17 Luglio 2024
Punte di Freccia

Non essere dimenticati…

‘Firenze dorme’, una anonima scritta con grafia femminile e in vernice nera, sulla tomba di Piero Menichetti nel cimitero di Loreo, piccolo centro agricolo di tremila anime, in provincia di Rovigo, compreso all’interno del Parco Regionale del Delta del Po. Poi il ritorno, vent’anni dopo da quel 25 aprile quando venne ucciso a tradimento da quell’altra Italia (?), nella sua città, nella dolcezza del colle di Trespiano, nel riposo definitivo sotto il lastrone di marmo scuro e la scritta in bronzo ‘Piero e la sua Mamma’. Con una rosa rossa. Un fiore, che, proprio il 25 aprile, come ogni anno, i ragazzi della comunità di Casaggì, raccolti composti allineati con il tricolore, portano ai caduti della Repubblica che fu e Sociale e per l’Onore e che, sola, merita il palpitare del nostro cuore. E, quest’anno, s’aggiunge anche sulla tomba, quel fiore, di quel loro coetaneo – muore, Piero, che ancora non aveva compiuto diciassette anni – dal volto pulito e bello di una giovinezza amara e splendente al contempo. Amara radiosa gioiosa e splendente come si esprime nei volti di quei giovani e giovanissimi che mi hanno accolto, sabato 25, nella loro sede nei pressi di Campo d Marte. E a cui, i miei capelli bianchi la barba lo sguardo stanco e il reticolo rugoso così in contraddizione con il loro futuro, ho donato l’ingrandimento della fotografia proprio di Piero, III compagnia, btg. Lupo della Decima MAS. E di Piero s’è detto, all’inizio, presentando il libro La guerra è finita che di quel battaglione racconta le vicende tramite i due protagonisti, Ludovico e Gaetano, nati dalla penna mia e di Roberto.

Ho ritrovato, inedita, una poesia di Robert Brasillach. E’ datata 17 novembre 1932. Scritta, dunque, all’età di ventitre anni chè, difatti, era nato il 31 marzo del 1909. E quest’anno, il 6 febbraio ’45, è il settantesimo dalla sua fucilazione. La giovinezza l’amicizia la gioia di vivere sono il patrimonio ideale e letterario, mentre, al limitare del plotone d’esecuzione, quale passaggio del testimone, la fierezza e la speranza. Doni non da poco. Ne siamo stati degni? Non sta a noi dare la risposta se non, di certo, aver tentato. ‘Ecco le nostre nevi nel campo, – ecco le nostre speranze di esuli, – le nostre lunghe attese, – la nostra limpida fede’. Come nel tempo eroico della guerra civile, come nei giorni che ci appartennero, come in quelli di questo presente, qui ed ora testimoni di più generazioni. I poeti sono simili agli eroi, il verso e la spada li liberano dall’anagrafe e li conducono ad osare, magari, in questo caso, con (forse) troppo libera traduzione…

Dal titolo Tu verrai (Tu viendras)…: ‘Tu verrai, cara Morte, – simile alla sera che si distende sulle banchine del porto – e non sarà poi così triste – se ci porterai memoria di quella musica semplice – e del canto che intonavamo mentre si saliva a bordo. – Il fruscio intenso della vela arrotolata – non distrarrà lo sguardo dall’Oceano, – anche allora, anche in quel momento, – sapremo scordare l’odore ancora fresco del catrame? – e l’umidità fumigare dalla cima dell’albero maestro? – Quando, da bambini, si correva verso le pesanti funi – e alle barche attraccate agli anelli di ferro, – guardando, seduti sulle bitte d’ormeggio, – la marea crescere dolcemente, – i nostri cuori, cara Morte, si resero dimentichi della riva, – prigionieri delle rozze canzoni per uomini già avvezzi al mare, – pronti a salpare per ignota destinazione, – con la sacca in spalla, le ragazze nel cuore e in tasca il coltello. – Ripensando alla nave ondeggiare libera dall’ancoraggio, – al richiamo della terra ferma a cui restammo insensibili, – ci sarà concesso perdonare al canto della sirena – l’annuncio dell’inesorabile quiete e la fine dei giorni belli?’.

Nel mio studio, sotto vetro senza cornice, accanto la fotografia di Brasillach, con il capo leggermente chino gli occhiali dalla montatura robusta e tonda, i capelli pettinati con la riga al centro, con quel sorriso dolce e mesto, quasi fosse presago del destino prossimo e avaro. La stessa foto e la medesima poesia, in francese, modesto dono ai ragazzi di Gene 00, il gruppo musicale di Casaggì (ultima generazione, prossimo il loro primo album). Se lo meritavano, se un dono così risibile merita d’essere messo a confronto con il concetto stesso del dare. Avevano suonato, non molto tempo prima, in quella che era stata la prima sezione del MSI, dedicata all’Istria e Dalmazia, all’interno dei ruderi delle Terme di Traiano, parco del Colle Oppio, Roma. La sezione ove ero stato iscritto dal 1962 al ’65 per poi uscirne subito dopo il congresso di Pescara, dove non vi avevo messo più piede… (salvo tirargli una rudimentale e maldestra molotov in quel 1969, forse uno o due mesi prima il mio arresto. Mi venne contestata quale aggravante come se le pietre dei giovani palestinesi potessero essere omologabili ai blindati dalla stella di David… una molotov, piccola macchia di bruciato sul pavimento, interpretata premessa tecnica della strage di piazza Fontana, sedici morti e oltre cento feriti. Ciascuno interpreti il confine tra il tragico e la farsa del nostro sistema giudiziario).

Suonavano, dunque, ed io vi ero andato per salutare proprio i ragazzi di Firenze. (Mi viene a mente quanto scriveva Leo Longanesi: ‘Non abbiamo più nemici, ecco il guaio: naufraghiamo nel compromesso, non si fa storia senza nemici… Come invecchiamo male senza più bandiere… Invecchiare senza sogni’. Forse non vale in questo contesto o, forse, se non si riconoscono i nemici – ci sono e quanti sono! –, vale la pena andare a ricercare gli amici…). Mi sono trattenuto per poco – è un periodo che tendo ad essere ‘stremato’ già nelle prime ore della sera –, perdendomi proprio l’esibizione dei Gene 00. Poi Allegra mi ha raccontato che hanno composto una canzone su Brasillach e volevano dedicarmela. Dovevo farmi perdonare. Lo hanno fatto al termine dell’incontro di sabato e, mentre la eseguivano, mi è venuto a mente che si sarebbe ben adattato quale titolo Cella 77(quella in cui il poeta venne ristretto in attesa d’essere fucilato, con sette chili di catene intorno al corpo di giorno e notte, il pennino infilato nel beccuccio della pipa per scrivere). Ero in procinto di suggerirla, pretesa stolida e arrogante da professore in servizio permanente effettivo, quando sono stati essi stessi ad indicarne con il medesimo titolo (confesso che, cercando di nascondere l’emozione, mi sono commosso perché le bandiere, i nostri sogni e gli ideali, stanno anche qui, in un comune sentire).

Ed ora attendiamo – sono ormai tre anni circa – che possa essere pubblicato Robert Brasillach, giornalista, una antologia degli articoli che uscirono durante il tentativo vano della collaborazione – 1940-’45 – sulle due riviste Je suis partout e Révolution nationale (una selezione, con tutti i rischi dell’arbitrio, ma tutti era quasi impossibile), con l’introduzione di Rodolfo e mia. E Casaggì si è già prenotata di presentarlo a Firenze. Anche questo me li rende cari. Saper coabitare con la nostra storia di uomini idee battaglie e il presente con le sue tematiche sfide prospettive e contrapposizioni. In fondo essi sono la continuità di quella Lettera ad un soldato della classe ’40. ‘Soltanto l’avvenire potrà rispondere agli interrogativi che questa lettera pone. Tu che la leggerai, e che vivrai forse in un mondo in cui sarà riapparsa l’onestà intellettuale (ogni miracolo è possibile), avrai certo fatto la tua scelta, e guarderai le nostre disgrazie, contemporanee alla tua infanzia, con la stessa obbiettività storica che noi abbiamo per la prima grande guerra del secolo. Ti chiedo solo di non disprezzare le verità che noi abbiamo cercato, gli accordi che abbiamo sognato al di là di ogni disaccordo, e di conservare le due sole virtù alle quali io credo: la fierezza e la speranza’.

Ciò vale anche per noi, per quanto abbiamo vissuto creduto amato lottato, errori e debolezze compresi. Che i Soloni, tutti coloro che ci hanno guardato, dagli scuretti protettivi della finestra, e scosso il capo e ammonito e interpretato e criticato, quelli venuti sempre il giorno dopo, si esercitino in saggi e si riempino la bocca di rimproveri sentenze moralismi, ombre al nostro passaggio, muti per le nostre orecchie… sono della stessa razza di coloro che, nel ’44, si fecero sentire con la Madre di Piero Menichetti per rimproverarla della fuga e arruolamento del suo unico figlio; sono i professori i vicini di casa quelli dell’oratorio della palestra i compagni di scuola delle vacanze dello stadio della discoteca… voi siete la voce e i cento volti di tante piccole comunità dal medesimo sentire, voi testimoni e poeti, disperati e folli, anticonformisti, come riconosceva lo stesso Brasillach, antiborghesi, irriverenti i suoi coetanei del ‘nostro anteguerra’, voi dalla risata la gioia lo schiaffo la battuta pronta la serietà del libro e la commozione del canto, voi…

Ricordo la presentazione di Ritratti in piedi tenutasi nella sala delle conferenze a palazzo Valentini, la sede della Provincia di Roma, nel 2001, credo. Fra i vari relatori l’amico Ugo Franzolin, marinaio a Derna, in Africa settentrionale; successivamente l’8 settembre arruolatosi nella Decima Mas e divenuto corrispondente di guerra; esule a Roma per evitare rappresaglie a lui e alla sua famiglia; giornalista e scrittore di libri (il suo I giorni di El Alamein venne giudicato da Indro Montanelli fra i più bei libri del genere); un caro amico con cui trascorrevo sereni pomeriggi nei pressi di Fontana di Trevi a sorseggiare un tè. In quella circostanza, egli era uno dei ‘ritratti in piedi’, dopo un garbato intervento, ove però traspirava tutto il senso della sua scelta mai rinnegata, concluse davanti ad un folto pubblico, soprattutto di giovani, studenti delle mie classi con un invito accorato quasi, commosso di sicuro… ‘Non ci dimenticate!’…

Come Brasillach, simile a Ugo Franzolin, anch’io vi chiedo: ‘Non dimenticate quegli ideali con cui abbiamo cercato di mantenerci giovani, i sogni con cui ci siamo preservati liberi!’… Grazie, ragazzi!

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