26 Settembre 2024
Filosofia

Tarde e la continuità nell’opposizione – Renato Padoan

L’ impostazione che il Tarde [1] conferisce alla sua speculazione sulla natura dell’opposizione non è tale, né il filosofo l’accetta, che possa per l’essenza distinguersi la contrarietà dalla contraddizione. Per Tarde la contrarietà e la contraddizione devono ricondursi a una stessa opposizione. Il sostrato di questa comune opposizione che non distingue la contrarietà dalla contraddizione risiede nella continuità degli opposti. Per Tarde sia nella contraddizione che nella contrarietà non vi è soluzione di continuità se non apparente. Sembrerebbe pertanto che nella contraddizione si abbia una parvenza di discontinuità che non si ha minimamente nella contrarietà. Ricorrendo ora all’esempio sembra evidente che nell’opposizione caldo vs. freddo si passerà dal caldo al freddo o dal freddo al caldo senza che siavi un momento in cui vengano meno il caldo o il freddo contemperati.

Il problema sembra porsi invece nel caso di una contraddizione come l’opposizione di acceso spento. Che cosa succede quando la candela non è né accesa né spenta? Che cosa trovasi nel bel mezzo di una contraddizione? È possibile che la moneta prillata, cioè lanciata per aria, cada e si arresti fissandosi nel contorno e non sia né testa né croce? Per la Roulette è diverso. Esiste il Banco ed esiste lo 0 zero, ma tra una faccia e l’altra del dado che cosa c’è?

Il punto di vista di Tarde sembra essere quello di non accettare l’idea che siavi nell’ opposizione di contraddizione uno iato incolmabile, una discontinuità per rispetto alla quale il seguito dell’evento, la processione eventuale potrebbe del tutto interrompersi precipitando nel nulla!

Nel caso della contraddizione per cui la battaglia navale domani avverrà o non avverrà – ed è questa la sola certezza come stabilimento di continuità – non resta effettivamente che mettersi nelle mani di Dio e affidarsi al destino. La continuità nella discontinuità della contraddizione apre le porte alla speculazione teologica sull’unità di quel solo Dio per rispetto al quale non ha senso parlare di opposizione, comunque, e quale che sia!

Sembra che Tarde sconti qui un innamoramento, se non una vera e propria passione, per l’emblema totalizzante riferito a quel solo filosofo che protestatosi ottimista, rinvenne nella continuità di coscienza della monade il postulato dell’esistenza dell’ Essere Ininterrotto e dell’adeguamento perfetto del microcosmo col macrocosmo e ovviamente del macrocosmo col microcosmo! L’innamoramento per la monadologia di Leibniz sembra condurre a una sorta di amour fou – per usare un concetto di Breton – della coppia o della monade Leibniz. La contraddizione invece alligna nel cuore stesso dell’opposizione e si tempera o stempera soltanto nella forma dell’articolazione. Esservi dunque tra gli opposti un alcunché che media, ma per il fatto stesso di mediare non apparterrà né all’uno né all’altro degli opposti. La soluzione metafisica dell’impasse trovasi nell’invenzione a sua volta opposta e distintiva della causa in esse e della causa in fieri nell’unico Dio del Monoteismo nel suo rapporto col creato. In quanto causa in fieri del creato il Dio lo affida all’ Uomo per la sua propria capacità di conservazione e proliferazione. L’universo ora affidatogli si prosegue nella sua capacità d’intelligenza e replicazione. L’ Uomo si rende autonomo per rispetto al Dio. Ma semmai Dio volesse sottrarre l’Essere all’Uomo e al Creato sarebbe come spegnere una candela e togliere la luce a tutto quel che s’illumina. La continuità ci lega al Dio indissolubilmente, mentre è proprio la discontinuità che ci separa dalla sua eternità e totalità. Presumere una versione ridotta del Dio tranquillizza la monade ma viola lo statuto della Divinità. E d’altronde la continuità del legame con Dio non può non renderci partecipi e succubi della sua volontà fosse anche quella di annientarsi come nel delirio teosofico di Donne.

Inévitable est donc la mort. Ce n’est pas sans raison et sans profondeur que Spencer a vu, dans la roideur cadavérique, et non, comme un esprit plus su­perficiel eût pu le penser, dans l’état adulte, la consommation suprême du développement individuel, son illusoire couronnement. L’état adulte est un équilibre mobile, et, comme le savant transformiste l’a fort bien montré, tout équilibre mobile est un acheminement à l’équilibre seul parfait, au repos. Quand la toupie ronfle, elle aspire à tomber. Par son fonctionnarisme machi­nal, sa centralisation abusive, sa manie routinière, la vie aboutit fatalement à étouffer ce qu’elle étreint. Elle consolide les os, durcit les muscles, les veines, les nerfs eux-mêmes, et, de l’automate qu’elle fait ainsi, au cadavre qu’elle fera demain, il n’y a qu’un pas. Il n’est donc pas vrai, malgré la fausse définition de Bichat, que la vie soit une lutte contre la mort; elle en est la poursuite. – Re­marquons, en passant, à quel point ce résultat, signalé par Spencer (en d’autres termes et dans un tout autre esprit, il est vrai) est contraire à sa thèse favorite, d’après laquelle l’essence de la vie serait une adaptation croissante au milieu extérieur. La preuve que cette adaptation n’augmente pas sans cesse, et doit être considérée comme un moyen momentané, non comme le point de mire de la vie, c’est que le terme définitif et nécessaire de l’évolution vitale, d’après Spencer lui-même, est un état, graduellement amené, où l’être vivant devient impropre à s’adapter, je ne dis pas seulement à de nouvelles circonstances, mais à son milieu habituel. « Qu’appelle-t-on parfait ? Un être à qui rien ne manque », dit Bossuet. On n’imagine pas une meilleure définition du cadavre que cette définition de Dieu, et il y aurait là, si l’on y réfléchit, de quoi justifier l’adoration instinctive et superstitieuse de tous les peuples primitifs pour les corps morts. Vivre, c’est avoir besoin, c’est manquer de tout ce dont on a be­soin ; c’est poursuivre vainement, comme une proie toujours dévorée et tou­jours renaissante, la satisfaction de désirs qui se multiplient à mesure qu’ils se détruisent. Mais la mort met fin à ce cauchemar, elle nous apaise et nous achève, et, au sortir de cet étroit défilé d’étouffements et d’avortements, nous rend à la pleine totalité de notre nature pré-vitale, à l’Être Éternel auquel je ne donne point de nom propre, parce que l’idée de propriété, qui suppose celles de privation, de besoin et de manque, est indigne de lui, et qu’il ne peut rien avoir dès lors qu’il est tout.

Gabriel TARDE (1897)
L’opposition universelle. Essai d’une théorie des contraires

 

[1] Gabriel Tarde (Sarlat, 12 marzo 1843 – Parigi, 12 maggio 1904) è stato un criminologo, sociologo e filosofo francese.

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