- La bastonatura individuale è antifascista?
Nel 1921, la vittoria militare dello squadrismo è stata piena, ed ha consentito la fine della minaccia bolscevica, spalancando nuovi orizzonti al fascismo: vinti gli avversari sul campo, inquadrato o in via di inquadramento nelle proprie organizzazioni, di partito e sindacali, un numero sempre più consistente di operai, contadini e borghesi, occorre ora che il movimento si impadronisca del potere, per coronare degnamente i sacrifici ed i costi in vite umane del triennio precedente.
L’aspettativa squadrista è fatta propria da Mussolini nell’articolo “Vincolo di sangue”, apparso sul Popolo d’Italia del 18 gennaio, in occasione delle esequie dello squadrista pratese Enrico Florio:
Se le cose non mutano, se la situazione non cambia, si appalesa come necessario e fatale che il fascismo ritorni ad applicare i suoi metodi di attacco e rappresaglia. Ma intendiamoci. Se il fascismo sarà forzato a ciò, se il fascismo per salvare la Nazione e la vita dei suoi gregari dovrà riprendere le armi, lo farà stavolta su scala vastissima. Non più lo stillicidio della bastonatura individuale, che è antifascista, ma un’azione di stile generale, che dovrà essere in qualche modo risolutiva. Azione intelligente. Bisognerà colpire i punti essenziali del nemico. Bisognerà annientare i focolai dell’infezione dell’antifascismo.
La convergenza squadrismo-Mussolini sembra, in questo caso, totale, ma forse la particolare durezza del capo è originata dalla speciale, triste contingenza che motiva l’articolo In realtà, sostanzialmente diversa è la prospettiva nella quale egli si muove sempre più risolutamente.
Se Mussolini punta decisamente, infatti, ad uno sbocco “moderato e legalitario” del movimento, la base punta piuttosto ad una soluzione rivoluzionaria, che si sostanzi in una celere presa di potere. I più intransigenti, da un canto sono preoccupati dagli oggettivi problemi che l’irruente ed improvvisa massificazione in atto sta creando al movimento, dall’altro sono innervositi dalle manovre parlamentari che rischiano di provocare lo snaturamento o addirittura la fine del fascismo.
Mussolini, che ha solleticato le corde più estremistiche del movimento col discorso del 1° dicembre, allorché ha ammonito il Governo a non farsi illusioni sulla possibilità di eliminare il fascismo solo con misure poliziesche, ha però consentito, con l’astensione del suo gruppo parlamentare il salvataggio dello stesso Governo Bonomi, inviso allo squadrismo per l’atteggiamento persecutorio assunto nei suoi confronti.
Sono quindi, e giustamente, scandalizzati i fascisti della provincia, i “romantici della rivoluzione”, poco abituati alle acrobazie manovriere della “grande” politica e più propensi a risolvere per le spicce che ben conoscono, anche le questioni apparentemente più complesse.
Invece, a loro arrivano, sempre più frequentemente, inviti a “tenere a destra” che, nelle intenzioni di chi li formula, vogliono dire consentire al fascismo di diventare progressivamente il polo aggregante della vecchia destra parlamentare, sia pure arricchita di nuova linfa e contenuti.
Il culmine di questa manovra sarà l’appoggio dato, in sede di voto di fiducia, ad un uomo di Giolitti, l’insignificante Facta, unanimemente considerato “uomo politico di quart’ordine, col cervello di una gallina”, che peraltro, consapevole dei propri limiti, pare si domandi in ogni circostanza: “chi sono io?”, per rispondere, con ammirevole spirito critico: “un buono a nulla”.
Un appoggio che sembra allontanare nel tempo la prospettiva dello scontro risolutore con ciò che resta dell’apparato social-comunista, ma, soprattutto con lo Stato liberaldemocratico:
Taluni, e anche i nostri cugini nazionalisti, immaginano lo Stato come una grande e solida costruzione in cemento armato, con riscaldamento a termosifone e acqua potabile, in cui ci stia dentro di casa il regime e il suo servitore, il Governo.
Essi dicono. “Cambiate pure il Governo, ma non toccate lo Stato. Lo Stato deve essere intangibile, la sua autorità deve essere sacra.
Questa concezione dello Stato è grossolana e superficiale: si attacca alla vecchia concezione conservatrice dello Stato Carabiniere… si ferma alle apparenze, e non va nell’intima della sostanza. Lo Stato è invece veramente – e qui ha ragione Marx – l’apparecchio di governo della casta dirigente. Se si vuole abbattere la casta dirigente, bisogna abolire le leggi e mutarne gli organi esecutivi; cioè lo Stato. E, perciò, ogni movimento rivoluzionario è necessariamente contro l’autorità dello Stato in quel dato momento esistente.
Ora, il fascismo non ha mai proclamato di volere mantenere in vita l’attuale Stato borghese e liberale. Al contrario, ha sempre detto e ripetuto che allo stato liberale vuole sostituire lo stato nazionale, cioè fascista.
Conclusione: il fascismo tende ad abbattere l’attuale Stato e la sua autorità, per sostituirlo con lo Stato fascista, la cui autorità penseranno i fascisti stessi a far rispettare, senza bisogno di Guardie regie e di carabinieri. E’ chiaro ?
Parole e concetti espressione di un diffuso sentire della base squadrista, affidate in questo caso ad un ex nazionalista, distintosi a Torino nell’esperienza di organizzatore sindacale, attivo protagonista della scena politica cittadina, sequestrato e bastonato da operai comunisti nell’aprile del ’21, per ritorsione all’incendio della Camera del lavoro.
Parole e concetti che, nel contempo, sono di chiara condanna dell’inconcludente gioco di palazzo che si va svolgendo a Roma, con trattative su più di un tavolo, nella speranza di un inserimento “comunque”; le due strade, quella dei tempi lunghi e del compromesso e quella delle “immediate” realizzazioni rivoluzionarie sembrano allontanarsi progressivamente l’una dall’altra, e, solo in una prospettiva sempre più sfocata, l’obiettivo resta comune.
Il gruppo parlamentare, sia pure con qualche eccezione, sembra all’avanguardia nel processo di “normalizzazione”, tanto da meritarsi il duro richiamo di Giunta:
Che fa la destra? Che fanno principalmente i fascisti? Sono, anzitutto, ancora tutti fascisti i Deputati che furono già gli animatori o gli esponenti del nostro movimento e sono oggi i rappresentanti più cospicui del nostro partito.
Perché inbragarsi nella melma parlamentare non risponde al motivo dominante né alla visione fascista della nostra azione. La quale, nelle piazze come nel Parlamento, non deve perdere o cambiare lo stile. Se la paralisi parlamentare dovesse ancora continuare ai danni dell’Italia, il gruppo fascista che è il solo gruppo che non può avere pregiudizi di metodo, deve, coordinandosi col movimento extraparlamentare, restituire senza esclusione di colpi le istituzioni costituzionali al loro normale funzionamento.
O cambiare rotta o chiudere bottega.
2. Chi se ne frega della galera…
Due sono i passi necessari da compiere, prima della conquista definitiva del potere: in primo luogo occorre ottenere le dimissioni a quelle Amministrazioni locali socialiste che, elette alla fine del ’20, ancora sopravvivono e che invece, secondo l’opinione fascista, non sono più legittimate, e richiedono un’ immediata verifica elettorale, alla luce del mutato clima politico nazionale.
E’ una richiesta solo apparentemente pretestuosa, perchè identica a quella avanzata a suo tempo dagli stessi socialisti, allorché, dopo il successo alle elezioni politiche del ’19 non riconobbero più alcun valore alle vecchie Amministrazioni liberaldemocratiche preesistenti nelle realtà locali.
La polemica fascista è mirata:
La legge dà a questi signori il diritto di sedere sugli scanni comunali per svariati anni: ma la Storia in questi tempi corre a velocità vertiginosa, un anno vale un lustro o un decennio: le idee si incalzano… e i buoni villici del piccolo Comune (o i cittadini delle metropoli) guariti dalla psicosi politica, non vogliono più sapere degli eletti di un tempo, non solo perché la dissoluzione amministrativa conquista ogni fibra della vita comunale. La legge dà agli eletti il diritto di governare. La legge non dà il diritto di sgovernare… a Milano come a Mezzana.
In secondo luogo, è necessario assicurare alle squadre fasciste il completo controllo militare delle vie di grande comunicazione e dei centri strategicamente più importanti, per un’eventuale marcia sulla Capitale.
Sono gli irrequieti squadristi della provincia toscana a dare l’esempio: prima l’uccisione a Bergiola, in provincia di Carrara, l’8 gennaio, di tre aderenti al Fascio carrarese, i fratelli Renato ed Eugenio Picciati, studenti universitari e l’operaio cavatore Giulio Morelli, poi l’uccisione a Prato, il giorno 11, del Tenente Federico Guglielmo Florio, volontario e ferito di guerra, Ardito e legionario fiumano, provocano la mobilitazione generale.
Gli squadristi carraresi mirano decisamente all’eliminazione della locale Amministrazione repubblicana, con un minaccioso proclama:
Sulla piazza dove abbiamo allineato ancora tre morti, tre giovani vite preziose, tre generose giovinezze che stanno alla vostra viltà come l’uomo alla scimmia, noi vi dichiariamo che soltanto se voi uscirete di tra i piedi, il nostro paese avrà la pace che da tante parti e da tanto tempo si reclama. O ve ne andrete, o vi scacceremo con tutti i mezzi.
I fascisti.
Lo scopo viene raggiunto, più facilmente del previsto; il 13 gennaio, il Sindaco repubblicano della città, l’avv. Starnuti, si dimette, ed al suo posto viene nominato un commissario.
La morte di Federico Florio, a Prato, si inquadra in un clima cittadino tradizionalmente rovente, fatto di rancori e provocazioni personali, con continue aggressioni, ben rimaste in mente, per esempio, a Malaparte:
A Prato, fin dall’anteguerra, i semi di zucca e i lupini costavano assai più delle legnate: Tamburini ed io ne sappiamo qualcosa. Tutte le domeniche erano botte da orbi: Tamburini era più matto di me, e io più di lui, ma, da buoni amici, s’andava d’accordo nel buscarle insieme dai piazzaioli di Vaiano di Campi e di Galciana, che si sfogavano sulle nostre spalle contro la guerra di Libia e la festa dello Statuto.
Tamburini, diventato poi il capo del Fascio di Firenze, si è vendicato di quelle legnate pratesi spianando il gobbo ai fiorentini: e anch’io mi sono ripagato a usura come meglio ho potuto.
Florio è un fascista e squadrista noto: da sempre in prima linea (a Milano, nel novembre ’19, è stato uno dei legionari inviati da D’Annunzio in sostegno alla campagna elettorale fascista), è stato destinatario, nel novembre del ’21 di un singolare “cartello di sfida” indirizzatogli dagli Arditi del popolo e consegnatogli da un bambino, col quale lo si invitava ad una tenzone notturna; egli aveva accettato il confronto, ma era caduto in un agguato, rimanendo ferito.
L’11 gennaio, però, la fortuna non lo assiste, e cade sotto i colpi, a sangue freddo, di un comunista, disertore di guerra che, dopo il fatto, riesce a fuggire in Russia; il giovane squadrista, prima di morire, resta in agonia per sette giorni, durante i quali monta nel paese la campagna di sdegno organizzata dai suoi camerati.
Vengono resi noti alcuni toccanti particolari sugli ultimi momenti della sua esistenza, come il fatto che, moribondo, perdoni l’assassino, e spiri dicendo: “Mi dispiace di non poter fare altro per il mio Paese. Addio, Fiume”.
Un altro episodio che dimostra, ove ce ne fosse ancora bisogno, che, anche aldilà di ogni esagerazione retorica di circostanza, tra il fascismo e gli altri movimenti politici vi è una grande, sostanziale differenza: il fascismo è una fede, e, perciò, dà il necessario coraggio, fino ai limiti dello stoicismo, ai suoi aderenti, disposti anche a fare il supremo sacrificio.
Lo fa notare Mussolini nel commento all’episodio sul Popolo d’Italia, lo dimostra, nella forma più alta, il comportamento del giovane caduto e di tanti altri come lui, lo prova, nella quotidiana pratica minuta, la determinazione con la quale lo squadrismo affronta l’ennesima bufera poliziesca e giudiziaria.
A Bologna, il 9 febbraio, al termine di uno dei primi processi istruiti contro fascisti per le violenze dell’anno prima, alcuni squadristi sono condannati a pesanti pene per “violenza privata”, mentre grandinano un po’ dovunque i mandati di comparizione per fatti spesso dimenticati, che fanno assaggiare o riassaggiare il tavolaccio, tra gli altri, al Segretario del Fascio bolognese Barboncini e all’attivissimo organizzatore di squadre del Casalese, Giovanni Passerone.
E’ un tentativo, l’ultimo, dello stato liberale di riaffermare la propria autorità con i mezzi più severi, ma è destinato a prolungarsi per parecchio, con esempi anche clamorosi, come quello di Chieri, nel Torinese, dove, ancora in agosto, a seguito di una spedizione, ci saranno in un colpo solo, ben 56 arresti tra i fascisti.
Non basta cantare: “Chi se ne frega della galera – camicia nera trionferà”; è evidente la volontà del Governo di ristabilire ordine e legalità, di giudicare tutto quanto accaduto nei mesi precedenti come ordinaria amministrazione, da valutare alla luce del codice penale, a cominciare dall’imputazione di “violenza privata”.
E’ l’ultima dimostrazione dell’incapacità di una classe dirigente a comprendere a fondo il fenomeno fascista, nelle sue vere dimensioni e caratteristiche, ma è anche una manovra pericolosa, perché tende a negare allo squadrismo ogni carattere rivoluzionario, ad annullare ogni motivazione ideale giustificativa, a non considerare “il contesto”, per giudicare gli squadristi come banditi e fuorilegge.
Le violenze sono così viste come un semplice susseguirsi di fatti criminosi, più o meno gravi, ai quali si possono o meno applicare le attenuanti riconosciute della legittima difesa, della provocazione o dell’accidentalità.
Contro tutto ciò insorge lo squadrismo: talora gli arresti, sotto la forte pressione della pronta mobilitazione fascista, si risolvono in poche ore con il rilascio dei fermati; quando poi si arriva in Tribunale, l’aula e le strade circostanti vengono occupate pressocchè totalmente da uomini in camicia nera che solidarizzano con gli imputati.
Questa mobilitazione, se serve non di rado ad evitare le costituzioni di parti civili, che aggraverebbero la posizione giudiziaria degli accusati, causa in qualche caso incidenti e conflitti all’interno degli stessi Tribunali e nelle immediate adiacenze, con conseguenze anche gravi, come a Prato, dove, a marzo, muore lo squadrista diciassettenne Walter Branchi.
E’ un fatto che, comunque, polizia e Magistratura si muovono, in questo inizio di anno, con rinnovato vigore; si ammucchiano nelle Questure procedimenti ed informative che la potenza della burocrazia, più di ogni calcolata compiacenza, conserverà a lungo, anche in pieno regime, tanto che Granelli, ricevuto da Mussolini nel 1940, ipotizzando – con infelice intuito, che sembra avvalorare qualche malefica voce che lo accredita di menagramo – una fine sfavorevole della guerra appena iniziata, gli raccomanderà: “…come fosse necessario far sparire dagli archivi di pubblica sicurezza tutti gli incartamenti che riguardavano i fascisti che più attivamente degli altri avevano dato anima e partecipato alla rivoluzione”.
C’è il rischio concreto, che durerà fino alla marcia su Roma, che se l’insurrezione fosse vinta, il comportamento dei partecipanti sarebbe considerato solo un reato da codice penale; un dilemma di tutti i rivoluzionari, denunciato anche dai socialisti, al tempo del “biennio rosso”:
In tempi agitati come questi, in ore rapide e tempestose, il reato di ieri è la verità dell’oggi, l’illegalità di oggi è sancita domani da un nuovo diritto, maturato prima nel fatto che nel Codice. Spesso, colpa dei ribelli non è che di aver proclamato ed osato per primi ciò che subito dopo diventa conquista di tutti.