di Mario M. Merlino
Il poeta Guido Gozzano in quello, che viene definito ‘periodo indiano’ ed ultimo della sua vita e produzione artistica, scrive la poesia (1913) che s’avvia con questi versi: ‘Ma bella più di tutte l’Isola Non-Trovata: – quella che il re di Spagna s’ebbe da suo cugino – il Re del Portogallo con firma sugellata e bulla del Pontefice in gotico latino…’. Francesco Guccini, il cantautore, ne trarrà una delle tante sue poetiche canzoni, che prosegue: ‘Il Re di Spagna fece vela cercando l’isola incantata – però quell’isola non c’era e mai nessuno l’ha trovata. – Svanì di prua dalla galea come un’idea; – come una splendida utopia è andata via – e non tornerà mai più…’.
Nel 1515, durante una missione politica nelle Fiandre per il sovrano d’Inghilterra, Tommaso Moro scrive e pubblica a Lovanio, l’anno successivo, un breve scritto intitolato Utopia. Termine che si affermerà (si ritiene ormai in modo unanime che esso derivi dal greco ‘où tòpos’, in nessun luogo) e giungerà fino a noi con il suo carico di suggestive speranze o critiche spietate. Egli intendeva descrivere il modello dello stato ideale – e, immediatamente, il rimando va alla Repubblica di Platone, con alcune soluzioni già indicate dal filosofo greco -. Un paragone tra le istituzioni del suo tempo, quelle dell’Inghilterra in primo luogo, e quelle di questa isola che, appunto essendo un’isola, sa preservarsi integra incontaminata stabile. Mentre il mondo feudale va dissolvendosi (e Tommaso Moro ne deride le virtù fondate sull’onore e sulla spada così come la tradizione della Scolastica) gli stati che si affacciano sull’oceano Atlantico operano la cosiddetta ‘dilatazione dello spazio’ in cerca di nuove vie di comunicazione di nuove terre di futuri domini e ricchezze.
L’imperatore Carlo V prende a stemma due uomini che spezzano le catene e il motto ‘plus ultra’ a indicare come il divieto di procedere oltre le colonne d’Ercole non avesse più senso.
L’Inghilterra di Enrico VIII sarà quella che, per citare le teorie del giurista tedesco Carl Schmitt (si legga, ad esempio, Terra e Mare, il saggio che sotto forma di racconto egli scrive nel 1942 per la figlia Anima), saprà meglio e in modo più spregiudicato approfittarne. Chi intende il mare come il tramite di una sponda verso altra sponda e ne determina il controllo, costui avrà in mano le sorti del mondo. Per potersi gettare in questa impresa il sovrano dovrà legittimare l’assolutismo regio, il dominio sulla chiesa, svincolandosi da ogni ingerenza degli ‘odiati papisti’, e favorire la giovane borghesia con il suo denaro contro il possesso delle terra, espropriata agli ecclesiastici e data in vendita (ed anche qui Tommaso Moro interviene sia in fedeltà al potere spirituale della Chiesa tanto da affrontare nel 1535 la scure del boia non accettando lo scisma tutto politico di Enrico VIII sia con il ripudiare l’uso del denaro fra gli abitanti di Utopia, avendo ben intuito come l’accumulare ricchezza rappresenti il vero discrimine tra ricchi e poveri).
Scrive il filosofo Ernst Cassirer in Saggio su l’uomo: ‘La grande missione dell’Utopia è di dare adito al possibile, in opposizione alla passiva acquiescenza all’attuale stato di cose. E’ il pensiero simbolico che trionfa della naturale inerzia dell’uomo e lo dota di una nuova facoltà, la facoltà di riformare continuamente il suo universo’. Ed io aggiungo che rappresenta quel tipo umano che non s’acconcia là dove il tempo e le circostanze gli hanno imposto d’esistere, che s’adegua e ovatta se stesso, ma si mette in cammino per oltrepassare l’estrema linea dell’orizzonte, sentendo ogni spazio sulla propria pelle il principio di sbarre e chiavistelli…
Di tutto questo si parlerà il 15 marzo presso gli amici di Passe-partout a Littoria quale terzo incontro del breve ciclo su argomenti della filosofia. Così Rodolfo, con il quale abbiamo condiviso alcune avventure editoriali (penso ad Inquieto Novecento e a Strade d’Europa), tratterà specificatamente delle opere utopiche tra il ‘500 e il ‘600 quali, va da sé La Città del Sole, scritta probabilmente nel 1602 e stampata in Germania nel 1623, da Tommaso Campanella monaco domenicano e filosofo dal temperamento irrequieto nei ventisette anni trascorsi nelle carceri di Napoli, fingendosi matto per sfuggire alla condanna a morte, dopo aver ideato una velleitaria stravagante congiura contro il dominio spagnolo. Anche qui un’isola – sembra molto plausibile potersi identificare con Ceylon -, anche qui un modello di stato ideale con accenti platonici forse ancor più marcati. E, infine, la Nuova Atlantide di Francesco Bacone, scritta intorno al 1624 rimasta incompiuta e pubblicata nel 1627 ad un anno dalla morte del filosofo. L’isola si colloca di fronte alle coste del Perù. Ciò che interessa a Bacone – e che pervade tutta la sua riflessione – è l’affermazione dell’uomo sulla natura tramite la scienza e un nuovo metodo di conoscenza. Così egli ci descrive, a differenza di Moro e Campanella, non un modello ideale di stato ma la Casa di Salomone dove gli scienziati lavorano in stretta collaborazione fra loro, si dividono il lavoro, si votano interamente alla ricerca. E, si può ipotizzare, come egli segretamente riflettesse sulla supremazia della scienza rispetto al potere politico e religioso pur non spingendosi a una dichiarazione formale per non incorrere nei rigori della legge. Troppo ambizioso, troppo servile, intrigante e corrotto…
Il compito, che mi accingo per il 15 marzo, è portare il romanzo fantapolitico a dignità di opera letteraria e di capacità di denunciare i rischi per la civiltà e la cultura. Nel XX secolo esso assurge a ‘distopia’, cioè quale rovesciamento in negativo di quanto l’utopia descriveva quale alternativa di perfezione armonia stabilità esempio da seguire. Perché anche in questo contesto
si decide il destino dell’uomo, quell’’essere in costante pericolo’ per dirla con Zarathustra. Quando Aldous Huxley nel 1932 pubblica Il Mondo Nuovo, facendo uso di allucinogeni (si dice), lo si può ben intendere come una satira delle società liberal-democratiche, soporifere beote stravaccate diseguali, i cui effetti tra consumismo e conformismo sono sotto i nostri occhi. Nel 1948 George Orwell, dopo l’esperienza della guerra civile di Spagna (Omaggio alla Catalogna da cui il regista Ken Loach ha tratto l’epico film Tierra y Libertad) e La fattoria degli animali, in cui i maiali (Stalin ed i suoi accoliti) si ergono a feroci detentori del potere con la formula che ‘alcuni animali sono più uguali degli altri’, dà alle stampe 1984. Il protagonista, Winston Smith svolge il mestiere di manipolare costantemente la storia secondo il principio ‘Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato’. Anche qui palese la denuncia dello stalinismo… E gli esempi potrebbero continuare, ad esempio con il fortunato e celebre Farenheit 451 di Ray Bradbury (1953) e, prima di lui, con Noi di Zamjatin (1921) meno fortunato e celebre perché scritto nella Russia di Lenin (figura magari su cui stendere il velo dell’oblio ma di cui s’incappa tuttora nel reato di lesa maestà se ci si accinge a farne critica).
si decide il destino dell’uomo, quell’’essere in costante pericolo’ per dirla con Zarathustra. Quando Aldous Huxley nel 1932 pubblica Il Mondo Nuovo, facendo uso di allucinogeni (si dice), lo si può ben intendere come una satira delle società liberal-democratiche, soporifere beote stravaccate diseguali, i cui effetti tra consumismo e conformismo sono sotto i nostri occhi. Nel 1948 George Orwell, dopo l’esperienza della guerra civile di Spagna (Omaggio alla Catalogna da cui il regista Ken Loach ha tratto l’epico film Tierra y Libertad) e La fattoria degli animali, in cui i maiali (Stalin ed i suoi accoliti) si ergono a feroci detentori del potere con la formula che ‘alcuni animali sono più uguali degli altri’, dà alle stampe 1984. Il protagonista, Winston Smith svolge il mestiere di manipolare costantemente la storia secondo il principio ‘Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato’. Anche qui palese la denuncia dello stalinismo… E gli esempi potrebbero continuare, ad esempio con il fortunato e celebre Farenheit 451 di Ray Bradbury (1953) e, prima di lui, con Noi di Zamjatin (1921) meno fortunato e celebre perché scritto nella Russia di Lenin (figura magari su cui stendere il velo dell’oblio ma di cui s’incappa tuttora nel reato di lesa maestà se ci si accinge a farne critica).
Negli anni in cui mi costruivo una personale modesta forse mediocre utopia libertaria misurando i tre metri per sei della cella al secondo braccio di Regina Coeli, mia madre mi portò il libro Il Dio che è fallito, dove alcuni noti intellettuali raccontavano come, dopo un iniziale entusiasmo per il comunismo e l’Unione Sovietica, se ne fossero distaccati denunciandone le storture le deviazioni i crimini. Non ricordo chi (il libro si è nascosto dietro qualche pila di suoi simili!) diceva che l’utopia ci fa vedere un’aringa salata simile a un cavallo da corsa. In quegli stessi anni il dissidente numero uno della Yugoslavia di Tito, Milovan Gilas (nome triste e tristo per le genti istriane, prima vittime delle foibe e poi dell’esodo) pubblicava La Nuova Classe , in cui attaccava la burocrazia del partito socialista come rifiorire di privilegi sfruttamento angherie verso il popolo. E concludeva come un mondo senza utopie è costretto a trasformarsi in universo concentrazionario… Ognuno sceglie o si fa scegliere secondo il proprio buon gusto. Io ho fatto la mia. Tutto qui.
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