La stele di Irtysen è un monumento proveniente dall’antico Egitto, da Abydos, in calcare, alta m 117,5 e larga cm 56. Non si sa nulla del contesto archeologico, è datata alla XI dinastia, cioè all’inizio del Medio Regno (2055 a.C.-1790 a.C.), attualmente è conservata al Museo del Louvre (C 14).
La stele fu rinvenuta durante l’attività di raccolta di Thédenat-Duvent nel 1820 e acquisita dal Museo del Louvre dalle collezioni Erard nel 1838. La stele è menzionata da Champollion già nel 1826.
Irtysen era un supervisore di artigiani, professione che elogia in questa stele, uno dei più famosi documenti egizi antichi legati alla produzione artistica. Descrive la sua padronanza dei segreti legati alla scrittura geroglifica, ai rituali e alla magia. Racconta inoltre di conoscere le pose e le proporzioni di particolari tipi di figure nella scultura e in rilievo e le ricette utilizzate per creare colori duraturi. Tutte queste conoscenze sarebbero state trasmesse solo al figlio maggiore.
Verso l’inizio la stele presenta queste parole in egiziano antico: iw(=i) rx=kwi sStA n mdw-nTr sSm.t-aw nw H(A)b.yt HkA nb apr-n=(i) sw nn swA.t im=(f) Hr=i, che possiamo tradurre così “io conosco il segreto della parola divina (geroglifici), gli adempimenti della festa e ogni magia io la ho acquisita senza che possa essermi sfuggito alcunché (letteralmente: il fuggire in essa da me)”.
Irtysen, nome che in egiziano significa “i due occhi di loro”, testimonia di conoscere tanto la scienza delle lettere, cioè i geroglifici, mdw-nTr, letteralmente “parole (mdw) del dio (nTr)”, quanto i segreti più reconditi delle celebrazioni sacre e la magia. Pertanto, da tali parole traspare come anticamente la scienza (geroglifici), la religione (feste) e la magia fossero strettamente unite.
Oggi siamo abituati a pensare alla magia quale un esercizio condannato dalle religioni, e insomma roba da ciarlatani; invece, in passato la magia era spesso il braccio operativo della religione, i riti infatti erano considerati efficaci non solo per volontà della divinità ma anche per opera magica, quando addirittura la stessa divinità non aveva poteri magici, come Iside, la dea della magia.
Il sacro rappresenta per molti aspetti la tensione più pura dell’uomo di andare oltre i propri limiti, di trascendere la sfera contingente e acquisire dei poteri provenienti dai mondi occulti, con i quali instaura delle relazioni. In egiziano, infatti, il geroglifico della parola HkA, “magia”, è una corda con tre nodi, simboli dei tre mondi della manifestazione: quello umano, quello spirituale e quello divino.
Nel mondo antico tutto era religioso, di solito. Bisognerà attendere la Rivoluzione francese (1789) affinché il mondo laico si emancipi da quello sacro. Nel passato più antico invece non stupisce che il Museo di Alessandria, che conteneva la famosa Biblioteca, era retto da un iereus, che in greco antico significa “sacerdote”. In greco antico non esiste un termine specifico per “religione” come a dire che tutto era religioso, quando non si disponeva di una terminologia per separare il sacro da ciò che non lo era.
Pertanto, non stupisce che nell’antico Egitto non vi fosse una vera e propria storiografia, come la intendiamo noi oggi, debitori di Erodoto, il quale volle raccontare i fatti così come avvenuti realmente. La storia egiziana, infatti, procede per categorie uguali per tutti i fatti narrati, cioè la vittoria della divinità, rappresentata dal faraone, in egiziano detto: per aa, “grande casa”, in ossequio al tempio, che egli perpetua in continuazione contro le forze del male, rappresentata dai popoli non egiziani.
Per questa ragione coloro che non erano egiziani venivano considerati degli incivili, un po’ come i “barbari” per i greci. A sud dell’Egitto vi era la Nubia, ove i nubiani erano considerati una bassa manovalanza da impiegare per gli interessi del grande Egitto.
I Dispacci di Semna (British Museum 10752) sono contenuti un papiro scritto sul verso e sul recto. Sul verso sono presenti testi magici, tra cui un incantesimo contro i fantasmi. Il recto contiene i cosiddetti Dispacci di Semna.
Il papiro fa parte della collezione di papiri ritrovati in una cassa proveniente da una tomba saccheggiata alla fine della XIII dinastia sotto il Ramesseum, apparentemente appartenente a qualcuno come un sacerdote lettore. Due dei papiri della cassa si trovano al Museo Egizio di Berlino (P. Ramesseum A e D); gli oggetti si trovano al Fitzwilliam Museum di Cambridge e al Manchester Museum. I papiri sono molto fragili, a quanto pare a causa dell’umidità della tomba.
I Dispacci trattano specificatamente dei rapporti tra le guarnigioni egizie e gli indigeni nubiani, chiamati Medjai, che gli Egizi combattevano, ma che usavano anche come mercenari.
È impressionante andare a ritroso nel tempo e leggere in egiziano antico quelle parole, segno di un passato che non c’è più, che è filtrato inesorabilmente come la sabbia di una clessidra.
Si tratta di una informazione recapitata agli egiziani da due nubiani (2 aHAwty 70 mDAy Sm=(w) m-sA pA-a m Abd 4(-nw) (ny) pr.t sw 4 iw(=w) r smi.t n=i m hrw pn, “due soldati dei 70 Medjai hanno percorso il sentiero nel quarto mese d’inverno, giorno 4 e sono tornati per fare rapporto a me in questo giorno”). I due soldati nubiani riferiscono agli egiziani che hanno trovato tre nubiani e quattro bambini in un certo luogo posto a sud dell’argine di coltivazione posto alla base di una iscrizione. Oggi gli studiosi non hanno molto altro riguardo tale informazione.
Oggi molti studiosi ritengono che gli antichi egiziani non avessero schiavi tra gli egiziani, ma che questi ultimi dovessero prestare dei servizi volontari per le grandi costruzioni. Qualcosa di simile alla schiavitù (o meglio alla bassa manovalanza) la abbiamo in Egitto per gli stranieri, come i nubiani e anche gli ebrei, come ci testimonia la Bibbia. Gli ebrei erano tutta una popolazione schiavizzata per gli interessi degli egiziani.
La Bibbia racconta che gli ebrei poi fuggirono dal giogo egiziano (esodo), si incamminarono per quaranta anni nel deserto e giunsero alla Terra Promessa, la Palestina, che era dei ghebusei, conquistandola. Gli ebrei cinsero d’assedio la città dei ghebusei e riuscirono nell’impresa scoprendo la vena di acqua che alimentava la città, interrompendo il flusso del liquido vitale e quindi costringendo i ghebusei alla resa.
La prima testimonianza extrabiblica relativa agli ebrei è costituita dalla stele egiziana di Merneptah, datata attorno al 1209 a.C.-1208 a.C. In essa è scritto: “Israele (è) distrutto, non (c’è) la sua discendenza”, ysyriar fk.t bn pr.t=f. Si riferirebbe all’esodo degli ebrei, mentre le espressioni usate dagli egiziani sarebbero iperboliche, come era consuetudine. Interessante osservare come il determinativo per il termine Israele è costituito da un uomo e una donna, che indica un popolo non ancora sedentarizzato.
Il cristianesimo è stato fondato da Gesù Cristo, ebreo, il quale si staccò dalla religione dei padri. Per i cristiani Gesù è il Messia e l’Uomo-Dio. Cristo, in greco “unto”, come l’ebraico Messia, è per i cristiani Dio stesso, il quale si è incarnato nel grembo della Vergine Maria per salvare l’umanità mediante la sua morte in croce e la seguente risurrezione e glorificazione in Cielo.
Luca 2, 6-7: mentre Maria e Giuseppe, provenienti da Nazaret in Galilea, si recarono in Giudea per fare il censimento ordinato dalla autorità romana in vista della tassazione, giunti a Betlemme “si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoria, perché per loro non c’era posto nell’alloggio”.
Fin dall’inizio della storia della salvezza Dio promette ad Abramo un luogo, una terra. Si tratta non solo di un luogo fisico (la Terra Promessa) ma anche dell’incontro con Dio stesso. In Genesi 13, 3 si dice che Abramo continuò il suo viaggio fino a Betel, in ebraico “casa (bet) di Dio (El)”, al luogo dove era la sua tenda e l’altare che egli aveva fatto prima e lì invocò il nome del Signore. Questo episodio si ripete in Genesi 19, 27: Abramo si alzò di mattina presto e andò nel luogo dove si era fermato alla presenza del Signore, in ebraico abbiamo letteralmente il verbo chamad, “stare in piedi”, e per questo il versetto è di grandissima rilevanza per la tradizione ebraica. Abramo qui istituisce la preghiera del mattino (gli ebrei hanno tre diverse ore di preghiera, riprese dai cristiani). Per gli ebrei la preghiera più importante si chiama Amidah (dall’infinito ebraico la-amod, “stare in piedi”), in quanto il pio ebreo sta ritto con il volto rivolto verso Gerusalemme. Per la mentalità ebraica tutte le istituzioni ebraiche sono prefigurate dai patriarchi. Quindi il luogo del quale parla la Genesi non è soltanto un posto nello spazio ma il segno concreto dell’incontro di Abramo con il Signore.
Invece nel Corano (9, 108) si dice che nella moschea, luogo di preghiera dei musulmani, “non stare mai lì (a pregare) in piedi”, lā taqum fihi abadan. Questo perché la moschea è fondata da Allah affinché gli uomini si purifichino con la preghiera e chi si purifica non deve stare in piedi ma prostrato come segno di obbedienza.
È in Genesi 22 che si inizia a parlare del luogo più importante per gli ebrei, più della Terra Promessa, cioè il tempio di Gerusalemme. Abramo sta portando suo figlio Isacco al sacrificio e il testo dice che il terzo giorno (che per la tradizione ebraica è sempre il giorno della salvezza) egli alzò gli occhi e vide da lontano il luogo, il monte Moria, sul quale sorgerà il tempio di Gerusalemme, e Abramo chiama quel luogo “il Signore vede”, espressione ebraica che si può tradurre anche con “il Signore è visto”. Insomma, il tempio è il luogo nel quale l’uomo instaura una relazione con Dio.
In Genesi 28, 11 Giacobbe sta fuggendo dall’ira del fratello Esaù e letteralmente il testo recita “egli si imbatté nel luogo”, in ebraico wayyfgach bamaqom. In ebraico maqom, “luogo”, è una parola vocalizzata come se vi fosse un articolo determinativo, quindi va tradotta “il luogo”, i rabbini si chiedono perché non “un luogo” ma “il luogo”. Perché si tratta del luogo del futuro tempio di Gerusalemme in Bet-El, Casa di Dio. Poi Giacobbe reclina il capo su una pietra e sogna la scala di Dio con gli angeli che la salgono. Dio incontra Giacobbe quando quest’ultimo è solo, è fuggiasco e non ha nemmeno un luogo in cui posare il capo per dormire. Dio sceglie gli ultimi per fare cose grandi. Avvicina l’uomo nel momento della difficoltà e si fa padre e maestro.
In Isaia 57, 15 Dio dice: “In un luogo eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati, per ravvivare lo spirito degli umili e rianimare il cuore degli oppressi”. I santi cristiani dicono che i poveri e i malati sono gli amici prediletti di Dio. Dio sceglie sempre ciò che è basso per innalzarlo e così confondere i superbi. Geremia era balbuziente, giovane e umile di spirito, ma è stato sedotto da Dio, e l’originale ebraico non parla tanto della seduzione della carne, cosa però presente anche in altri profeti, come Osea, che era un innamorato di Dio, bensì Geremia era quasi incapace di intendere e volere, ma Dio lo ha scelto come si fa con un incapace, come se Dio avesse fatto una circonvenzione di incapace. Nel Nuovo Testamento si dirà che anche i poveri in spirito sono beati. Isaia 66, 1: “Il cielo è il mio trono, la terra lo sgabello dei miei piedi. Quale casa mi potreste costruire? In quale luogo potrei fissare la dimora? Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola”. Giovanni 1, 14: “E il Verbo si è fatto carne e ha posto la tenda in noi” (en ēmin, anche “tra di noi”).
Il Salmo 34 esprime tutta la speranza dell’umile nel Signore:
2 Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode
3 Io mi glorio nel Signore,
ascoltino gli umili e si rallegrino.
4 Celebrate con me il Signore,
esaltiamo insieme il suo nome.
5 Ho cercato il Signore e mi ha risposto
e da ogni timore mi ha liberato.
6 Guardate a lui e sarete raggianti,
non saranno confusi i vostri volti.
7 Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo libera da tutte le sue angosce.
8 L’angelo del Signore si accampa
attorno a quelli che lo temono e li salva.
9 Gustate e vedete quanto è buono il Signore;
beato l’uomo che in lui si rifugia.
10 Temete il Signore, suoi santi,
nulla manca a coloro che lo temono.
11 I ricchi impoveriscono e hanno fame,
ma chi cerca il Signore non manca di nulla.
12 Venite, figli, ascoltatemi;
v’insegnerò il timore del Signore.
13 C’è qualcuno che desidera la vita
e brama lunghi giorni per gustare il bene?
14 Preserva la lingua dal male,
le labbra da parole bugiarde.
15 Stà lontano dal male e fa il bene,
cerca la pace e perseguila.
16 Gli occhi del Signore sui giusti,
i suoi orecchi al loro grido di aiuto.
17 Il volto del Signore contro i malfattori,
per cancellarne dalla terra il ricordo.
18 Gridano e il Signore li ascolta,
li salva da tutte le loro angosce.
19 Il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito,
egli salva gli spiriti affranti.
20 Molte sono le sventure del giusto,
ma lo libera da tutte il Signore.
21 Preserva tutte le sue ossa,
neppure uno sarà spezzato.
22 La malizia uccide l’empio
e chi odia il giusto sarà punito.
23 Il Signore riscatta la vita dei suoi servi,
chi in lui si rifugia non sarà condannato”.
Il verso 6 canta: “Guardate a lui e sarete raggianti, non saranno confusi i vostri volti”. Il verbo ebraico nhr II, che dovrebbe alludere alla luce del giorno (Giobbe 3, 4), lo si trova applicato all’uomo sono qui e in Isaia 60, 5, dove significa appunto “brillare di gioia”. Il misero, l’umile, il malato e il peccatore hanno la possibilità di riscatto nella contemplazione di Dio, mediante la quale l’uomo è avvolto dalla luce di Dio: “Alla sua luce egli vede la luce” (Salmo 36, 10). Questo “contemplare” avviene nel tempio attraverso la preghiera e il culto: nel tempio avvolto nella luce di Dio (Isaia 2, 1-5; 60) l’uomo perde la sua cecità (Giovanni 9) e viene immerso nella luce del Signore. Nella Bibbia la cecità non è solo quella della carne, ma allusione alla cecità del cuore quando è immerso nel dolore e nel peccato. Dio risponde alla supplica dell’umile, quindi Dio libera il povero che invoca e viene ad abitare la sofferenza, che quindi diviene luogo privilegiato della Presenza divina.
Esodo 3, 5: Mosè, ancora fuggiasco, perché ha ucciso un egiziano, ha un incontro con Dio presso il roveto ardente. Dio gli ordina di togliersi i sandali perché sta su una terra santa. Mosè viene accolto da Dio il quale gli si rivela, ma Dio nell’ordinargli di togliersi i sandali vuole mettere in chiaro che Mosè non ha possesso di quel luogo. Il luogo dell’incontro con Dio, cioè la Terra Santa, non è proprietà di Mosè, ma resta sempre la terra di Dio. Mosè, quindi, non ha un luogo.
Dio scende nella Tenda del Convegno, un santuario itinerante santificato dagli ebrei mentre attraversavano il deserto. Il deserto è un non-luogo, il luogo della assenza e della prova, ma lì Dio si fa presente e al popolo più misero e tribolato della storia di allora, che proprio per questo, senza nemmeno una terra stabile, Dio dona tutto sé stesso, dona agli ebrei la grazia della Shekinah, la Presenza di Dio, che si ripeterà anche nel tempio di Gerusalemme, ove Dio sta nel Santo dei Santi, il luogo più sacro del tempio.
Nel deserto la Tenda del Convegno è il luogo in cui Dio dà appuntamento a Mosè. Egli si incontra con Dio presente sotto forma di nube che la sovrasta. Dio nel deserto cammina dinanzi al popolo per cercare un luogo. Ma il luogo per eccellenza non è una Terra in cui abitare ma il tempio, nel quale il pio israelita incontra Dio in una relazione amorosa. In Deuteronomio 12 si dice che Dio ha scelto il luogo in cui fissarvi la sede del suo nome, cioè il tempio di Gerusalemme. Per gli antichi ebrei il nome era il simbolo della persona stessa; quindi, nel tempio vi è la Presenza di Dio, Shekinah.
Il grande dramma della storia della salvezza è non quello per cui Dio non si fa trovare. Tutto parla di Dio e i segni della divinità stanno in ogni religione, anche se Dio viene chiamato con nomi diversi. Tutto è pieno della gloria di Dio. In ogni civiltà Dio si rivela e dà luoghi nel quale incontrarlo. Ma il problema è un altro: c’è posto nel cuore dell’uomo per Dio? Spesso sperimentiamo il vuoto, sentiamo che Dio non ci è vicino perché non lo amiamo; quindi, non c’è posto per Dio nel nostro cuore. Venne fra i suoi ma i suoi non lo hanno accolto, come dice Giovanni 1. Dio è il re dell’universo, sta da per tutto, ma c’è un luogo nel quale Dio non può stare senza il nostro permesso, ed è il nostro cuore. Egli si ferma di fronte alla nostra libertà. Ecco il dramma dei drammi. Dio onnipotente e che per amore è nato tra di noi per salvarci, non può costringerci ad amarlo. Dobbiamo scegliere.
Dio sceglie le persone più umiliate e che spesso non hanno un luogo. Cristo scelse umili pescatori della Galilea per farli annunciatori del messaggio più rivoluzionario della storia, quello per cui i superbi cadono dei troni e vengono innalzati gli umili. Non è comunismo, è prima di tutto cristianesimo. Per questo Gesù nella sua prima incarnazione nella umiltà della carne non ha nemmeno un alloggio in cui stare. Dio si incarna in una famiglia di emarginati, che erano andati fuori dalla propria abitazione per fare il censimento, e nasce senza nemmeno un tetto proprio sopra la testa.
Secondo la dottrina cattolica, Cristo è Figlio di Dio: lo Spirito Santo, che è la terza Persona della Santissima Trinità, quindi Dio, fa concepire Gesù nel grembo verginale di Maria. Giuseppe è solo il padre putativo, che ha il compito di assistere lui e Maria nelle vicende quotidiane. Giuseppe era discendente del re Davide, il quale ebbe i natali a Betlemme, per questa ragione Giuseppe, pur abitando a Nazaret, dovette recarsi a Betlemme per farsi censire. Doveva essere censito solo il capo famiglia, quindi non si sa bene perché venne anche Maria. Gli studiosi riportano il fatto che in Siria anche le donne, a partire dal dodicesimo anno di età, erano soggette al testatico (tassazione). Oppure Giuseppe prese con sé Maria per non lasciarla sola in quelle settimane o anche per sottrarla ai pettegolezzi.
Cristo è la seconda Persona della Santissima Trinità, assieme al Padre e allo Spirito Santo. La Trinità non è costituita da tre divinità, ma da un solo Dio in tre Persone uguali e distinte. È un mistero inafferrabile, la mente umana non può capire come sia possibile un prodigio del genere. Cristo è Dio fatto uomo, cioè che ha deciso di nascere nel grembo di una donna. Egli svuotò sé stesso e decise di manifestarsi agli uomini in una condizione di estrema povertà. Cristo è vero Dio e vero uomo. Una sola Persona e due nature, quella umana e quella divina. Maria, quindi, è Madre di Dio, in greco Theotokos.
La chiesa ha sempre difeso la verità di Cristo dalle eresie: per i nestoriani Cristo sarebbe due persone con due nature distinte (umana e divina); per i monofisiti come Eutiche Cristo avrebbe solo la natura divina; per chi non riconosce la divinità di Cristo (ariani), Cristo non avrebbe natura divina, ma sarebbe una sorta di angelo. La Lettera agli Ebrei (1, 1-6) celebra così il mistero ineffabile della divinità di Cristo: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, apaugasma tēs doxēs kai charaktēr tēs upostaseōs, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato. Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato? E ancora: Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio? Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: Lo adorino tutti gli angeli di Dio”.
Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae III, q 36 a 4) scriveva: “La nascita di Cristo era ordinata alla salvezza degli uomini, che si attua mediante la fede. Ora, la vera fede riconosce la divinità e l‘umanità di Cristo, fides autem salutaris divinitatem et humanitatem Christi confitetur . Era perciò necessario che la nascita di Cristo fosse manifestata in maniera tale da non pregiudicare la fede nella sua umanità. E ciò avvenne per il fatto che Cristo mostrò in sé stesso i segni dell‘umana debolezza, hoc autem factum est dum Christus in seipso similitudinem infirmitatis humanae exhibuit, e tuttavia mostrò insieme il potere della propria divinità per mezzo delle creature di Dio. E così Cristo fece conoscere la sua nascita non direttamente da sé stesso, ma per mezzo di alcune creature”.
Tuttavia, Dio resta sempre un mistero. Possiamo avere qualche barlume di conoscenza, ma alla fine della nostra ricerca intellettuale Dio resta sempre ignoto nel profondo (Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles I, 49, 5: in fine nostrae cognitionis Deum tamquam ignotum cognoscimus). Esodo 33, 18-23: “Mosè disse: Ti prego, fammi vedere la tua gloria! har’eni na ‘et kabodeka. Il Signore gli rispose: Io farò passare davanti a te tutta la mia bontà, proclamerò il nome del Signore davanti a te; farò grazia a chi vorrò fare grazia e avrò pietà di chi vorrò avere pietà. Disse ancora: Tu non puoi vedere il mio volto, lo tukal lir’ot ‘et panay, perché l’uomo non può vedermi e vivere. E il Signore disse: Ecco qui un luogo vicino a me; tu starai su quel masso; mentre passerà la mia gloria, io ti metterò in una buca del masso, e ti coprirò con la mia mano finché io sia passato; poi ritirerò la mano e mi vedrai da dietro; ma il mio volto non si può vedere”.
La “gloria” è in ebraico kabod, che deriva da una radice semitica che vuol dire “pesante”; quindi, kabod indica ciò che è “pesante”, cioè che ha valore e che quindi viene rispettato. È in buona sostanza la potenza di Dio. In Isaia 8, 7 è scritto: “Il Signore farà salire contro di loro le acque del fiume, impetuose e abbondanti: cioè il re di Assiria con tutta la sua gloria (kabod), irromperà in tutti i suoi canali e strariperà da tutte le sue sponde”. Ora, in questo passo del profeta Isaia il kabod dell’Assiria, paragonato alle acque potenti del fiume Eufrate, implica l’aspetto concreto della “potenza”.
La potenza di Dio è eccelsa in quanto connaturata a Dio, che è onnipotente: il volto di Dio, che non si può vedere così come non si può vedere la sua gloria, è la sua stessa Persona. Non può vedere né conoscere Dio nella sua potenza, nella sua Persona. È significativo che kabod vuol dire anche “sostanza”, “essere”. Nei testi di Qumran Dio è definito sia melek hakabod, “re della gloria”, sia melek haqwdsh, “re della santità”: dato che già nella Bibbia il termine Qadosh, Santo, si riferisce eminentemente a Dio in quanto etimologicamente Egli è “separato” dal mondo terrestre, allora la gloria, essendo associata alla santità, è un attributo di Dio.
Adesso torniamo al testo evangelico di Luca. L’aggettivo greco prōtotokos, “primogenito”, usato da Luca in riferimento a Gesù, non vuole dire necessariamente che Maria abbia avuto altri figli dopo Cristo. Per la chiesa cattolica e ortodossa Maria è restata vergine prima, durante e dopo il parto. Nelle raffigurazioni orientali Maria ha sul manto tre stelle, che così esprimono tale credenza delle chiese. “Primogenito” poteva semplicemente indicare che Cristo godeva di tutti i diritti della primogenitura, istituto giuridico ebraico che conferiva al neonato particolari diritti. In un papiro coevo si trova scritto che una madre “morì dando alla luce il suo figlio primogenito”. “Primogenito” poteva anche voler sottolineare che Cristo, in quanto davidico primogenito, era un possibile pretendente messianico.
Il riferimento della nascita “in una mangiatoia”, en fatnēi, dalla quale gli animali si nutrivano, indica sia la estrema povertà nella quale nasce Cristo sia un segno divino. Cristo è il “pane della vita”, o artos tēs zōēs, di cui parla Giovanni 6. Non solo ma in ebraico Betlemme vuol dire “casa (bet) del pane (lechem)”. Alcuni autori hanno anche visto nella nascita così strana in una mangiatoia un segno divino di eccezionalità del bambino.
Dove era questa mangiatoia? Il testo evangelico parla di “alloggio” o “albergo”, kataluma. Il termine greco kataluma può voler dire sia l’albergo pubblico (come in Esodo 4, 24) sia un alloggio privato (come in Marco 14, 15). Ma è difficile che un sobborgo sperduto come Betlemme avesse potuto avere un albergo pubblico, e i pastori non avrebbero certamente visitato il Divin Pargolo in un albergo pubblico. Inoltre, Luca (10, 34) chiama l’albergo pubblico pandocheion.
Qual è l’autentico messaggio cristiano? Paolo dirà che quando sono debole è allora che sono forte. La scienza degli uomini, la religione e la magia possono sintetizzarsi in una sola parola: umiltà. Se Dio stesso nasce tra di noi nella umiltà più estrema e muore in croce, il supplizio comminato ai delinquenti più terribili di allora, questo significa che la chiave del mondo non è nella grandezza ma nella povertà materiale e di spirito. Gesù è venuto a chiamare i peccatori e non i giusti. Gesù stesso era definito pazzo dai suoi contemporanei. Era definito anche indemoniato e peccatore perché mangione e beone assieme ai peccatori. Gesù guarì molti malati nel corpo e nello spirito. Gesù si applica le parole di Isaia 61, 1: “Egli mi ha scelto per portare il lieto messaggio ai poveri, per curare chi ha il cuore spezzato, per proclamare la liberazione ai deportati, la scarcerazione ai prigionieri”.
Se in questo mondo si incarna Dio e lo ammazzano, significa che il mondo non funziona bene. Chi segue le logiche del mondo è un traviato, invece chi se ne allontana, cioè il povero e l’umile di spirito, ha capito l’essenza stessa della realtà. La carta dei tarocchi detta il Matto rappresenta un folle con lo sguardo puntato verso l’alto. Solo chi è abbastanza umile da spogliarsi del mondo e di tutte le sue vanità, può vedere il Cielo.
Se il luogo di Dio per eccellenza è il povero e l’umile, il malato e l’emarginato, “il vinto” di verghiana memoria, allora è nella debolezza che si manifesta pienamente la forza della divinità, come ricorda Paolo. È allora nel luogo della povertà materiale e spirituale che l’uomo può incontrare Dio più che in ogni altro.
I primi testimoni della nascita di Cristo sono stati i pastori. In realtà i pastori in quanto proprietari del gregge vivevano in città, mentre a guardare le pecore di notte nelle campagne vi erano i servi dei pastori. Questi individui vivevano ai margini della comunità, erano esclusi dall’insegnamento e non potevano nemmeno entrare nel tempio. Cristo, quindi, sceglie gli ultimi tra gli ultimi per farsi annunciare.
Così come le prime testimoni della resurrezione sono state le donne, che erano di solito al di fuori del sacro, è significativo che in ebraico esisteva solo il maschile talmid, “discepolo”, senza il genere femminile, per dire come le donne erano talmente poco considerate che non esistevano “discepole” nemmeno nella grammatica.
Ma la paradossalità estrema di Cristo sta nel fatto che egli è venuto a chiamare i peccatori e non i perfetti. Cosa c’è di più povero in spirito di un peccatore? Egli perdona l’adultera e chiama il pubblicano Zaccheo. I pubblicani erano gli esattori delle tasse al tempo della dominazione romana sulla Palestina; quindi, non erano ben visti dagli ebrei in quanto rappresentanti di un potere di occupazione e per di più esattori delle tasse, con tutte le malversazioni delle quali si facevano attori.
L’angelo disse ai pastori (Luca 2, 10): “Non temete: vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: è nato per voi un Salvatore”. L’aggettivo “tutto” indica veramente che Cristo è il Salvatore di tutti, specialmente gli ultimi, peccatori compresi. Il cristianesimo non è la religione dei primi della classe, ma dei poveri. Lo stesso aggettivo “tutto” vuole anche dire che Cristo non è solo il Messia degli ebrei, cioè l’atteso da Israele, ma il Salvatore di tutto il mondo, anche dei pagani. Dopo la risurrezione Cristo dirà di portare il messaggio evangelico in tutto il mondo. Questa prospettiva messianica è abbozzata già nel riferimento al censimento di “Cesare Augusto”, primo imperatore romano, e nella visita dei Magi, che provenivano dall’Oriente.
Questo messaggio evangelico fu rivoluzionario a Roma perché rivolto anche agli schiavi, alle donne e a quanti stavano ai margini, a qualunque etnia appartenessero. Per questo a Roma il cristianesimo divenne epidemico e da lì arrivò nel tempo in tutto il mondo. Lettera ai Galati 3, 26-29: “Tutti voi siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché siete stati battezzati in Cristo. Non c’è giudeo né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio né femmina, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. Agostino riconosceva eminentemente come bisogna estendere la carità in tutto il mondo, se vogliamo amare Cristo, in quanto le membra di Cristo si estendono in tutto il mondo.
Il luogo di Dio sta in tutto il mondo. In ogni fratello, specie se sofferente, vi è l’immagine di Cristo. Alcuni santi riconoscevano questo mistero a tal punto che, riuscendo a vedere Cristo nel povero che accudivano, andavano a confessare presso di lui i propri peccati.
Il nostro cuore è il luogo della povertà assoluta quando non ama Dio. Dio aspetta ogni istante che ci accorgiamo della sua presenza nella nostra vita. I santi riferiscono di aver incontrato un Dio “pazzo di amore” per ogni uomo. Siamo debitori della sua misericordia più di un bimbo nel seno di sua madre. Abbiamo tutto dalla sua provvidenza, che ci sostiene e ci soccorre in ogni istante. Per questo è cosa buona e giusta rendere grazie a Dio sempre e in ogni luogo.
Secondo la tradizione ebraica, il 25 marzo è il giorno in cui Dio creò il mondo. I cristiani vi fecero coincidere anche l’Annunciazione, il giorno in cui l’arcangelo Gabriele annunciò alla Vergine Maria che sarebbe diventata Madre di Dio per opera dello Spirito Santo; quindi, il 25 marzo è il giorno in cui Cristo venne concepito. Agostino diceva che Cristo fu concepito in Maria prima nella fede e poi nel suo grembo. Non solo, ma per i cristiani del passato Cristo sarebbe nato lo stesso giorno del suo concepimento, vale a dire sempre il 25 marzo. Evidentemente nel passato i cristiani ritenevano che la nascita di Cristo fosse una nuova creazione.
Ora, ogni uomo rinasce a nuova vita quando viene battezzato, divenendo immagine di Cristo; infatti, ha sulla fronte il sigillo del Regno di Dio, la croce fatta con l’olio santo. I cristiani vengono chiamati a diventare tali quando la Madre di Dio lo permette, colei che è la Mediatrice di tutte le grazie del Signore. Con il battesimo la desolazione creaturale di ogni uomo, cioè la povertà materiale e spirituale, nonché il peccato, vengono cancellati e rinasciamo alla vita di grazia. Il cristiano ha una dignità assoluta in quanto è figlio di Dio, quindi erede del Regno. Il limite creaturale viene distrutto dalla grazia di Dio e diventiamo veri cittadini del Cielo, anche se ancora nel mondo. I cristiani sono nel mondo ma non del mondo.
Gesù, vero Dio e vero Uomo, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio ma spogliò sé stesso assumendo la condizione di uomo e addirittura morendo in croce. Egli assunse la nostra “carne”, sarx nel greco neotestamentario, parola che richiama l’ebraico basar, “corpo”, termine che indica l’uomo inteso nella sua fragilità creaturale. Atanasio di Alessandria scriveva che “Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio”, vale a dire che “partecipi della natura divina” (2Pietro 1, 4), theias koinōnoi fuseōs, divenendo figlio adottivo di Dio, come insegna Paolo, quindi erede del suo Regno.
Leone Magno in una omelia sul Natale diceva: “Dio onnipotente e clementissimo, la cui natura è bontà, la cui volontà è potenza, la cui azione è misericordia, allorché la malizia del diavolo con il veleno del suo odio ci sottomise alla morte, tosto indicò all’inizio del mondo la medicina che la sua misericordia metteva a disposizione per risollevare il genere umano. Preannunciò al serpente la futura discendenza della donna che con la propria virtù gli avrebbe schiacciato il capo, sempre altero o pronto a mordere. In tal modo preannunciò Cristo, l’Uomo-Dio, che doveva venire nella carne e che, nascendo dalla Vergine con una nascita immacolata, doveva condannare colui che violò l’integrità del genere umano”.
Cristo assume su di sé la fragilità creaturale dell’uomo e la cancella. Anche il peccato, infatti egli è l’Agnello senza macchia “che assume (o airōn) il peccato del mondo” (Giovanni 1, 29), dove il verbo greco significa sì “togliere” (“che toglie il peccato del mondo”) ma anche “assumere”. Forse Giovanni intendeva entrambi i significati: Cristo assume su di sé il peccato, offrendosi al Padre in sacrificio di espiazione al posto dell’agnello del sacrificio ebraico, con lo scopo di toglierlo.
Scoto Eriugena scriveva che se Dio si è incarnato in questo mondo, allora tutto è Luce. Atto divino che è un mistero incomprensibile. In un inno della chiesa ortodossa, il kondakion, è scritto che “la terra porge la grotta all’inaccessibile”.
Dio per amore ha deciso di incarnarsi nella nostra povertà e di salvarci. Giovanni 3, 16: “Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”, outōs gar ēgapēsen o theos ton kosmon, ōste ton uion ton monogenē, ina pas o pisteuōn eis auton mē apolētai all’echēi zōēn aiōnion. 1 Giovanni 4, 8: “Dio è amore”, o theos agapē estin.
È questa la Buona Novella, il significato in greco della parola “vangelo”, che sta alla base del cristianesimo. Cristo non è un dio solitario e rinchiuso nel suo mondo, come pensavano gli epicurei, ma è Emmanuele, che in ebraico vuol dire “Dio (El) con (emma) noi (nu)”. Nessun popolo ha un dio così vicino come noi.
Deuteronomio 4, 7: “Infatti qual grande nazione ha la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?”, ki migow gadowl aser low ‘Elohim qerobim ‘elaw ka-YHWH ‘Elohenu bekal qare’enu’elaw. Secoli dopo anche il Corano (50, 16) esprimerà il medesimo concetto: all’uomo Dio “è più vicino della (sua) aorta”, aqrabu ilayhi min ḥabli l-warīdi.
Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia con formazione accreditata. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe con varie Case Editrici 50 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli. Da anni è collaboratore culturale di riviste cartacee, riviste digitali, importanti siti web.