12 Settembre 2024
Storia dei Templari

Il frainteso sull’Ordine del Tempio. Bafometto e l’idolatria templare

Gianfranco V. Strazzanti

 


PRIMA PARTE

Peter Partner, in The Murdered Magicians: The Templars and their Myth (1982), sostenne che il Cattolicesimo medievale aveva, dell’Islam, «una visione rozza, arrogante e severa» e che, al contempo, non aveva «nessuna tolleranza complementare, nessun equivalente all’idea musulmana che ai cristiani e agli ebrei come popolo del libro fosse stata concessa una parziale rivelazione della parola di Dio». Tali affermazioni, almeno da un punto di vista generale, sembrano difficili da smentire o contestare. Esse vanno dunque prese nella dovuta considerazione, seppur non per spiegare o giustificare le carneficine e i miasmi che da millenni intridono la Palestina, cosa oggi tristemente in voga tra i vampiri sionisti, bensì per comprendere se e fino a che punto i crociati avessero il diritto di partire, “nel nome di Cristo”, per la conquista delle sabbie palestinesi. Le stesse sabbie su cui il Messia pronunciò le sue parole e compì i suoi gesti.

Una questione affine, seppure da una prospettiva diversa, venne autorevolmente affrontata a suo tempo anche da René Guénon. Nella sua idea principale, i Templari andavano compresi sullo sfondo di una missione a carattere esoterico, nella quale loro svolgevano le funzioni di Guardiani della Terra santa, come recita il titolo di un suo articolo. Si tratta di un’indicazione felice, dal momento che proprio la custodia della Terrasanta, simbolicamente intesa negli studi di Guénon come «Terra dei Viventi» e «Dimora d’immortalità», fu senz’altro uno dei motivi fondanti dell’organizzazione templare. Eppure, per quanto radicati poterono essere tali motivi nel carattere del Tempio quale entità collettiva, rimane il fatto parimenti incontestabile che, per più di un millennio prima delle Crociate, il Cristianesimo non avesse mai sentito l’esigenza collettiva di partire, armato, per “la liberazione di Gerusalemme dagli infedeli”. Va anzi ricordato che per diverse Scuole gnostiche qualsiasi precetto proveniente dal Vecchio Testamento, compreso quello in chiave israelitica della terra promessa da liberare, andasse epurato dalla coscienza dei cristiani. Lo stesso Nuovo Testamento, sulla carta stella polare del Cattolicesimo, non sembra molto lontano da una tale prospettiva: nel Vangelo di Giovanni, i «veri israeliti» vengono infatti riconosciuti tra coloro «in cui non c’è falsità» [Gv. 1, 47-48], e non certo in uomini armati ed esortati ad invadere la Gerusalemme terrestre.

Guénon, nei suoi scritti, evitò tali questioni capitali o quantomeno non le affrontò direttamente. Sulla specifica problematica delle Crociate, considerate dal punto di vista storico, si potrebbe ricordare quanto egli afferma nel suo articolo Sayful-Islam, ovvero che «nell’ambito sociale, la guerra, in quanto diretta contro coloro che turbano l’ordine e ha lo scopo di ricondurveli, costituisce una funzione legittima che non è in fondo che uno degli aspetti della funzione di ‘giustizia’ nella sua accezione più generale». Di fatto, nella Palestina delle Crociate, a «turbare l’ordine» pare fossero più i Franchi venuti dall’Estremo Occidente a sottrarre terre ai nativi, che non questi ultimi, tenuti a difendere le loro terre e la loro fede. A dispetto di ciò, Guénon non applicò mai queste sue considerazioni alle Crociate nel loro insieme, dal momento che egli non le intese affatto come operazioni tese “a turbare l’Ordine” né come spedizioni del tutto inassimilabili all’etica cristiana o deplorevoli dal punto di vista tradizionale. Al contrario, nella sua breve biografia di San Bernardo di Chiaravalle, l’autore nativo di Blois offrì la seguente riflessione: «se lo scopo immediato della crociata non era stato raggiunto, si dovrà forse per questo dire che la spedizione era stata completamente inutile e che gli sforzi di San Bernardo avevano sortito soltanto uno spreco di forze? Non è questa la nostra conclusione, nonostante quel che potrebbero pensare gli storici che si contengono nell’osservazione delle sole apparenze esteriori, giacché esistevano per questi grandi movimenti del Medioevo, dal carattere insieme politico e religioso, ragioni più profonde, delle quali una (…) era quella di preservare per la Cristianità una viva coscienza della sua unità. La Cristianità era identica alla civiltà occidentale, allora fondata su basi essenzialmente tradizionali, come è ogni civiltà normale, e avrebbe raggiunto il suo apogeo nel secolo XIII; la perdita di tale carattere tradizionale doveva conseguire necessariamente alla distruzione di quest’unità della Cristianità».

François Richard Fleury, Jacques de Molay, Grand Maître des Templiers, Olio su tavola, 1806

 

Come sa chiunque abbia letto anche solo parzialmente l’opera di Guénon, una delle sue priorità argomentative ruota attorno alla necessità di ancorare l’Occidente ad una Tradizione spirituale; Tradizione che doveva di norma essere il Cristianesimo, seppure un Cristianesimo dipendente per forme teologiche e liturgiche dal Cattolicesimo. Non può dunque stupire il fatto che, nella biografia di San Bernardo appena citata, egli reputi l’identificazione tra «Cristianità» e «civiltà occidentale» come del tutto lecita e normale. Se una tale visione delle cose oggi potrebbe apparire per più versi contestabile, a suo tempo essa era non solo legittima, ma effettivamente molto più praticabile di qualsiasi eventuale soluzione alternativa. In ogni caso, e oggi siamo nelle condizioni di poterlo affermare, gli auspici di Guénon per un raddrizzamento della Tradizione religiosa occidentale non si sono purtroppo neanche lontanamente avverati. Si tratta di una questione molto complessa e che, però, non riguarda da vicino il presente intervento. Più attinente al nostro argomento è infatti la possibilità di inquadrare le Crociate nella prospettiva di una cavalleria templare che si muoveva nel contesto di una religione dogmatica, quale il Cattolicesimo del tardo Duecento. Una prospettiva che, per stare ai termini guénoniani, coinvolga sia il punto di vista esoterico sia quello exoterico; seppure, come ci sarà modo di appurare, quando si parla di Cristianesimo non è sempre agevole segnare una netta distinzione tra i due dominî.

Non a caso, fu lo stesso Guénon a definire quella cristiana come una Tradizione particolare: ovvero, una «forma tradizionale» a carattere inizialmente esoterico, il cui insegnamento venne però più tardi piegato alle necessità di una religione con funzioni civili e liturgiche: una necessaria esteriorizzazione, nella quale egli non vide un fatto abusivo o arbitrario, bensì «un sacrificio (…) veramente “provvidenziale”». Quanto poi alla difficoltà di scindere exoterismo ed esoterismo in ambito templare, basterà ricordare come la figura di San Bernardo potrebbe essere collocata al limine tra i due dominî, dal momento che l’abate di Chiaravalle fu impegnato nel primo, in quanto monaco e difensore dell’ortodossia religiosa; ma anche nel secondo, avendo egli contribuito in prima persona alla fondazione di un’organizzazione ruotante attorno all’investitura (receptio) quale l’Ordo Templi. Come vedremo, in merito ai Templari, una siffatta distinzione è non solo necessaria, ma anche propizia alla comprensione dei temi centrali del presente scritto.

Guénon era ovviamente consapevole delle criticità legate alla differenziazione tra Cristianesimo esoterico e settario e Cristianesimo religioso e civile. Sosteneva però, allo stesso tempo, che tra i due ambiti non possa esservi spazio per alcuna confusione, se non quella perpetrata e divulgata da coloro che sono incapaci di distinguerli. Lo stesso Guénon si pronunciò inoltre in maniera contenuta, ma precisa, sulla fine del Tempio, operazione che egli imputò soprattutto alle mire nazionalistiche ed espansionistiche di Filippo il Bello, abbracciando così in pieno l’interpretazione dantesca, così come essa emerge nel XX del Purgatorio. Eppure, come c’è stato modo di vedere nell’intervento precedente questo, Il ritiro dal Levante, l’organizzazione templare non fu affatto immune da una grave decadenza. Come si ricorderà, intellettuali autorevoli, in alcuni casi storicamente vicini alla tragedia degli ultimi Templari, si sono espressi sulle ragioni e sulle conseguenze di tale decadenza. Un ulteriore quesito, accanto a quello prima esposto relativo al dogmatismo cattolico, riguarda dunque l’eventuale offuscamento, in seno all’organizzazione dei milites del Tempio, di quegli elementi propriamente misterici che loro avevano con ogni probabilità maturato a contatto con le scuole iniziatiche del mondo islamico.

Nella lettura di Guénon, il sostrato esoterico della cavalleria templare va riconosciuto soprattutto nel complesso di motivi che la ricongiungono alla Terrasanta i quali, a loro volta, vanno collegati alla vivificante Presenza divina o, in termini ebraici, alla cosiddetta Shekinah [arabo: Sakīnah]. Motivi, questi, che l’esoterista francese ripercorre e chiarisce nello stesso articolo Les Gardiens de la Terre sainte, di cui si diceva in precedenza, accostando i Templari alle altre organizzazioni presenti nel Levante, come gli Assassini e i Drusi. Ora, pare che questo retroterra esoterico di cui alcuni ambienti legati al Tempio dovettero fare tesoro, non venisse né compreso né soprattutto apprezzato in quei settori della Francia di inizio Trecento che decisero di perseguitare l’Ordine. E se è vero, come sostiene Guénon, che esoterismo ed exoterismo si trovino su due piani diversi, è parimenti degno di considerazione il fatto che nell’istruttoria voluta da Filippo il Bello emerga un preciso elemento che potrebbe ricondurre proprio alle conoscenze iniziatiche dei Templari, seppure tale elemento sia stato nei secoli deformato e offerto alla pubblica opinione in sembianze e vesti del tutto stravolte rispetto alle sue originali fattezze. Tale elemento richiede però un’argomentazione a parte e verrà diffusamente trattato nella parte centrale e finale di questo articolo; per il momento, basti dire che esso si riconnette all’accusa di idolatria che interessò i Templari e riveste grande importanza soprattutto in relazione ai significati metastorici di cui la scomparsa dell’Ordine templare sembra particolarmente pregna. La fine del Tempio, infatti, non andrebbe studiata e meditata solo come semplice fatto storico, ma anche in quanto segno dei tempi relativo alla deriva antispirituale dell’Occidente moderno.

 

SECONDA PARTE

Le scomode conclusioni di Partner citate in apertura sono da riferire all’esclusivo dominio storico quindi exoterico. Esse hanno però, se non altro, il merito di alludere ad uno stato di cose che, fin dal tempo del dissolvimento del Tempio, avrebbe portato alla graduale deviazione spirituale dell’Occidente, così come essa si è prodotta proprio a partire dagli ultimi secoli medievali. Uno stato di cose certo legato alla «arroganza» e alla «severità» che Partner rileva nel dogmatismo di quell’epoca, il quale però non fu l’unico fattore a innescare l’operazione giudiziaria contro il Tempio. Molti altri fattori infatti vi concorsero. Certo, la persecuzione a carattere dogmatico-religioso rivelava già allora tutta la sua efficacia propagandistica e intimidatoria; ma ripercorrendo le imputazioni a carico dell’Organizzazione di Jacques de Molay, non si può fare a meno di notare come esse siano spesso estranee ai codici che garantivano l’ortodossia religiosa; all’epoca del processo, persino la diplomazia pontificia lo fece notare in diverse occasioni.

In effetti, nella curiosa istruttoria messa in piedi contro i Templari dal Bello, emergono alcuni aspetti che vanno oltre il mero ambito dogmatico-religioso e che possono trovare valide spiegazioni all’interno di una strategia diffamatoria che, nel suo complesso, non sembra affatto improvvisata. Il principale di tali aspetti riguarda la presunta idolatria dei Templari quindi l’inquietante figura dell’«idolo a forma di testa», ipoteticamente adorato nei Capitoli del Tempio e al quale si collegava la più compromettente delle infamie, con il corollario rituale di cordicelle e baci osceni di cui l’accusa lo aveva contornato. Se la presunta idolatria è stata nei secoli spesso ridotta a una sorta di espediente scenografico per infarcire l’epilogo templare di retroscena scabrosi, ciò non proibisce a nessuno di mettere in rilievo le correlazioni tra il simulacro in questione e l’ambiente nel quale esso emerse. Ciò non al fine di comprenderne il significato rituale, che sembra destinato a rimanere piuttosto indefinito, bensì per tratteggiare lo scenario politico e culturale che partorì l’idolo stesso. Ben lungi dal rappresentare una curiosità storica, una tale ricostruzione potrebbe infatti rivestire grande importanza per chiunque voglia comprendere i significati connessi alla “mitologia” collegata al Tempio, così come essa si sviluppò dall’ordalia giudiziaria trecentesca fino alle speculazioni più ridondanti degli ultimi due secoli.

In tale direzione, va fatta qualche breve precisazione anche di carattere etimologico. Come noto, l’idolo in questione è stato per secoli indicato con il nome Bafometto. Un nome che, a dire il vero, non sembra molto consueto nei documenti riguardanti il processo al Tempio, ma che non era neanche estraneo al linguaggio dell’epoca, soprattutto se ricondotto alle parlate locali francesi. Per quanto si tratti di un’acquisizione non di rado messa in discussione, rimane difficile negare che tale nome, ovvero Baphomet o Baphometh, possa derivare da una corruzione più o meno volontaria del nome Maometto. Di tale corruzione si trova infatti traccia documentata e risalente alla Prima Crociata, quando il cavaliere franco Anselmo di Ribemont, in una sua lettera del 1098 diretta al Vescovo di Reims, riferiva che durante l’assedio di Antiochia i turchi selgiuchidi «invocavano Bafometto con alte voci» [«altis vocibus Baphometh invocaverunt»]. Inoltre, una versione del nome Maometto molto simile si ritrova quasi due secoli dopo in un’opera in catalano di Raimondo Lullo, dal titolo Libre de Doctrina Pueril (1274); in particolare al paragrafo De Mafumet, nel quale Lullo nega che «Mafumet sia propheta» e afferma, di contro, che sarebbero molti i «sarrayns» [«i saraceni»] «leygers a convertir a la fe catholica» [cioè «leggeri ovvero facili da convertire alla fede cattolica»].

Non è qui il caso di scendere nel dettaglio delle numerose teorie relative all’origine di questo nome, al quale peraltro si potrebbe ormai dedicare un intero dizionario. I vari mutamenti fonetici che hanno decretato il passaggio da Muhammad a Baphometh potrebbero in effetti riservare interessanti scoperte per gli studi filologici romanzi medievali. Ciò che conta è che tale passaggio sia avvenuto e che tali corruzioni dell’originale arabo non erano affatto inconsuete nel Basso Medioevo. Allo stesso tempo, come già accennato, il nome non appare nei principali interrogatori e confessioni dei Templari, come non appare nella celebre Pergamena di Chinon, dove si parla più genericamente «de capite idolatico» ovvero «dell’idolo a forma di testa».  In ogni caso, date le caratteristiche attribuite al simulacro, l’etimo del nome non può spiegare tutto. Secondo diversi degli storici “templaristi” più accreditati, l’accusa di idolatria legata alla fantomatica “Testa magica” rimane comunque una delle più arbitrarie tra quelle escogitate dai persecutori del Tempio. Essa si deve probabilmente alla cerchia dei funzionari legati a Guglielmo di Nogaret, se non a lui stesso; anche se un ruolo di primo piano sembra aver avuto il templare Hugues de Pérraud, figura controversa, forse delatore dei suoi confratelli e nemico del Magister Jacques de Molay.

Nell’abissale mole di indagini disponibili, risaltano due indirizzi principali. Entrambi possono concorrere a tratteggiare lo scenario politico e culturale dell’epoca, così come ci si proponeva in precedenza. Da un lato, vi sono coloro che ritengono l’accusa di idolatria assolutamente fondata e incontestabile; dall’altro, vi sono invece gli studiosi che vi vedono solo uno stratagemma per incastrare i Templari e che, al massimo, ritengono l’accusa di idolatria applicabile solo ad alcuni Capitoli o Commende dell’Ordine. Barbara Frale sembra appartenere a questa seconda schiera; ha infatti scritto che «sulla questione dell’idolo la forzatura giungeva al culmine: si accusavano di idolatria tutti i Templari senza eccezione argomentando che indossavano una cordicella consacrata tramite il contatto con un idolo, del quale però si ammetteva che non sapevano nulla». La campagna diffamatoria, come ogni operazione di questo tipo, era però evidentemente calibrata per produrre un forte impatto sull’immaginario della società dell’epoca, mischiando elementi di verità a voci inattendibili o, perlomeno, non imparziali. Sarebbe pertanto errato pensare che tale campagna mirasse solo a colpire i Templari. L’impianto accusatorio doveva invece puntare ad intimidire tutti coloro la cui ortodossia, tanto religiosa quanto soprattutto politica, fosse in qualche maniera traballante. Sulla scorta di ciò, si può con relativa certezza affermare che Filippo IV, il Nogaret e la cerchia dei loro funzionari tendevano a consolidare una linea accusatoria non limitata ai precetti della dogmatica speculativa della Chiesa, ma  dettata da motivi e pulsioni provenienti dalla vox populi e dai sempre disponibili e interessati delatori i quali, proprio nell’«idolo a forma di testa», avevano forse riconosciuto vuoi il segno indelebile dell’ignominia templare vuoi un’entità capace di fare presa sulla pubblica opinione.

Il Castello di Chinon, presso il quale fu tenuto prigioniero Jacques de Molay
e altri cavalieri templari nel 1308

 

Non va inoltre dimenticato che, a quel tempo, la corte di Francia si dimostrò completamente priva di scrupoli nell’imbastire diffamazioni contro i nemici politici; diffamazioni che riguardavano anche accuse di magia nera ed evocazione diabolica così come accadde al vescovo di Troyes nel 1308. Ecco qual era il clima in quello scorcio d’inizio secolo, quando il Bello e i suoi funzionari non perdevano occasione per mettere in atto la loro elaborata quanto efficace strategia, tesa ad assoggettare il papato e gli ordini cavallereschi ad esso legati. È tuttavia da escludere che la cancelleria del Bello basasse l’intera persecuzione contro il Tempio su accuse del tutto prive di basi. Tali accuse si rivelarono invece terribilmente efficaci proprio perché, con buona probabilità, derivavano proprio da delatori interni all’Ordo Templi e il compito dei funzionari del Bello si limitò perlopiù ad amplificarle nella maniera più disonorante. Di contro, imputazioni del tutto campate in aria non avrebbero attecchito né tra il popolo né, soprattutto, in seno alla ristretta élite intellettuale dell’Europa dell’epoca. Sappiamo infatti con certezza che personalità quali Dante Alighieri e Raimondo Lullo, per non dire dell’intero apparato ecclesiastico che costituiva allora l’intellighenzia ufficiale, seguivano con estrema attenzione gli eventi occorsi tra Parigi e Chinon tra il 1307 e il 1314. Scandali che per tale élite si sarebbero rivelati estremamente divisivi, tanto che si potrebbero tranquillamente stilare due liste: una degli innocentisti e l’altra dei colpevolisti; con Dante tra i primi e Lullo, sicuramente, tra i secondi.

Quindi, se risulta difficile parlare di reale fondatezza per l’imputazione relativa all’idolatria, non si può neanche escludere che vi fossero commende ‘deviate’ e dedite a rituali poco consoni alla spiritualità originale dell’Ordine. Sebbene, tra confessioni estorte tramite tortura oppure frutto di compromesso tra inquisitori e imputati, risulti difficile districarsi tra le carte disponibili, è in ogni caso possibile, e persino consigliabile, tenere quantomeno conto della verosimiglianza delle accuse, compresa quella di idolatria. Se nessuna delle indagini e degli interrogatorî giunse a stabilire il reale significato dell’«idolo a forma di testa», è anche vero che sono molteplici le ammissioni, non si sa quanto ‘spontanee’, degli indagati in tal senso. Indizi e segni più definiti emersero invece in relazione al rinnegamento del crocifisso. A ciò va poi aggiunto che i Templari erano a quel tempo un’organizzazione travagliata da una profonda crisi interna quindi la loro linea di difesa poteva essere indebolita da diversi fattori, tra cui lo sfaldarsi della loro fede religiosa come delle loro conoscenze iniziatiche. Né può essere detta irrilevante, per la mancata tenuta dell’Ordine, la scissione che lo minava al vertice; in particolare, l’insanabile rivalità, già accennata, tra il Magister maior Jacques de Molay, strenuo difensore dell’autonomia templare, e Hugues de Pérraud, Visitatore e Maestro del Tempio francese e, come già detto, vicino agli ambienti dei giuristi di Filippo il Bello al momento delle delazioni che avrebbero portato alla messa in stato d’accusa dell’intero Ordine.

In merito alla presunta idolatria templare, va dunque tenuto conto di un complesso di fattori piuttosto vario. Quelli finora rievocati sono ampiamente noti e, coerentemente con la terminologia qui adottata, li si può definire di tipo storico-exoterico. Un fattore forse meno noto, e che va per certi versi ‘estratto’ dai vari argomenti fin qui proposti, riguarda invece le conoscenze propriamente spirituali e misteriche attribuite ai Templari, in particolare a quei settori dell’organizzazione di stanza nel Levante ed entrati eventualmente in contatto con le Scuole islamiche. Con riferimento al nostro argomento, va notato come sia propria di tali scuole, in particolare del Sufismo, l’idea che in Maometto vada riconosciuto l’Uomo Universale [arabo: al-Insānu ‘l-kāmil]. Le stesse conoscenze legate all’Uomo Universale non sono a loro volta affatto estranee a quelle relative all’Adamo Spirituale e al Figlio dell’Uomo proprie dei Vangeli e del Cristianesimo, sia di origine gnostica che, in maniera più particolare, della stessa cristologia paolina. Ciò che qui s’intende suggerire è solo che il cosiddetto Idolo-Bafometto potrebbe rappresentare nient’altro che una sorta di ‘parodia’ a fini diffamatori dello stesso Uomo Universale-Adamo Spirituale, ovvero lo stesso Adàm Qadmòn della mistica ebraica. Una parodia forse divulgata dai ‘traditori’ del Tempio per incriminare i loro confratelli sulla base dei loro contatti con la sapienza iniziatica dell’Islam, ma anche di una concezione della figura messianica non conforme, o comunque difficilmente compatibile, rispetto alla dogmatica cattolica più ortodossa.

Sono stati e sono diversi gli studiosi e gli storici inclini a storcere il naso di fronte a intuizioni di questo tipo, dal momento che esse non sono suffragate da incontestabili prove storiche. È poi anche vero che molte testimonianze ci parlano dei cavalieri templari come di normali cattolici ortodossi, spesso non in possesso di conoscenze spirituali e misteriche particolarmente approfondite. È però parimenti vero che le accuse dalla corte francese vanno comprese nell’ottica degli elementi culturali dell’epoca in cui vennero formulate. Non solo, quel che emerge dalle confessioni dei Templari interrogati dopo il 1307, ci parla di una ritualità per nulla estranea al sostrato a cui l’accusa attinse per costruire tanto le accuse quanto le illazioni. In tale sostrato, va sicuramente riconosciuto un culto che vedeva al suo centro un’entità diversa rispetto a Gesù Cristo inteso in termini cattolici. Questa è una constatazione che non va complicata o argomentata all’accesso; molto più semplicemente, nel complesso della spiritualità templare, non può essere esclusa la presenza di elementi riconducibili alle conoscenze sull’Uomo Universale-Adamo spirituale. Anche se, chiaramente, l’accusa di idolatria può fornire prove molte vaghe per coloro che limitano i loro sguardi ai soli fatti processuali.

Allo stesso modo, non può neanche essere escluso che l’idolatria templare fosse frutto di un pervertimento di conoscenze inizialmente apprese nel Levante e poi trasformate in una grottesca parodia delle stesse. In tal senso, basterà leggere molte delle confessioni dei cavalieri imputati per ricavare possibili indizi di ogni sorta. Per sua stessa natura, si tratta però di un versante della questione che non andrebbe limitato alla sfera storico-exoterica, e che può essere lumeggiato solo sulla base di un’approfondita riflessione sulle dottrine circolanti nel Levante all’epoca delle Crociate. Qui ci si limita a ricordare e a suggerire tali prospettive di ricerca, le quali sono già state parzialmente seguite da diversi studiosi, ma senza volerle tramutare in argomenti faziosi, tesi a veicolare una versione a suo modo ‘pretestuosa’ della simbologia templare. Il proposito principale è quello di fornire una prospettiva di studio e riflessione al lettore, il quale sarà poi libero di approfondirla con le fonti e le opere che reputerà più idonee; prospettiva che non può certo trovare il dovuto sviluppo tematico né qui né tantomeno nello spazio di un intero volume, perché si tratta di un approfondimento che tracima gli argini dell’indagine storica e che non può essere pienamente compiuto nell’ambito di una qualsiasi discussione d’indole speculativa.

Ciò che invece si presta ad essere meglio approfondito nello spazio del presente intervento è l’abnorme proliferazione di tesi sull’idolatria del Tempio prodottasi a partire dall’Ottocento. Le tetre sembianze dell’idolo templare, ora presentato come una testa parlante sospesa a mezz’aria ora come un capro barbuto, privo di pudori e decenze, si rivelarono infatti, dopo la Rivoluzione francese, uno dei motivi più allettanti per chiunque volesse attribuire ai Templari un culto eterodosso, oppure dalle caratteristiche puntualmente sovversive. Anche in questo caso, come si è già detto per l’accusa del Bello e del Nogaret, non tutte le ‘invenzioni’ sono però prive di significato. Ciò è particolarmente vero per quelle dell’Ottocento occultista e di uno dei suoi esponenti di punta, ovvero Éliphas Lévi. A dispetto dell’anarchismo filologico ed ermeneutico in voga all’epoca, l’intero revival ottocentesco del «Baphomet des templiers» ha molto da dirci su quel significato metastorico della vicenda templare di cui si è già fatto cenno e che, dal punto di vista del presente intervento, risulta più importante di quello meramente storico. Si tratta di un aspetto che va affrontato con la dovuta lucidità e, soprattutto, senza assumere l’approccio e il tono di sufficienza con cui molti storici e romanzieri lo hanno derubricato a ‘fenomeno di costume’: il Bafometto occultista non è infatti per nulla estraneo alla grottesca parodia delle conoscenze sull’Adamo Spirituale prima prospettate e, tra le altre cose, rimanda agli albori di quella pseudo-spiritualità che sarebbe diventata tanto dominante nella cultura di massa moderna e, in maniera ancora più pronunciata, in quella contemporanea.

 

 

TERZA PARTE

La discussione fin qui sviluppata non pretende affatto di offrire all’attenzione del lettore qualcosa di inaudito. Una tale pretesa sarebbe quantomeno ingenua. Qui si è perlopiù cercato di accostare il contesto politico e culturale ruotante attorno alla soppressione dei Templari a precise conoscenze radicate nella spiritualità tradizionale, sia cristiana sia islamica. Il significato meno evidente e più riservato legato all’accusa di idolatria, in tale contesto, non va sottovalutato. Rilegarlo allo status di trovata estemporanea non aiuta a comprenderlo. Non a caso, il presunto culto idolatrico templare, il suo carattere pseudo-misterico, venne già presentito, si potrebbe dire fiutato, dall’Occultismo ottocentesco, il quale proprio dell’«idolo dei templari» fece una delle sue icone più rappresentative, munendolo non solo di quegli attributi magico-ermetici per i quali è ancora oggi noto, ma associandogli con insistenza anche un nome di sicuro impatto come quello di Bafometto; nome, come già visto, non del tutto campato in aria, ma al contempo destinato a colpire l’immaginario degli appassionati di magia e pratiche rituali dell’Europa post-rivoluzionaria: un’epoca ben lontana dal rigore razionalista che molti continuano a vedervi.

Nelle fattezze e nell’aura emanata dal simulacro androgino occultistico si stenta a riconoscere un proposito spirituale ben orientato e realmente consacrato ad una reale finalità trascendente. Per averne contezza è necessaria solo un po’ di pazienza e la dovuta attenzione; perché, per il resto, è quasi tutto scritto nero su bianco. Come alcuni lettori ricorderanno, la più nota delle raffigurazioni del Baphomet dell’Occultismo si trova infatti fra le pagine di un libro di Éliphas Lévi, nel quale l’idolo in questione appare come una creatura dalle fattezze androgine, dalla testa zoomorfica, e contornata di simbologia magico-ermetica. Si tratta nello specifico del Secondo tomo del manuale Dogma e rituale dell’alta magia (1854), ovvero una delle opere più influenti della stagione occultista. La raffigurazione tratteggiata dallo stesso Lévi, e soprattutto i significati che questi giungerà ad attribuirle, sembra decretare quella definitiva rielaborazione, si può anche dire contraffazione, in chiave panteistica dello stesso Adamo Primordiale al quale si è prima accennato. Un idolo panteista che nei decenni dell’Occultismo francese riceverà abbrivio bastevole a fargli raggiungere la funesta epoca attuale. D’altronde, sarebbe anche ingenuo pensare che la totale confusione che domina oggi su molte cognizioni antropologiche, e persino biologiche, non abbia un qualche remoto nesso con il sabotaggio culturale avviato proprio dai mestatori della simbologia tradizionale, di cui la Francia rivoluzionaria e post-rivoluzionaria, letteralmente, pullulava.

Ius rationis abest, ubi saeva potentia regnat.

Rispetto all’opera di Éliphas Lévi, a Dogme et Rituel in particolare, si potrebbero muovere le critiche più varie, tenendo anche conto della vastità degli interessi a cui essa si rivolge. Lévi fu infatti una sorta di catalizzatore e sistematizzatore di linguaggi magici e divinatorî spesso molto lontani tra loro: dai tarocchi all’alfabeto ebraico, per passare dal magnetismo animale fino all’evocazione dei defunti. Molte delle sue inclinazioni magico-pratiche puntavano al potenziamento delle facoltà medianiche e manipolatorie dell’essere umano. Quanto a quelle medianiche, pare tra l’altro che queste esponessero i loro cultori a pericoli e collassi mentali molto gravi. D’altronde, l’Occultismo avrebbe rappresentato l’oscuro prologo a quella deriva “spiritistica” che raggiunse la sua acme con la Teosofia quindi con la diffusa moda delle sedute spiritiche novecentesche. Basterà leggere Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello per avere un quadro abbastanza preciso e completo di quell’epoca dell’esprit moderno.

Con più stretta relazione all’argomento di nostro interesse, dell’opera di Éliphas Lévi va considerata l’indole schiettamente “luciferina”, per utilizzare un aggettivo a tutt’oggi in uso e di cui si stenta a trovare sinonimi. Si tratta invero di un atteggiamento intellettuale che non fu esclusivo dell’occultista parigino, ma cifra comune delle varie massonerie della sua epoca, fossero esse regolari o deviate; atteggiamento che emerge qui e là nello stesso Dogma e rituale, e che proprio nel Baphomet de Mendes sembra trovare una sorta di sinistro “nume tutelare”. A questo riguardo, si legga con attenzione il passo in cui Lévi sostiene che «Dio stesso non è senza una ragione d’essere e non può esistere che in virtù di una suprema e inevitabile ragione. È dunque tale ragione che è l’assoluto; che noi dobbiamo credere se vogliamo che la nostra fede abbia una base ragionevole e solida». Senza dover smontare su più livelli una simile conclusione, basterà qui rimandare ai passi evangelici in cui lo stesso Figlio dell’Uomo dice di «non conoscere l’ultimo giorno» e che «solo il Padre lo conosce» [Mt. 24,36; Mc. 13, 32]: ciò al fine di scorgere, per contrasto, un esempio di quella tracotanza insita in certi assunti presenti in Dogme et rituel, con i quali si pretende di “insegnare” alla Divinità i limiti e le condizioni della Sua stessa «esistenza»! Ciò basta anche a sollevarci dal compito di sottolineare i vari abbagli semantici e terminologici di Lévi, i quali diventano inevitabili lì dove si pervenga a conclusioni tanto aberranti quanto le sue.

Ci troviamo infatti di fronte a un chiaro esempio di quel delirio iper-razionalista, tipico di molta intellighenzia ottocentesca, ebbra dell’idolatria che le varie massonerie sorte nel secolo precedente avevano voluto tributare alla facoltà raziocinante, giungendo a simulare una sorta di ‘onnipotenza speculativa’, le cui premesse appaiono ancora oggi confuse, mentre gli effetti e gli esiti più che mai riconoscibili, essendo questi con ogni evidenza tendenti all’affermazione della potenza individuale contro qualsiasi piano provvidenziale. Come anticipato, quello fin qui delineato non è in ogni caso un atteggiamento esclusivo di Éliphas Lévi. Certe dottrine ed equazioni, risolte sempre con il medesimo risultato dell’‘assolutismo della ragione’, si erano di fatto già manifestate come marchi di fabbrica proprio delle massonerie settecentesche, di cui l’Occultismo aveva per molti versi raccolto il testimone. Come noto, il culto della Déesse Raison, già per il tempo dei maghi alla Lévi, aveva vissuto i suoi fasti. Vi si erano votate di volta in volta tutte quelle menti anti-religiose, ma bisognose di una nuova religione e di una nuova divinità, alla quale finirono spesso per tributare rametti d’ulivo grondanti il sangue delle ghigliottine. Tra queste menti, vi fu ad esempio quella di Adam Weishaupt, il quale proclamò a più riprese l’intronizzazione della stessa Déesse Raison, seppure si disse disponibile a concedere lo slancio religioso ai semplici e ai popolani. Figura spesso dimenticata in ambito filosofico, e da tempo relegata ai pettegolezzi sulle teorie del complotto, il fondatore degli Illuminati di Baviera (Der Bund der Perfektibilisten) fu operativo negli ambienti massonici e para-massonici del Sette e Ottocento bavarese con il nome di Spartacus. Anche lui, ancor più di Lévi, si prodigò per affermare quell’imperio della ragione che si sarebbe poi rivelato tanto necessario a mettere in azione il golem dell’uomo occidentale moderno: quella creatura sconsacrata e allucinata oggi tanto diffusa e che già nell’Età dei cosiddetti Lumi aveva iniziato a proliferare in maniera inarrestabile.

In ogni caso, quanto appena rievocato vale solo a provare, senza timore di smentita, che Éliphas Levi appartenne in pieno a quell’eggregora iper-razionalista dominante sulla sua epoca; un’eggregora – termine coniato dallo stesso Lévi – che guidò l’operato di personaggi apparentemente molto diversi tra loro. E, in effetti, se l’autore di Dogma e rituale dell’alta magia nutrì interessi molto personali e conoscenze piuttosto variegate, quanto a forma mentis, egli fu invece molto meno eccezionale di quanto si potrebbe credere. D’altronde, fu proprio sullo slancio di una mentalità sovversiva, e non solo dal punto di vista politico, che molti illuminati e occultisti del Sette e Ottocento finirono per accettare l’idea che l’uomo possa e debba ambire a “saperne quanto la Divinità”; ed è questa, e non altra, la cifra e la causa principale di quell’atteggiamento “luciferino” a cui prima si accennava, e del quale i vari sodalizi massonico-occultistici della stagione rivoluzionaria e napoleonica furono promotori piuttosto assidui.

Queste dunque le concezioni generali, e si potrebbe anche dire dogmatiche, di Éliphas Lévi. Per quanto possa apparire bizzarro, infatti, l’occultista parigino nell’ampio perimetro dei suoi interessi tenne conto anche della dogmatica cattolica. Certo, nel suo caso, si trattò di dogmi sui generis, ma chi s’inoltra nella lettura di Dogme et rituel si accorgerà presto di come l’opera non manchi di curiosi quanto imprevedibili punti di contatto con la stessa dogmatica tomistica; sebbene, sempre attraverso la dovuta enfasi, aliter fieri non potuit, destinata al totem della ragione. Proprio in San Tommaso d’Aquino, Lévi riconosce infatti «il primo a sostituire l’arbitraria divinità con l’assoluta legge della ragione». Non è facile dire cosa, esattamente, vi sia di arbitrario nella Divinità, dato l’encomio all’Aquinate, ma in generale non è facile neanche comprendere come e perché l’occultista parigino passi lietamente dal predicare il più rigoroso razionalismo a tracciare i lineamenti del Baphomet des Mendes. Qui ad ogni modo non si ha di mira una dettagliata ricapitolazione delle sommarie annessioni mitologiche e conclusioni logiche presenti nel manuale di magia dell’occultista parigino. Basti solo dire che in esse non vi è poco di “arbitrario”, a partire dalle varie genealogie concettuali e filosofiche che vengono mutuate in parte dall’Illuminismo settecentesco in parte da un variegato complesso mitologico e demonologico.

Quest’ultimo appunto ci riconduce al nostro argomento principale, e cioè al Bafometto concepito da Éliphas Lévi. Esso può essere genericamente definito come una sorta di ‘monade geroglifica’, come se ne trovano lungo la simbologia ermetica d’epoca moderna, ma nella quale confluiscono e si assommano i principali significati riconosciuti dall’autore nell’Opus ermetico. Lévi considera infatti il suo Bafometto ora una personificazione del «sale alchemico» ora il «serpente antico» di Genesi. Tanto le sue analogie quanto le premesse appaiono però spesso farraginose e non chiaramente definibili nei loro intenti ermeneutici e iconografici principali. Vi si può se non altro riconoscere la chiara volontà di raffigurare, con il Bafometto, un’icona dello «spirito della terra» e, in quanto tale, «un innocente e persino pio geroglifico». Per questo non si può escludere che il soggetto dell’illustrazione di Lévi rimandi ad una precisa visione panteistica, la quale peraltro non sembra estranea a Dogme et rituel, nel suo complesso. Ciò sia detto anche in considerazione del deliberato tentativo di riprodurre, con l’androgino primordiale, un’immagine metaforica delle pulsioni telluriche che ne fanno una riduzione, se non una contraffazione, dell’Uomo Logos Universale della tradizione islamica e cristiana. Un’operazione, questa, che si potrebbe anche mettere in relazione con quanto accade nella Divina Commedia, dove Lucifero viene raffigurato come un capovolgimento del Logos trascendente e delle Persone trinitarie; anche se, rispetto alla sovversione della simbologia tradizionale, in Dogma e rituale le spiegazioni sembrano spesso latitare oppure farsi via via più ambigue e sfuggenti. Un’ambiguità argomentativa che appare in realtà come voluta e volontaria, in conseguenza della quale l’idolo acquisisce il proprio potere incantatorio e la sua carica magnetica.

Al di là di queste come di ulteriori considerazioni di carattere iconografico, ciò che appare piuttosto avventato è la grossolana ricostruzione che, in Dogme et rituel, viene fatta del culto e della ritualità templare. L’inclinazione all’idolatria da parte dei cavalieri del Tempio vi viene infatti ritenuta certa e indubitabile. Lévi giunge perfino a confessare la sua «profonda convinzione che i maestri reali dell’Ordine dei Templari lo adorassero e lo facessero adorare ai loro iniziati». Il che rappresenta nient’altro che una sua deliberata ipotesi fatta passare come verità incontestabile. Infatti, se ad un primo sguardo le sue fattezze possono apparire poco rassicuranti, il Baphomet de Mendes effigiato da Lévi suscita una certa diffidenza anche e soprattutto per via dell’inconsulta attribuzione alla ritualità templare che ne fa il suo autore. Nel dettaglio, si noti come il simulacro zoomorfo in questione non è una “Testa magica” qualsiasi. Secondo le indicazioni di Lévi, esso va identificato con il «capro di Mendes», il quale a sua volta va mitologicamente riconnesso al Pan degli antichi greci. Su questo aspetto, l’ambiguità delle spiegazioni dell’occultista parigino viene accresciuta di pagina in pagina anche dal fatto che l’idolatria non vi viene ritenuta la peggiore delle colpe templari; una colpa che risiederebbe invece, a suo dire, nell’«aver lasciato intravedere ai profani il santuario dell’antica iniziazione».

Eliphas Lévi, Dogme et Rituel de la Haute Magie, Frontespizio

 

Nelle descrizioni del Bafometto presenti in Dogme et rituel viene così instillata una forte dose di genericità che, evidentemente, è da interpretare attraverso la natura ambivalente dello stesso idolo: «innocente geroglifico», da un lato, ma adorato da iniziati che esposero «il santuario dell’antica iniziazione» alla profanazione, dall’altro. Proprio come i Guillaume de Nogaret e i ‘Traditori’ del Tempio del Trecento, Gardes des Sceaux delle potenze infere, pare che anche Lévi sia giunto a servirsi dell’«idolo barbuto» per mascherare la reale natura della sua operazione culturale e politica. Questa, purtroppo, è ben lontana dall’essere una personale sensazione di chi scrive. Chiunque abbia pregiudizi di carattere confessionale o ideologico, potrebbe in effetti essere portato a pensare che l’icona androgina del Baphomet de Mendes rappresenti un’entità vagamente diabolica, se non propriamente satanica. Tale interpretazione, come anticipato, non poggia solamente sull’impatto visivo dell’idolo; ma soprattutto sulle descrizioni concettuali che sul suo conto vengono offerte in Dogme et rituel. Descrizioni che sembrano rimandare a quello scriteriato quanto consapevole tentativo di contraffazione dell’Adamo Primordiale, ridotto a simulacro panteistico, che rappresenterà una delle cifre principali della mentalità moderna. Per quanto in pochi se ne siano accorti, e siano quali siano i fondamenti spirituali dell’osservatore, non è infatti necessario lasciarsi trasportare da pregiudizio alcuno per giungere alle conclusioni fin qui prospettate: è lo stesso Éliphas Lévi che, nel corso di una delle sue magmatiche argomentazioni, ci dà conferma della giustezza di quei sentori che, nel Baphomet de Mendes, inducono a sospettare un’entità diabolica.

Le origini iconografiche dell’idolo, delle quali Lévi non fa mistero, sono infatti da ricondurre alla quindicesima carta degli arcani maggiori. Si ricordi che anche di questi ultimi l’occultista parigino offrì una sua personale riproduzione pittorica. Ora, va notato come la quindicesima carta dei tarocchi raffiguri esattamente ‘il diavolo’ oppure ‘Tifone’ e, non a caso, Lévi tratta diffusamente l’argomento del Baphomet proprio nel Quindicesimo capitolo del Secondo tomo dell’opera. Quali che fossero le intenzioni legate al suo simulacro, esso non appare estraneo al forte interesse per il magnetismo animale che il suo autore nutrì, apprendendolo in gran parte dalle sue guide intellettuali. Ciò spiegherebbe almeno in parte le fattezze zoomorfiche della figura in questione. In ogni caso, ciò che appare decisivo è proprio la coincidenza tra il Baphomet de Mendes e il quindicesimo arcano maggiore. A tale riguardo, l’occultista francese scrive: «noi qui ritorniamo a quel terribile numero quindici, che nella carta dei tarocchi presenta il simbolo di un mostro irto su un altare e che porta una mitra e le corna, avente i seni di una donna e le parti sessuali di un uomo, una chimera, una sfinge deforme, una sintesi di mostruosità; e sotto questa figura, noi leggiamo un’iscrizione ben chiara e ingenua: ‘il diavolo’. Sì, qui noi ci accostiamo al fantasma di tutti i terrori, il drago di tutte le teogonie, l’Ahriman dei persiani, il Tifone degli egiziani, il Pitone dei greci, l’antico serpente degli ebrei, la Vouivre, il Graouilly, la Tarasca, la Gargolla, la grande bestia del Medioevo, oltre a tutto ciò, il Baphomet dei templari, l’idolo barbuto degli alchimisti, il dio osceno di Mendes, il capro del Sabba».

Dietro le ambiguità del «Bafometto dei templari» sancito dal mago parigino, sembrano dunque allignare quegli slanci alla rivolta che non avevano un intento esclusivamente politico, ma si scagliavano contro le altezze metafisiche ovvero contro quella che lo stesso Lévi definisce «l’arbitraria divinità». Si potrà anche opporre che il Baphomet, come lo stesso quindicesimo arcano maggiore, non siano gli unici temi sviluppati in Dogme et rituel, e che il suo autore non neghi né la fede né la trascendenza. A questo riguardo, rimandiamo al dogma della «ragione assoluta» così come esso è stato delineato in precedenza sullo sfondo dei principi massonici settecenteschi: si tratta infatti di un dogma centrale per la mentalità di Éliphas Lévi e dell’ambiente in cui egli maturò le sue convinzioni.

A tal riguardo, in prossimità della conclusione, possiamo solo constatare come il Bafometto dell’Occultismo non andrebbe inteso solo dal punto di vista figurativo, ma collegato ove possibile agli imperativi dell’ambiente (eggregora?) che lo elaborò. Imperativi razionalistici, per i quali non vi sono conoscenze e sapienze precluse all’essere umano. Per sette secoli considerato la trovata di un re francese che mirava a saccheggiare i beni Templari, tanto l’idolo templare trecentesco quanto il Baphomet de Mendes hanno molto da dire sulle sorti spirituali dell’Occidente: più di quanto ammetta chi è solito ridurre la storia a mera cronaca annalistica. Le vicende del Tempio, almeno per chi li sappia vedere, hanno infatti profondi significati di carattere metastorico; ciò perché lo scontro tra dogmatismo e uso politico del dogmatismo, da una parte, e le autentiche conoscenze spirituali, dall’altra, sono un aspetto che trascende determinati fatti storici, per farsi rivelatore della deriva antispirituale di tutta l’epoca moderna e contemporanea.

E se è vero, come sostenuto da Guénon, che il dominio esoterico non possa mai essere ridotto a quello exoterico, è anche vero che quest’ultimo, indossata la maschera del dogmatismo e associato a interessi e mire politiche, ha il potere di ridurre e contraffare le reali conoscenze tradizionali e iniziatiche per farne non solo un’arma di persecuzione, ma anche di falsificazione e contraffazione del sapere spirituale. Ovviamente il termine ‘dogmatismo’ va qui inteso in un senso molto ampio e generale, soprattutto in considerazione del fatto che poche cose si sono rivelate più mutevoli dei dogmi, soprattutto nella loro applicazione politica e propagandistica. Un prestigiatore dell’Occultismo quale Éliphas Lévi non fu affatto estraneo a una tale dinamica, con la differenza che egli se ne servì per rinvigorire quella mitologia sul «Bafometto dei templari» che ha per secoli costituito l’ingannevole simulacro di un Ordine le cui verità più profonde rimangono ad oggi avviluppate dentro un bozzolo di finzioni sempre difficile da riconoscere come tale. Sarebbe facile liquidare Lévi come un fattucchiere ignorante, cosa che non fu, com’è stato facile per generazioni di studiosi derubricare il Baphomet a “bravata” dell’Occultismo francese. Le cose non stanno affatto così. Gli occultisti presentirono invece l’importanza e i significati della presunta idolatria templare molto meglio degli annalisti o dei vari Eco contemporanei; ma sull’onda anomala della loro eggregora ermeneutica finirono per farne quel “mostro” panteistico che sarebbe poi stato venerato, più o meno consapevolmente, dall’uomo della New Age. Un’operazione di lungo termine che, proprio nel tentativo di contraffare l’Adamo Spirituale, trovò il suo proposito e il suo fine più significativo. Un Tifone inquieto sotto le scosse telluriche che, con il suo anelito alla rivolta, punta alla sovversione di tutti gli autentici Principi metafisici. Ecco cosa si nascondeva sotto le convulsioni del secolo occultista e, più visibilmente, in quelli che lo hanno seguito.

Gianfranco Vittorio Strazzanti

Enna, 19 agosto 2024

 

 

RIFERIMENTI E ANNOTAZIONI

 


PRIMA PARTE

Partner, Peter, I Templari, CDE, Milano, 1994, le citazioni iniziali si trovano a p. 39; rispetto alle concezioni legate al Cristo durante la decadenza templare, sono estremamente significative le voci poetiche citate alle pp. 37-42; per un’approfondita riflessione sull’opera di Éliphas Lévi e sulle varie teorie ottocentesche sull’origine e sulle mire politiche dei Templari, cfr. ibidem, Cap. VIII, La politica del meraviglioso, pp. 180-208.

Guénon, René, I guardiani della terra santa [Les Gardiens de la Terre sainte], in «Le Voile d’Isis», agosto-settembre 1929, poi divenuto Cap. 3 di Sull’Esoterismo Cristiano e Par. 11, di Simboli della scienza sacra;

— Sayful-Islam, in «Cahier du Sud», numero speciale, 1937; poi Par. 27 di Simboli della Scienza Sacra;

— San Bernardo, Luni, Milano, 2014, p. 34; pubblicato per la prima volta nella collana La vie et les oeuvres de quelques grands saints, pubblicata a partire dal 1927 dalla Libraire de France;

— Cristianesimo ed iniziazione, Etudes Traditionnelles, Parigi, settembre-dicembre, 1949; poi Cap. 2 di Sull’Esoterismo Cristiano: «il Cristianesimo fu costretto a prendere il posto delle antiche forme tradizionali, proprio nel momento in cui queste, per la generalità degli Occidentali, finirono col diventare solo delle «superstizioni», nel senso etimologico del termine. Questa discesa (…) non fu dunque per niente un fatto accidentale o una deviazione, essa, al contrario, dev’essere considerata come avente un carattere veramente ‘provvidenziale’, poiché impedì che l’Occidente piombasse allora in uno stato che, in definitiva, potrebbe essere paragonabile a quello in cui si trova attualmente»;

— Per la «azione di presenza», cfr. Considerazioni sull’iniziazione, Capp. X e XXXVII;

— Sull’Adamo Spirituale e l’analogia con la Gerusalemme celeste, cfr. L’esoterismo di Dante, Cap. VIII, I cicli cosmici;

— Su Éliphas Lévi, cfr. L’errore dello spiritismo, Cap. V, Spiritismo e occultismo; importante il passaggio ottocentesco occultismo-teosofia ivi ben descritto;

— Sull’‘esteriorizzazione’ del Cristianesimo come anche sull’iniziazione massonica e le frequentazioni di Éliphas Lévi, cfr. la lettera a Julius Evola del 18 aprile 1949;

— Sui limiti del pensiero dello stesso Lévi, cfr. anche L’esoterismo di Dante, in particolare Cap. IV, Dante e il Rosicrucianesimo, lì dove Guénon afferma che tra le peggiori deviazioni di Lévi vi era quella di «considerare ogni cosa attraverso la mentalità di un rivoluzionario del 1848», il che è particolarmente vero riguardo ai temi affrontati in questo articolo.

 

SECONDA PARTE

Frale, Barbara, Il Papato e il processo ai Templari, L’inedita assoluzione di Chinon alla luce della diplomatica pontificia, Viella, Roma, 2003; il passo relativo all’idolatria dei Templari si trova a p. 123; per la situazione interna all’Ordine al tempo del processo, cfr. pp. 166-179. Si rimanda al versante finale della stessa opera per valutare la distanza tra le accuse della corte francese e le colpe che i Templari effettivamente confessarono agli inquisitori, così come documentato dalla Pergamena di Chinon. Le stesse confessioni apparse sui documenti, si noti, furono forse frutto di un compromesso tra le varie parti in causa; anche se diversi elementi inducono a pensare che Jacques de Molay venne tenuto fuori da tale compromesso. Per un approfondimento sui capi d’accusa contro i Templari, cfr. F. Cardini, Saggio introduttivo a L. Cibrario, Breve storia dell’Ordine dei cavalieri del tempio, Aragno, Torino, 2000, pp. 29-31: per Cardini «la lista delle accuse ai Templari (…) ha un aspetto ben poco “misterico” e “iniziatico”», egli è infatti incline a ricollegare la presunta idolatria templare al ciclo leggendario della “Testa magica”. Quanto all’importante figura di Hugues de Pérraud, le tesi della Frale non sono state accolte da Alain Demurger, il quale ha scritto: «Non penso che ci siano state delle divergenze profonde tra Pairaud [Pérraud] e Molay: senza dubbio ce ne furono, ma non al punto da determinare una brusca opposizione tra i due. Dopo tutto era interesse di Jacques de Molay e del Tempio avere un fratello ben introdotto alla corte di Francia», in A. Demurger, Tramonto e fine dei cavalieri templari, Newton & Compton, Roma, 2004, pp. 181-182. Senza voler qui approfondire la questione dal punto di vista storico, va detto che forse sia Demurger sia in parte la Frale hanno sottovalutato la possibilità che Pérraud fosse semplicemente un ‘doppiogiochista’: un ruolo indispensabile all’interno di una dinamica politico-giudiziaria quale quella del processo contro i Templari.

Markale, Jean, I Templari. Custodi di un mistero, Sperling & Kupfer, Milano, 2000 [Ed. or. Gisors et l’énigme des Templiers, 1986], in part. Cap. 8, La testa misteriosa, pp. 147-165. Il testo di Markale offre spunti e argomenti decisamente validi, soprattutto rispetto alla ritualità templare. Egli pare però ossessionato dalla ricerca di controprove storiche, anche quando ciò non è strettamente necessario e quando gli argomenti affrontati superano per loro natura ogni possibilità di ricerca storiografica. Meritoriamente, Markale cita la confessione del templare Gérard du Passage, il quale nell’aprile del 1307 dichiarò di fronte alla Commissione pontificia che «[il crocifisso] è solo un pezzo di legno. Nostro Signore è in cielo» (ibidem, p. 176). Parole già di per sé rivelatrici di una conoscenza autenticamente spirituale e verosimilmente iniziatica. Curiosamente, Markale giunge poi ad accostare certe «speculazioni erudite» sulla figura di Gesù Cristo ai Templari, senza precisare l’origine di tali «speculazioni»; quella che egli sommariamente delinea corrisponde infatti in tutto e per tutto alla dottrina docetista islamica; cfr. ibidem, p. 177  [cfr. Corano, Sura delle donne IV, 157]. Al di là di queste “sviste”, non si sa quanto volontarie, molte delle intuizioni di Markale sono comunque di grande valore e hanno il pregio di fare emergere l’ambivalenza della questione templare. Infatti, le sue ricostruzioni più accurate offrono un’immagine della ritualità templare anti-idolatrica fino all’iconoclastia; cfr. ibidem, Cap. 9, Il rinnegamento. Non va d’altra parte sottovalutata l’intuizione di Markale relativa all’esistenza di un Ordine nero nascosto all’interno del Tempio; cfr. ibidem, pp. 214-215.

Anselmo di Ribemont, I Lettera a Manasse, Arcivescovo di Reims, 1098, in  Godefridi Bullonii Lotharingiae Ducis, Postmodum Hierosolymorum Regis Primi Epistolae et Diplomata: Accedunt Appendices Amplissimae Monumenta Perplurima de Bello Sacro Complectentes in Patrologiae Cursus Completus, Series Secunda, Tomus (Unicus): Saeculum XII, Editore: J.-P. Migne, 1854: «Al sorgere del sole, invocarono a gran voce Baphometh; e noi abbiamo pregato in silenzio il nostro Dio nei nostri cuori, così abbiamo attaccato e li abbiamo buttati fuori dalle mura della città». [«Sequenti die aurora apparente, altis vocibus Baphometh invocaverunt; et nos Deum nostrum in cordibus nostris deprecantes, impetum facientes in eos, de muris civitatis omnes expulimus»].

Raimondo Lullo, Libre de Doctrina Pueril, Capitolo LXXI, De Mafumet, Gustau Gili, Barcelona, 1907, pp. 175-179.

Farīd al-Dīn ʿAṭṭār, La lingua degli uccelli, Mediterranee, Roma, 2002; diversi i riferimenti all’Uomo Universale contenuti in quest’opera, tanto in maniera diretta quanto in maniera figurata. L’Uomo Universale vi viene riconosciuto in Maometto, per quanto in termini trasfigurati e slegati dal piano storico. Su Aṭṭār e sulla comparazione tra poesia de Sufi e dei Fedeli d’Amore, particolarmente felici appaiono le riflessioni di Luigi Valli contenute nel suo Il Linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore, in particolare nel Cap. V ovvero Il gergo mistico-amatorio nella poesia prima e fuori del dolce stil novo; in particolare sulla natura paradossale di tale poetica.

Corbin, Henri, Vangelo di Barnaba e profetologia islamica, all’insegna del Veltro, Parma, 2016 [Ed. or. L’Évangile de Barnabé et la prophétologie islamique, 1977]. Di particolare interesse in questo esile libretto è la Nota introduttiva di Giovanni Servusdei, il quale, oltre a criticare l’opera secondo i principi dottrinali di René Guénon, offre anche importanti chiarimenti sulla terminologia di Corbin in merito all’Uomo Universale, in particolare nel primo Paragrafo il cui titolo è, appunto, Il ‘Verus Propheta’ ovvero L’‘Uomo Universale’, pp. 6-7.

Sull’Adamo Spirituale, non vanno sottovalutati i passi di San Paolo, contenuti nella Prima Lettera ai Corinzi, 15, 44-50: «Se c’è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale, poiché sta scritto che il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita. Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale. Il primo uomo tratto dalla terra è di terra, il secondo uomo viene dal cielo. Quale è l’uomo fatto di terra, così sono quelli di terra; ma quale il celeste, così anche i celesti. E come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste. Questo vi dico, o fratelli: la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che è corruttibile può ereditare l’incorruttibilità». Vi rimanda anche Guénon nel Cap. VIII dell’Esoterismo di Dante.

 

TERZA PARTE

Strube, Julian, The “Baphomet” of Eliphas Lévi: Its Meaning and Historical Context, in «Correspondences», 4, 2016, pp. 37–79. La storia di Bafometto trova spazio anche nel Pendolo di Foucault di Eco; la figura dalla testa di capro viene messa in relazione con i Templari storici, perlopiù sulla scorta delle varie “dicerie” del Templarismo ottocentesco. Nel romanzo si giunge a dire che «dagli Assassini, i Templari apprendono i loro riti occulti. Solo l’imbelle insipienza dei balivi e degli inquisitori di re Filippo aveva impedito loro di comprendere che lo sputo sulla croce, il bacio sull’ano, il gatto nero e l’adorazione del Bafometto altro non erano che la ripetizione di altri riti, che i Templari compivano sotto l’influsso del primo segreto che avevano appreso in oriente, l’uso dell’hashish», (Ibidem, Tiferet, 6, 103). Di ben altro avviso René Guénon: «uno degli attributi più noti, ma in genere non dei meglio compresi, degli ordini cavallereschi, e più particolarmente dei Templari, è quello di “custodi della Terra santa”. Se ci si attiene al significato più esteriore, questo attributo trova una giustificazione immediata nella relazione esistente fra l’origine di tali Ordini e le Crociate, giacché, per i Cristiani come per gli Ebrei, sembra proprio che “Terra santa” non designi nient’altro che la Palestina. Tuttavia, il problema diventa più complesso quando ci si accorge che varie organizzazioni orientali, il cui carattere iniziatico è fuor di dubbio, come gli Assassini e i Drusi, si sono ugualmente fregiati del titolo di “custodi della Terra santa”. In questo caso non può più trattarsi della Palestina; ed è notevole d’altronde che queste organizzazioni presentino un numero abbastanza grande di tratti comuni con gli ordini cavallereschi occidentali, e che addirittura alcune di esse siano state storicamente in relazione con questi ultimi» [da I custodi della Terra Santa, cit.].

Éliphas Lévi, Dogme et Rituel de la Haute Magie, Germer Bailliére, Paris, 1861, Germer Bailliére, Paris, 1861, Tome I, Cap. 19, La Pierre de Philosophes: Elagabale, p. 340: «Dieu même n’est pas sans raison d’être et ne peux exister et ne peut exister qu’en vertu d’une suprême et inévitable raison. C’est donq cette raison qui est l’absolu; que nous devons croire si nous volouns que nostre foi ait une base raisonnable et solide. On a pu dire de nos jours que Dieu n’est qu’une hypothèse, mais la raison absolue n’en est pas une: elle est essentielle à l’être»;

— Ibidem, Introduction, p. 75: «Je vous ferai assister au supplice de Jacques de Molay et de ses complices ou de ses frères dans le martyre… Mais, ne vous y trompez pas, et ne confondez pas le coupable avec l’innocent. Les templiers ont-ils réellement adoré Baphomet? ont-ils donné une accolade humiliante à la face postérieure du bouc de Mendès? Quelle était donc cette association secrète et puissante qui a mis en péril l’Église et l’État, et qu’on tue ainsi sans l’entendre? Ne jugez rien à la légère; il sont coupables d’une grand crime: ils ont laisse entrevoir à des profanes le sanctuaire del l’antique initiation; ils ont cueilli encore une fois et partagé entre eux, pout deveenir ainsi le maîtres du monde»;

— Dogme et Rituel de la Haute Magie, Germer Bailliére, Paris, 1861, Tome II, Cap. 15, Le sabbat des sorciers, p. 208: «Nous voici revenus à ce terrible nombre quinze, qui, dans la clavicule du tarot, présente pour symbole un monstre debout sur un autel, portant une mitre et des cornes, ayant un sein de femme et les parties sexuelles d’un homme, une chimère, un sphinx difforme, une synthèse de monstruosités; et, au-dessous de cette figure, nous lisons eu inscription toute franche et toute naïve: le diable. Oui, nous abordons ici le fantôme de toutes les épouvantes, le dragon de toutes les théogonies, l’Arimane des Perses, le Typhon des Égyptiens, le Python des Grecs, l’antique serpent des Hébreux, la vouivre, le graouilli, la tarasque, la gargouille, la grande bête du moyen âge, puis encore que tout cela, le Baphomet des templiers, l’idole barbue des alchimistes, le dieu obscène de Mendès, le bouc du sabbat». Ibidem, p. 209: «Oui, dans notre conviction profonde, les grands maîtres de l’ordre des templiers adoraient le Baphomet et le faisaient adorer à leurs initiés; oui, il a existé et il peut exister encore des assemblées présidées par celte figure, assise sur un trône avec sa torche ardente entre les cornes»;

— Per il concetto di Eggregora, cfr. Le grand arcane, ou l’occultisme dévoilé, Chamuel, Paris, 1898, Cap. X, Le Magnétisme du Mal, pp. 252-276;

— Il Tarocco restituito e spiegato da Eliphas Levi, OM Edizioni, Quarto inferiore (BO), 2018, pp. 173-179.

Mcintosh, Christopher, Eliphas Lévi and the Occult Revival in France, Rider, London, 1972.

Hanegraaff, Wouter J., The beginnings of occultist kabbalah: Adolphe Franck and Eliphas Lévi, in B. Huss, M. Pasi, K. von Stuckrad (Editors), Kabbalah and Modernity: Interpretations, Transformations, Adaptations, Brill: Leiden & Boston, 2010, pp. 107-128; in questo testo, si può trovare un assaggio di quella malintesa idea di dualismo basata sul livellamento delle principali dicotomie metafisiche (verità/errore; divino/diabolico; luce/tenebre); livellamento che costituisce l’origine dell’ambiguità tipica delle stesse argomentazioni di Éliphas Lévi.

Weishaupt, Adam, On Materialism and Idealism, a cura di J. Wagäs, traduzione di J. Singh-Anand e P. Ferguson, Malta Minerval Editors, Floriana, Malta; Fate, Texas US, 2018 [Ed. or. Über Materialismus und Idealismus, 1787], p. 135; secondo Weishaupt, «la ragione sola» (Die Bloßen Vernunft) è in grado di concepire e comprendere qualsiasi cosa, dalla fratellanza universale all’immortalità dell’anima: un’idea di ragione elevata che, paradossalmente, nella Francia rivoluzionaria non avrebbe tardato a dare esiti idolatrici con il culto della ragione che i giacobini tributarono appunto alla Déesse Raison;

— Diogenes’ Lamp, or, an Examination of Our Present-Day Morality and Enlightenment, traduzione di A. Gill, a cura di A. Swanlund, The Masonic Book Club, Bloomington, Illinois, 2008 [Ed. or. Die Leuchte des Diogenes, oder Prüfung unserer heutigen Moralität und Aufklärung, 1804].

 

In copertina: Donjon du Coudray, Castello di Chinon, Interno Torre

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