16 Agosto 2024
Antropogeografia

Est ↔ Ovest – Rita Remagnino

L’uomo ha due occhi per guardare, due orecchie per sentire, due gambe per camminare e due braccia per remare. La sua curiosità non ha limiti, e, indubbiamente, tra i periodi storici a più alto tasso di mobilità vi fu il Quarto Grande Anno dell’attuale Manvantara (dal 26.000 al 10.500 a.C. circa), quando genti prenordiche scesero verso latitudini più meridionali.
La complessità di quei flussi è ancora al vaglio dei ricercatori, bisognerà aspettare nuovi ritrovamenti archeologici ed ulteriori studi antropologici per approfondirne i dettagli; sulla causa però c’è uniformità di vedute: l’allargamento della calotta. Anche l’inizio del cosiddetto «ciclo ariano» andrebbe dunque anticipato rispetto all’ipotesi avanzata dal Tilak (J. Godwin, Il mito polare, Ed. Mediterranee, 2001).
Già l’etnologo e filologo Herman Wirth mise in dubbio le parole del pensatore indiano, collocando intorno al 20.000 a.C. il riposizionamento di gruppi appartenenti ad un ceppo unitario dedito al culto solare (elemento Fuoco) e provenienti dalle regioni sub-artiche, ovvero da terre settentrionali inaridite dal freddo (siberiane?) e da terre nordatlantiche flagellate dalle inondazioni correlate al disgelo (iperboree?).
In un primo momento la migrazione ebbe un andamento «orizzontale», per usare la terminologia coniata da Julius Evola, e confluì nella fondazione dei due Centri Sacrali Secondari, quello siberiano e l’altro nordatlantico (Nord→Nord, Aurignaziano, circa 39-35.000 anni fa). Successivamente il senso di marcia divenne «verticale» (Nord→Sud, Gravettiano, circa 27.000 anni fa) e la sua maggiore portata sparse i semi da cui sarebbero germogliate importanti civiltà [immagine 1].

Risalgono a questa seconda fase siti importanti come quelli di Ejantsy, Ust-Mil, Ikhine, sull’altopiano siberiano dell’Aldan (R.G. Klein, Il cammino dell’Uomo, Antropologia culturale e Biologica, Zanichelli, 1997). Ne consegue che il cuore della mitica Età degli Eroi (simbolicamente posta a cavallo delle figure di Parashurama, l’uomo con l’ascia, e Ramachandra, l’uomo con l’arco e le frecce) potrebbe essere individuato nella «cultura di Mal’ta-Buret’» (26.000-17.000 a.C. circa), il cui centro d’irradiamento è localizzabile nell’odierna zona occidentale dell’area siberiana, lungo il corso del fiume Angara.
Se così stanno le cose, significa che la civilizzazione dell’attuale genere umano è partita dall’Eurasia, il continente descritto dalla geografia politica mackinderiana come un cuore pulsante (heartland) dentro due mezzelune: la Grande Mezzaluna (outer crescent) che ai tempi del baronetto coincideva con i territori del dominio mondiale britannico, e la Piccola Mezzaluna (inner crescent) rappresentata dal medio ed estremo oriente.
Ma se dall’ultima glaciazione la geografia del globo non è cambiata, le ambizioni dell’uomo si sono moltiplicate, trasformando la naturale bipartizione tra Civiltà del Mare e Civiltà della Terra in una guerra perenne dove l’egemone di turno ritiene di poter ottenere il dominio del mondo attraverso il controllo della pivot area, o cuore geografico della Storia.
Un pensiero velleitario, che, oltre a non tenere conto di una serie infinita di variabili, nell’ultimo secolo ha avuto la spregiudicatezza di usare l’Europa in ambito Nato, parole di Carlo Terracciano (1948-2005), “come una pistola puntata su Mosca” (C. Terracciano, “Europa-Russia-Eurasia: una geopolitica orizzontale”, in “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, Vol. 2/2005).

 

Affinità e parentele

Forse non è possibile dividere l’Eurasia; stiamo pur sempre parlando di un blocco unico, così chiamato dal matematico e geografo tedesco Carl Gustav Reuschle (1812-1875) in Handbuch der Geographie per indicare il continente che andava dall’Asia all’Europa, la cui omogeneità dipende dalla sostanziale «assenza di ostacoli naturali», se si considera che la cima più alta degli Urali non supera i milleottocento metri.
Fino al IV millennio il vero confine divisorio tra est ed ovest fu il fiume Ural, e comunque anche allora gli antenati preistorici conoscevano i modi per schivare sia le insidie del nastro d’acqua sia i rischi della cerniera montuosa.
A nord, nell’area costiera prospiciente alla penisola di Novaja Zemlja, c’era il «canale navigabile» che consentì agli allevatori di renne (progenitori dei samoiedi) di raggiungere la Siberia settentrionale; mentre a sud, tra le propaggini meridionali degli Urali e la costa settentrionale del Mar Caspio, si passava attraverso la «porta dei popoli» (il nome risale al XIX secolo).
Questi percorsi strategici spiegano come mai in Eurasia tutti si appartengano. Infatti una delle più antiche mutazioni conosciute del cromosoma Y (il marcatore M130, vecchio di 50.000 anni), ovvero la prima traccia lasciata dai profughi artici in uscita dalla Patria polare primordiale, si attesta nella Siberia orientale.
Secondo la letteratura genetica dapprincipio si manifestò la linea ANE (Antichi Nord-Eurasiatici), caratteristica della discendenza confluita nelle culture di Mal’ta-Buret’ e Afontova Gora; a partire da qui e procedendo verso est, apparve la linea AB/ANA (Ancient Beringian / Ancestral Native Americans); invece proseguendo in direzione ovest si realizzò la linea EHG (Eastern European Hunter Gatherers).
Ne consegue che il dibattito in ambito geografico sulla reale «identità della Russia» è puramente accademico, o politico, non essendovi reali differenze con l’Europa (Paul Coones, The Heartland in Russian History, in Global Geostrategy).
Partendo appunto dalla dimensione etnosociologica di reciproca appartenenza [immagine 2] il politologo François Thiriart (1922-1992) auspicò un rapido «ritorno a casa», cioè la ricostruzione di un unico impero euro-siberiano. Al momento quel giorno appare ancora lontano, fiaccati da gravissime difficoltà economiche e identitarie i paesi europei sono «civiltà della terra» cadute nella rete talassocratica del partenariato anglo-americano. Ma non è detta l’ultima parola, a giudicare dal crescente etnocentrismo in tante realtà medie e piccole innervate di legami con il mondo arcaico «di Terra», che è l’opposto di quello apolide della globalizzazione «di Mare», totalmente privo di un luogo d’origine e di dispiegamento.
Un principio elementare dell’economia classica recita tuttavia che l’economia in quanto tale non esiste, ci sono soltanto politiche che avvantaggiano qualcuno e svantaggiano qualcun altro, perciò lo stesso globalismo va considerato alla stregua di un fenomeno transitorio identificabile come un “processo attraverso il quale i centri di produzione e consumo di servizi avanzati e le comunità locali che in essi svolgono un ruolo ausiliario, sono collegati in una rete globale basata su flussi informativi, interrompendo i collegamenti con aree lontane dal polo industriale” (M. Castells, L’età dell’informazione: economia, società, cultura, Università Bocconi, Milano, 2004).

 

L’arca geografica

La spaccatura est↔ovest ha dunque un’origine antica, o per meglio dire remota, collocandosi al termine dell’ultima fase glaciale (intorno ai 10.000 anni fa), quando nel meno ospitale est si depositò in uno spazio immenso la cultura arcaica di stampo tradizionale mentre quella stessa eredità andò perduta ad ovest, dove la geografia dei luoghi si rimpicciolì per fare spazio alla progressiva urbanizzazione del paesaggio.
Chiaramente i due rami svilupparono nel corso del tempo visioni e culture differenti. Sia il tuorlo che l’albume rimasero comunque dentro il proprio guscio, cioè all’interno della massa terrestre più grande del pianeta, la quale non essendo in balìa delle acque oceaniche era (ed è) un nocciolo duro da spaccare, nonché la causa prima di qualsiasi ulteriore strategia di crescita e sviluppo.
Geograficamente il continente-madre si allarga lungo l’asse est-ovest mentre le Americhe sono molto più lunghe che larghe (14.000 chilometri da nord a sud e 4.800 al massimo da est a ovest, con un minimo di 65 all’altezza dell’istmo di Panama), non diversamente dall’Africa, anch’essa posta su di un asse nord-sud, sebbene un po’ meno accentuato.
Il particolare è determinante se si considera che proprio l’orientamento spaziale dei continenti influenza la velocità di diffusione della cultura e delle idee, dell’economia e della comunicazione, ciò a prescindere dal ripetersi ciclico degli sconvolgimenti che mettono a soqquadro il mondo.

Tutte le località disposte sulla stessa latitudine hanno giorni di durata uguale e stesse variazioni stagionali, tendono cioè ad avere climi simili, regimi delle piogge e habitat abbastanza omogenei. Ad esempio l’Italia meridionale, l’Iran settentrionale e il Giappone sono realtà statuali poste più o meno alla stessa latitudine, si trovano separate l’una dall’altra da 6.400 chilometri verso ovest o est, eppure hanno climi più somiglianti tra loro rispetto ad aree che distano solo 1.500 chilometri a sud.
Come potrebbe un agricoltore canadese mettersi a coltivare una varietà di mais tipica del Messico? La povera pianta non potrebbe far altro che seguire le sue istruzioni innate: a marzo si preparerebbe a buttare i primi germogli e … si troverebbe sepolta sotto tre metri di neve. Se anche si riuscisse a riprogrammarla per una germinazione più sensata – fine giugno, ad esempio – non mancherebbero i problemi. I suoi geni le direbbero, comunque, di crescere con calma e di arrivare a maturità dopo cinque mesi.
Quello che va bene in Messico non funziona in Canada, e viceversa. Mentre in Eurasia (al cui interno vive il più alto numero di esemplari animali e vegetali!) le specie non hanno difficoltà a diffondersi lungo la linea est↔ovest, essendo già ben adattate ai climi delle regioni in cui arrivano.
Nel continente-madre c’è tutto e non manca nulla. Si va dalla depressione più bassa al mondo, il Mar Morto, a catene montuose che superano i 5000 metri (il sistema himalayano), passando per pianure irrigue, steppe e deserti. Non esiste al mondo un’«arca» più salvifica di questa, e poiché la varietà di ambienti capaci di favorire la biodiversità sarà determinante anche in futuro, sembra più che mai opportuno allungare il passo e affrettarsi verso l’imbarco, prima che sia troppo tardi.

 

Non-Terra e Non-Mare

All’opposto della Patria Nordatlantica, geograficamente incline al più fluido «punto di vista del Mare», la Patria Siberiana costituì per millenni un solido corpo unico in termini di tradizioni e famiglie linguistiche. L’orientalista Giuseppe Tucci riconobbe come l’intrinseca unità spirituale dello spazio eurasiatico fosse indissolubilmente legata ai rapporti culturali e commerciali esistiti fin dalla preistoria tra le diverse civiltà che hanno abitato il continente. “Nell’arte cinese di Wei soffia l’alito dell’arte greca che già aveva ispirato gli artisti indiani del Gandhara” (G. Tucci, Il Buddhismo. Scuole, dottrine e storia, Ghibli, 2013).
Nelle più antiche culture si ritrova dappertutto la stessa conoscenza del cielo, gli stessi attributi simbolici, le stesse caratteristiche rituali. Le narrazioni tradizionali raccontano le stesse storie, le quali sono state forti abbastanza da spingersi al di là degli oceani e sopravvivere a sconvolgimenti epocali. Bisogna essere ciechi per non vedere in tante affinità la conferma dell’appartenenza ad un’unica radice, se ne facciano una ragione coloro i quali oggi sperano di estirparla contando sullo stato confusionale dell’Europa.
È innegabile che nel corso del tempo vi siano stati conflitti interni, anche lunghi e cruenti, poeticamente narrati dalla mitologia attraverso il confronto ancestrale tra la sapienza del tellurico Serpente Antico e la baldanza del più aggressivo Falco solare. Come dice il proverbio: “parenti serpenti, cugini assassini, fratelli coltelli”; ma chissà perché, tra soggetti affini si trova sempre la quadra.
Succederà anche a noi Ultimi dopo la morte della globalizzazione, la cui dipartita (accelerata dalla distruzione della classe media) permetterà la costruzione di un nuovo modello geopolitico capace di determinare principi, prospettive e modalità miste, eterogenee, trasversali e tolleranti.
Se in fisica siamo stati capaci di concepire l’idea del multiverso (Andrej Linde), dovremmo riuscire a realizzare il concetto di una realtà multipolare formata da mondi differenti e sinergici. O, forse, il principio è già penetrato nel tessuto sociale, ma ancora non ce ne siamo accorti.
A voler ben guardare a sud-ovest sta prendendo forma una specie di «nuovo compromesso austro-ungarico» contro la dittatura dell’euro-mostro bruxelliano, mentre ad est è a buon punto la costruzione dell’«infrastruttura mista» (Terra/Mare) denominata “One Belt, One Road”.
Chiaramente i Cinesi non hanno inventato nulla di nuovo, ma, da buoni conservatori della tradizione, si sono limitati a riattivare i percorsi preistorici il cui snodo si trovava nel bacino del Tarim. Si pensi alle bionde «mummie di Xinjiang», o alla «bella di Loulan», segni tangibili degli scambi di merci e culture avvenuti lungo le strade eurasiatiche, che, biforcandosi a Dunhuang, tracciavano un percorso a nord e un percorso a sud prima di ricongiungersi nella zona di Qashgar e proseguire lungo una fitta rete di piste e sentieri.
Più pragmatici di noi gli antenati preistorici non facevano distinzioni tra il Mare e la Terra ma li frequentavano entrambi spaziando tra i quattro oceani (Artico, Indiano, Atlantico e Pacifico). Cosa aspettiamo ad imitarli? Anche in considerazione del fatto che si possono rifare soltanto le cose già fatte in un’epoca di disagio carsico come l’attuale, dove si prende atto con rammarico dei processi che avrebbero potuto essere intuiti prima della loro esplosione/implosione ma ai quali non si è saputo dare il giusto peso. Amen. Guardiamo avanti.
La riconciliazione tra il Mare e la Terra non avverrà domani, né dopodomani, ma comunque sarà inevitabile perché dopo il sonnolento periodo delle speranze viene immancabilmente il tempo più energico delle legittime aspettative, e il XXI secolo è troppo debole per opporsi al destino che lo attende.

Ricercatrice indipendente, scrittrice e saggista, Rita Remagnino proviene da una formazione di indirizzo politico-internazionale e si dedica da tempo agli studi storici e tradizionali. Ha scritto per cataloghi d’arte contemporanea e curato la pubblicazione di varie antologie poetiche tra cui “Velari” (ed. Con-Tatto), “Rane”, “Meridiana”, “L’uomo il pesce e l’elefante” (ed. Quaderni di Correnti). E’ stata fondatrice e redattrice della rivista “Correnti”. Ha pubblicato la raccolta di fiabe e leggende “Avventure impossibili di spiriti e spiritelli della natura” e il testo multimediale “Circolazione” (ed. Quaderni di Correnti), la graphic novel “Visionaria” (eBook version), il saggio “Cronache della Peste Nera” (ed. Caffè Filosofico Crema), lo studio “Un laboratorio per la città” (ed. CremAscolta), la raccolta di haiku “Il taccuino del viandante” (tiratura numerata indipendente), il romanzo “Il viaggio di Emma” (ed. Sefer Books). Ha vinto il Premio Divoc 2023 con il saggio “Il suicidio dell’Europa” (ed. Audax Editrice). Attualmente è impegnata in ricerche di antropogeografia della preistoria e scienza della civiltà.

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