Vorrei raccontare un fatto strano che mi è successo tempo fa. Si era in gennaio e io, come ogni sera, dopo cena, camminavo tra i sentieri del bosco. Era scesa una densa nebbia. Vapori grigi e opalescenti galleggiavano tra la terra e le cime degli alberi. Più sopra, il cielo era limpido e si vedeva una vasta luminaria di stelle. Tale contrasto avrebbe potuto ispirare, in animi più poetici o filosofici del mio, vertiginose riflessioni. Ma io me ne andavo semplicemente a zonzo, indifferente a quel paesaggio incantato. E se pure qualcosa in esso mi colpiva, non andavo oltre uno stupore intorpidito, privo di slanci metafisici.
Camminavo immerso in pensieri banali quando la mia attenzione fu attirata da una figura alta e scura che si avvicinava, uscendo poco a poco dalla caligine, come materializzandosi dal nulla. Mi parve un uomo sulla sessantina. Portava un lungo tabarro e un cappello a larga tesa. “Buonasera” mi dice. “Buonasera” rispondo io, e faccio per andare oltre. Lui invece si ferma e mi fissa. “Non mi riconosce?” mi chiede. Lo fisso anch’io. A volte succede, conosci qualcuno che poi ti dimentichi, mentre l’altro, stranamente, si ricorda di te.
Ha un volto scavato da rughe profonde, la barba rada, un’espressione triste e maliziosa insieme. “Mi scusi” cerco di giustificarmi “ma non mi ricordo.” “Eppure sono sicuro che mi conosce” insiste lui. Provo un certo fastidio. Lo guardo ancora. In effetti, quel viso non mi è del tutto sconosciuto. “Ci siamo già visti?”chiedo. “Oh, molte volte”. “Strano. Lei è il signor…”. “Il nome non ha importanza. Sono un povero diavolo.” “Beh” faccio io, “se è per questo, anch’io sono un povero diavolo.” “Eh, no. Io sono veramente povero e veramente diavolo. Lei lo è solo per modo di dire.”
Cerco di indovinare le intenzioni di quel tizio. Mi pare di capire: mi sono imbattuto in uno di quei soggetti strambi, sciroccati, che cercano qualcuno cui esibire la loro patetica follia. Abbozzo un sorriso. “Mi spiace. Ma non si abbatta. Le cose cambiano. Beh, buonasera”, e faccio per andarmene.” “Non le va di fare due parole?” mi chiede lui. Seccante. “È un po’ tardi. Magari un’altra volta”. “Aspetti solo un momento. Guardi.” E fa un gesto con la mano, come per allontanare una presenza invisibile. La nebbia rapidamente si dissolve. Mi guardo intorno, incredulo. Quello si china, raccoglie qualcosa da terra e me lo porge. È una rosa bianca, rigata da striature nere, come non ne avevo mai viste. Non capisco come sia possibile, in pieno inverno.
“Mi scusi se uso questi trucchi banali per attirare la sua attenzione”, mi dice sorridendo. “Lei fa l’illusionista, il mago?” chiedo perplesso. “In un certo senso. Ma come le ho già detto, sono solo un povero diavolo”. Provo ad assecondarlo. “Intende diavolo in senso di demonio, abitante dell’inferno, tipo Mefistofele?”. “Se vuole. Sono solo parole, non hanno sostanza.” “Beh, allora lei non è una compagnia raccomandabile”, dico io, celiando. “Oh, pregiudizi. Se permette l’accompagno per un tratto di strada”. Vorrei rifiutarmi, ma lì sui due piedi non trovo un pretesto valido. Quindi, a malincuore, acconsento.
Ci incamminiamo insieme sul sentiero nel bosco, ora rischiarato dalla luna. Dopo alcuni minuti di silenzio quel tipo strano riprende a parlare. “Sa qual è il mio problema?”. “Immagino sia che nessuno crede più in lei” butto lì, tanto per stare al gioco. “No, anzi, quello è un vantaggio. Il vero problema è che mi annoio. Non trovo più nulla da fare”. “È il problema di tanti pensionati” dico io. “Lei che mestiere faceva?” gli chiedo, tanto per portare il discorso sulle solite banalità. “L’insegnante”, mi risponde. “E cosa insegnava?”. “A dimenticarsi”. “Dimenticarsi?” “Sì, dimenticare Dio, l’anima, l’eternità, le cose essenziali. Il resto viene da sé”.
Restammo di nuovo in silenzio. Si sentiva solo qualche lugubre verso di gufo. Mi rassegno a dover sostenere per un po’ quella innocua follia. “Ma lei, che è un diavolo, non deve insegnare all’uomo ad esser malvagio?” Lui sorride. “Intende insegnarvi a uccidere, a mentire, a rubare, a fornicare?” diede a quest’ultima parola un tono pomposo, da commediante. “Mi creda. L’uomo è più diabolico di me. Tentare un uomo è come chiedere a un pesce di nuotare. Se penso alla sua crudeltà, alla sua malizia, io non sono che un amateur senza talento”. “L’allievo ha superato il maestro”, ironizzo.
“Il punto è un altro” ribatte lui con un’aria seria, preoccupata. “Vede, io sono un cacciatore di anime, è questo il mio problema”. “Cioè?” “La penuria di anime. Terribile. È sempre più difficile trovare uomini con un’anima.” “Pensavo che tutti l’avessero.” “In potenza, sì, un seme. Ma forse la colpa è mia. Ho esagerato nel corrompere la natura umana, impedendo al seme di maturare. E ora mi ritrovo un mondo di larve, gente che non può perdere l’anima perché non ce l’ha! Anime abortite, orbite vuote, senza alcun valore. Come posso insegnare all’uomo a dimenticare se non ricorda nulla? Sono ormai un vecchio inutile. Lei capisce?”. “A esser sincero, no. L’anima, Dio… Preferisco esser razionale. Credere nella scienza”.
Si ferma. Mi scruta. Come se cercasse dentro di me la presenza di un’anima. Poi riprende a camminare. “Quello che lei crede non cambia le cose. La situazione è tragica. Potrei portarle delle statistiche, ma sono così noiose. Vede, io ho inventato la quantità, e ora non so cosa darei per un po’ di qualità! Per un’anima. Pensi a cosa son ridotto, a sperare che la gente creda ancora in Dio, all’immortalità dell’anima”. Sembrava in preda a una profonda desolazione. “Non se la prenda.” cercai di rincuorarlo. “Si goda un po’ di riposo. Dopo tanti secoli, non è stanco di contendere le anime a Dio?”, provai a stuzzicare quella curiosa mitomania.
“Non dica assurdità! Come potrei competere con Dio? Io sono solo una pedina del grande gioco. Un servo.” “Ma allora, che le importa se un uomo va all’inferno o no? Che ci guadagna?” “Chi lo sa? Forse è una questione d’orgoglio. E in fondo, è una consolazione trovar compagni nella sventura, non crede?” Mi disse sorridendo, come per ottenere la mia comprensione. Mi parve di scorgere un abisso in quegli occhi. E in quella voce stanca, afflitta.
“Una magra consolazione. Che importa? Nulla. Che ci guadagno? Nulla. Io sono il nulla. Solo uno strumento.” Mentre parlava rigirava qualcosa tra le dita. Sembrava una moneta antica. Parve leggermi nel pensiero. “Sì, è antica, antichissima. Le piace?” Me la mostrò. Vi erano incisi strani segni. “Ogni moneta deve avere due facce,” riprese “e io sono una di quelle facce. Senza di me non vi sarebbe scelta, solo cieca ubbidienza. Lei si crede libero ma sono io che garantisco la sua libertà. Voi, uomini liberi, siete tutti figli miei. Tenga. Le dono il libero arbitrio.” E mi dà la moneta, con un’espressione di magnanimità. “È forse per questo che esisto. O forse non c’è un perché. In verità, mi creda, non lo so. Forse neanche Dio lo sa.”
Ripresi la via di casa, desideroso di liberarmi di quella imbarazzante compagnia. “Lei si lamenta, ma a me piacerebbe essere un diavolo” buttai lì, “avere potere, sapere, ricchezza.” Fece una smorfia di dolore, come per il riaprirsi di una vecchia ferita. “Lei non sa quel che dice. Esiliato tra questa brulicante, disgustosa umanità, io che un tempo godevo della luce di Dio! Essere privato del Suo amore, per sempre. Lei non può capire.” Nei suoi occhi brillò un lampo, rischiarando quell’abisso di angoscia che prima avevo solo intravisto.
Sentii per un attimo un blocco di ghiaccio stringermi il cuore. Per fortuna ero arrivato a casa. “Beh, io non sarei così tragico” gli feci. “Se posso avere donne, soldi, potere, insomma tutto quel che voglio, che me ne faccio di Dio?”. Sfoderò ancora quel sorriso amabile, accondiscendente. “Infatti. Che se ne fa?”.
“Bene, la saluto. Però, mi dica prima una cosa, se lei ha visto Dio, com’è?”, chiedo con noncuranza, mentre apro la porta di casa. Silenzio. Mi guardo intorno. Era calata nuovamente la nebbia. Quel tipo bizzarro se n’era andato, scomparso. Mi accorsi allora che la rosa che tenevo in mano era diventata polvere. E quella che m’era sembrata una moneta era solo un sasso piatto. Evidentemente, nell’oscurità, mi ero fatto ingannare dalle apparenze. Non v’erano che sagome grigie di alberi, come lunghe ombre nella notte. Per un attimo pensai fossero spettri.
Comunque, mi dimenticai presto di quel tizio stravagante. Se ne parlo è perché ieri, nel pomeriggio, m’è parso di vederlo ancora. Camminavo per una via del centro, immerso nella lettura del mio cellulare, quando ho involontariamente urtato un tale che stava parlando con alcune persone. Era un monaco domenicano, col suo saio bianco e nero. Mi ha fissato per un attimo. Anch’io l’ho fissato. Lo stesso volto, la stessa espressione di quella notte. Ha finto di non riconoscermi. O forse non era lui. Solo uno che gli somigliava molto. Anzi, è sicuramente così. “Scusi, padre” ho detto, e me ne sono andato.
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