poco, in quella stagione avanzata (era novembre), affrontò da solo, munito di scarsi viveri e di modesto equipaggiamento, i paurosi ghiacciai del gruppo Cevedale-Ortles. Narrare le peripezie, le fatiche, l’ardimento e la tenacia di quest’individuo, che s’avanzò per giorni nel freddo, nella neve e nelle tempeste, farebbe impallidire anche Salgari e tutti i registi di tutti i film odierni scritti intorno a eroi immaginari. Questo invece è esistito per davvero, e se fossi un trentino mi sentirei di sprofondare dalla vergogna davanti a lui, con tutta una città immemore, arida e irriconoscente, e una nazione ignorante e indifferente.
In conclusione: che cosa è mai successo in Italia perché, dai e dai, si arrivasse a denigrare il Risorgimento, a disconoscerlo, rinnegarlo, manometterlo, sminuirlo e tradirlo? Chi e perché ha potuto così impunemente rivoltare le carte, sputando sulle patrie memorie, seminando a piene mani confusione, notizie false e tendenziose, calunnie, infangamenti, su di un evento così importante della Storia d’Italia, atteso e vagheggiato fin dalla caduta di Roma?
La risposta è racchiusa nella tragedia di una nazione che, 70 anni fa, ha perso una guerra nella cui Vittoria aveva riposto tutte le sue speranze e puntato tutte le aspettative. Il Fascismo era considerato infallibile, e quando ha perso l’infallibilità, il popolo italiano adorante si è sentito tradito e ha subito un tracollo psicologico, perdendo bruscamente la fede e la sicurezza in sé stesso, il rispetto di sé stesso, la certezza delle cose, l’obiettiva capacità di valutarle e di reagire, piegandosi infine alla rassegnazione, alla sterile rabbia e al disimpegno patriottico.
Di questo clima purtroppo anche il Risorgimento ha fatto le spese, finendo per lo più nel dimenticatoio, studiacchiato, per uscirne infine strapazzato dalla ben nota schiera di denigratori neoborbonici, leghisti, clericali, gramsciani, autonomisti, che, trovata la porta aperta, hanno rialzato la cresta. E’ ben vero che, quattro anni fa in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, c’è stato un parziale recupero della sua Sacra Memoria con mostre e iniziative in tutta Italia, ma è anche vero che gli Italiani vi hanno aderito in parte, distolti da altri problemi e comunque sviati dal coro di voci venefiche che tuttora insistono e persistono a spacciare per vere illazioni, invenzioni e diffamazioni insopportabili su quel fondante evento storico.
Ma, senza il Risorgimento, è inutile parlare di Italia. C’è infatti un ineludibile filo che lo unisce alla Grande Guerra e quindi al Fascismo, e ben lo precisò Giovanni Gentile, il quale non a caso lo definì la “resurrezione della Patria”, e nella sua riforma della scuola del 1923 lo inserì nei programmi di studio fin dalle elementari.
Maria Cipriano
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