L’estensione della glaciazione che in un primo tempo aveva colpito l’Europa (22.000–18.000 anni fa) coinvolse infine anche la Siberia occidentale (18.000-17.000 anni fa), così che l’antichissima cultura di Mal’ta-Buret’ cominciò a disperdersi, modificando la vita dei cacciatori del lago Bajkal, il bacino d’acqua dolce più profondo e grande del mondo.
Ricorda a questo proposito una narrazione popolare: “C’era una volta Bajkal che aveva una figlia amorevole, Angara. Quando arrivò il momento per Angara di sposarsi, Baikal decise di darla in sposa a Irkut. Ma Angara amava già un altro uomo che si chiamava Yenisei.” (G.E. Esipenok, Russian Journal of Physical Chemistry, vol 49/1989, pag.1783). In sintesi: fosse stato per lui, Bajkal avrebbe dato in sposa la figlia Angara (suo unico emissario) a Irkut (affluente di sinistra dell’Angara), ma lei perse la testa per il titanico Yenisei, o Enisej, il fiume più lungo del mondo, e lo seguì.
È possibile che l’uso artistico del linguaggio (cultura di Cro-magnon?) si sia perfezionato proprio in quest’area geografica, cioè in seno alle comunità sciamaniche da almeno trentacinquemila anni al centro dei processi di evoluzione e sviluppo spirituale dell’emisfero settentrionale.
Tuttora nel bacino superiore dello Enisej il tempo sembra essersi fermato, la venerazione degli antenati non ha perso un grammo di smalto mentre continua a fare proseliti il Tengrismo mongolo-siberiano (nella lingua originale Bo Murgel, o Bo, si noti l’assonanza con il termine Bön che definisce il pre-buddhismo tibetano).
Qualunque cosa se ne dica, gli sciamani della «terra dal cielo blu eterno» sono i più potenti del mondo. Guaritori eccezionali, esperti nell’arte delle maledizioni e dei rimedi contro le offese ricevute, agenti in grado di portare a termine la vendetta soprannaturale (kamlaniye) grazie alle indicazioni ricevute da entità spirituali appartenenti ad altre dimensioni (P. Vitebsky, The Shaman: Voyages of the Soul. Trance, Ecstasy, and Healing from Siberia to the Amazon, Duncan Baird Publishers, 2001).
Sembra che il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin si rechi di tanto in tanto a Tuva (Tyva nella lingua nativa) per incontrarli, consultarli e pregare con loro. Chiaramente i rituali sono riservati, ma la rigorosa osservanza della Tradizione praticata da queste parti fa pensare che gli operatori del sacro contemporanei seguano ancora il copione preistorico, con tanto di gesti arcani e canti poetici mirati ad estendere al massimo livello gli organi vocali, fino ad ottenere suoni il più possibile «sovrumani».
Nel passato remoto dell’intera Eurasia il verso cantilenante e la poesia erano unanimemente considerati il mezzo più idoneo a comunicare le cose importanti, e ancora nelle terre orientali si seguono le vecchie regole. Il caso più eclatante è quello dell’attuale capo del Partito-Stato cinese Xi Jinping, colpevole di creare scompiglio nel pollaio mediatico ogni volta che apre bocca, ma ugualmente determinato a descrivere il «sogno cinese» (zhongguo meng) tramite immagini poetiche e sottintesi enigmatici, simboli arcani e metafore.
Un tempo anche gli Europei erano maestri nell’uso del linguaggio ispirato, artistico e creativo, da sempre usato per spiegare prima a se stessi e poi agli altri la complessità del reale. Finché hanno perso la strada nei meandri della neo-lingua orwelliana che parla senza dire nulla di transizione pulita e giusta (?), economia circolare competitiva (?), sovranità tecnologica e prosperità (?), equità intergenerazionale (?), resilienza idrica (?) e altri similari vuoti a perdere. Nel frattempo nessuno sembra dare peso al vero problema di quest’epoca: l’eticità regredisce spianando la strada alla barbarie là dove svanisce l’esperienza come interpretazione poietica del mondo.
3, 5, 8, 12
Viaggiando nella Preistoria è chiaramente impossibile avere tutte le risposte, principalmente perché procedendo sulla strada del progresso/regresso cambiano le domande. Tuttavia non ci vuole un indovino per immaginare la perdita di alcune caratteristiche originarie da parte dei primi esuli Siberiani e Nordatlantici, né un investigatore per rintracciare le nuove identità assunte da costoro nel corso degli irradiamenti successivi.
In rapporto allo spazio ciascun gruppo sociale capitalizzò chiaramente a modo proprio l’eredità polare ricevuta dai primi Sapiens; da qui le varie incomprensioni non solo in ambito linguistico, ovvero culturale, ma addirittura riguardo ai numeri che in teoria avrebbero dovuto trovare tutti d’accordo, e invece eressero un muro d’incomunicabilità tra chi andò avanti ad elaborare i dati a livello spirituale e chi seguì Cartesio con la sua reductio scientiae ad mathematicam.
Un’interessante terza via venne aperta dai Cinesi, i quali unirono il «pensiero magico» al «pensiero razionale», una scelta favorita dal fatto che la cosiddetta «realtà» era una rappresentazione imperfetta (Liu Xie, Il tesoro delle lettere: un intaglio di draghi, Luni editrice, Milano, 1995). Da strumento cognitivo i numeri divennero così uno strumento poietico in grado di spiegare qualsiasi cosa, persino la Storia dell’Universo attraverso la sequenza numerica 1,2,3:
1 – in un tempo talmente lontano da essere quasi inimmaginabile l’Uno perse la sua integrità, così che il rotondo (la volta celeste) e il quadrato (la solida materia terrestre) si separarono, formando il Due;
2 – quindi il nero (il profondo buio cosmico) e il giallo (il pulviscolo interstellare) mescolarono i propri fluidi nello spazio superiore mentre il Sole e la Luna vegliavano sulla formazione dei monti e dei fiumi, che andarono a distribuirsi ordinatamente sulla superficie della Terra;
3 – a quel punto l’essere umano unì le forze materiali a quelle spirituali, e ritagliandosi una particina in seno alla grande opera di creazione introdusse il Tre.
Nacque probabilmente da simili riflessioni la teoria dei Tre Poteri Sacri, Tien-ti-jen, dai quali sarebbe partito il Grande Inizio, generato dalla triade «terrestre» (Cielo, Terra, Uomo) sotto la supervisione della triade «celeste» (Sole, Luna, Venere). Ma certo una volta eretta la struttura andava rivestita, sicché addosso alla triade vennero cuciti 5 abiti corrispondenti alle 5 fasi elementari dello Zodiaco (wi xing).
Il primo materiale utilizzato fu il Legno (l’etica) che produsse il Fuoco (i costumi); la cenere del Fuoco nutrì poi la Terra (la devozione), che a sua volta accolse nel proprio seno il Metallo (la giustizia); scorrendo nelle vene sotterranee il Metallo incontrò l’Acqua (la saggezza), la quale sviluppò il Legno necessario a ricominciare tutto daccapo.
Le formichine laboriose che misero a punto la sequenza sopra descritta vissero presumibilmente nella gloriosa Età degli Eroi, o Dvapara Yuga (dal 19.500 al 13.000 a.C. circa). Difficilmente avrebbero saputo resistere alla tentazione di inserire dei protagonisti leggendari nella mappatura dell’universo, infatti non ci provarono. Presso le tribù post-diluviane dislocate nel nord-est dell’attuale Cina si diffuse così il racconto dell’incivilimento portato a termine da 8 sovrani (3 augusti + 5 imperatori), ai quali andò il merito di avere contribuito allo sviluppo culturale degli esseri umani, da loro stessi creati (spiritualmente) di sana pianta.
Verosimilmente queste figure semi-divine furono il risultato della fusione di personaggi reali (antichi civilizzatori e saggi capi di varie etnie) e personaggi mitici ai quali vennero attribuite l’introduzione delle regole sociali, la pesca, l’allevamento degli animali, l’agricoltura, la medicina tradizionale, l’arte della ceramica e la scrittura. Ingenue fantasie maturate all’interno di comunità incolte? Visioni elementari di cui l’Era tecnologica può tranquillamente fare a meno? Forse.
Ma-tzu: «Non sforzarti di seguire le orme dei maestri: cerca ciò che essi cercavano»
Tristo è quel discepolo che non avanza il maestro, disse un giorno Leonardo da Vinci. Qualche millennio prima c’erano già arrivati i Cinesi, i quali lavorarono sodo per appropriarsi degli insegnamenti impartiti dagli 8 sovrani, li misero a frutto e li difesero strenuamente, resistendo nel corso del tempo ad ogni trasformazione.
Fino a non molto tempo fa da quelle parti persino la costruzione di una semplice casupola avveniva nel pieno rispetto delle istruzioni ricevute dai Maestri, ovvero secondo le «regole cosmiche»: base quadrata (la Terra) sormontata da una cupola di forma più o meno emisferica (il Cielo). Talvolta la base «terrestre» era ottagonale, nel senso che il soffitto appariva sorretto da otto pilastri che simboleggiavano le 8 direzioni percorse dalle 8 «vibrazioni creatrici», o frequenze (secondo la perduta scienza sonico-vibrazionale), provenienti dalla periferia dell’Universo.
Questi influssi avrebbero agito sulla Terra per mezzo di 12 armoniche principali, le stesse che entreranno più tardi nella Tradizione Solare eurasiatica, e di conseguenza nella concezione divina del mondo (Gottesweltanschauung). Da qui la costruzione di un sistema sociale strutturato, gerarchizzato e ordinato dal 12, il numero della «buona armonia cosmica», cioè il collante tra Spirito e Tecnica secondo la cultura indoeuropea.
Quanti oggi considerano i numeri-concetto anacronistici, tengano presente che l’idea di algoritmo è puramente intuitiva e tuttora, a parte alcune applicazioni tecniche, manca una sua definizione formale. Il vertice della piramide sociale ne è perfettamente consapevole, mai si sognerebbe infatti di abbandonare la sapienza arcana. Cose da poveracci.
Molti esempi potrebbero essere fatti a tale proposito, ma poiché siamo in tempi di guerra uno basta e avanza: l’Unità 8200 delle forze armate israeliane, esperta in segnali elettromagnetici (SIGINT) ed elettronici (ELINT), cioè nata per condurre la guerra cibernetica. Questo apparato bellico è una trasformazione dell’Unità 515, il cui nome allude al numero-simbolo della «guerra definitiva». Un’idea presente in molte tradizioni, da quella ebraica e quella indiana.
In genere si ricorre alla potenza del 515 quando si desidera visceralmente eradicare qualcosa o qualcuno di troppo, come fece Dante nel Purgatorio (XXXIII 40-45) invocando l’arrivo di un tempo (o congiuntura astrale) in cui la giustizia divina si sarebbe imposta inviando il “cinquecento diece e cinque” a uccidere la puttana (la curia romana) e il gigante (la monarchia francese) che trafficava con lei.
Ognuno tiri le conclusioni che meglio crede; ma è chiaro, tornando alla Cina dalla quale siamo partiti, che i numeri-concetto corroborano lo spirito ma da soli non bastano a conseguire la vittoria finale. Il loro potere simbolico è immenso, trattandosi di realtà materiali prodotte da proiezioni di realtà immateriali, ciò nonostante ci vuole «altro» per averla vinta.
Nel caso specifico la Cina gode di un’invidiabile posizione geografica, come osservò a suo tempo il generale austriaco Jordis von Lohausen. “Fra tutti i subcontinenti dell’Eurasia, la Cina occupa la posizione strategica più forte: la triplice copertura delle montagne e dei deserti dell’Asia interiore, la corona delle isole periferiche e la barriera insormontabile della razza, della lingua e della scrittura che si erge contro ogni guerra psicologica delle nazioni bianche (…) la natura l’ha posta vicino all’oceano, le ha dato una posizione decisiva tra l’India e il Giappone, tra la Siberia e il Pacifico. Sulla costa occidentale del Pacifico, la Cina si presenta come il baricentro naturale, il centro fisso da sempre. Tutte le questioni relative all’equilibrio mondiale trovano risposta a Pechino. (…) I tentativi di una presa di potere economica o militare non possono nulla contro di essa, poiché la sua estensione è troppo vasta. È di un’altra razza e di una cultura antica, molto più antica. Ha accumulato in sé tutta l’esperienza della storia del mondo e resiste ad ogni trasformazione. Essa è inattaccabile” (J. Lohausen, Les Empires et la Puissance, La géopolitique aujourd’hui, Paris, 1996).
Cambiare dentro
Va detto che il paese più bello del mondo non ha mai impedito al suo popolo di spingersi altrove. Cosa c’è oltre la siepe? Mari, montagne, deserti, fertili pianure? Quali risorse, uomini, usi e costumi? Simili domande mettono in secondo piano il ricordo dell’epica sulla quale fino al giorno prima poggiava l’unità del gruppo; a quel punto i più giovani reclamano una nuova visione, o filosofia, mentre gli audaci cominciano a pensare in grande, ovvero a ragionare in termini «di Mare» anziché «di Terra» (R. Thurnwald, Die menschliche Gesellschaft in ihren ethno-soziologischen Grundlagen, 5 B, de Gruyter, Berlino 1931-34).
Nessun nucleo umano dotato di un minimo di organizzazione sociale è mai sfuggito al desiderio (diventandone schiavo) di «esportare se stesso». Si spiegano così le mille analogie presenti tra tradizioni geograficamente, etnicamente e culturalmente lontane; per esempio il cerimoniale imperiale cinese per l’aratura, quasi identico al «campo delle tre arature» impresso da Omero sullo scudo di Achille e gemello della festa anglosassone del «lunedì dell’aratro».
Somiglianze inequivocabili emergono dal rituale primaverile cinese del toro, certi riti di Creta e dell’antico Egitto. Non mancano parentele tra il simbolismo orientale degli uccelli, in particolare dell’oca e del cigno, e quelli occidentali. Alcuni strumenti musicali di fattura caucasico-andina sembrano usciti da un laboratorio indo-germano-ellenico, per non parlare della comune conoscenza del ciclo aritmetico e delle note musicali.
L’essere umano non si stancherà mai di esplorare in lungo e in largo la Terra, per dimensioni e per massa considerato un pianeta di media grandezza all’interno del Sistema Solare, e molto spesso il suo girovagare ha trovato nel Mare un prezioso alleato.
Oltre il Grande Oceano
Narra il Nihongi, uno dei più antichi testi giapponesi, che durante la mitica Età degli Dèi uno di essi, tale Ho-ho-demi no Mikoto, entrò in un contenitore impermeabilizzato e discese sul fondo del mare. Questa specie di sottomarino lo condusse prima su una bella spiaggia e poi al palazzo del Dio del Mare, un edificio splendidamente adorno di torri e bastioni imponenti.
A parte qualche comprensibile pennellata stilistica, è interessante la provenienza geografica di questo racconto, il Giappone, un paese letteralmente circondato da strutture megalitiche sommerse. Si pensi alla misteriosa «piramide di Yonaguni», sprofondata nel braccio di mare che separa il Giappone da Taiwan e affine per certi versi ai templi messicani di Teotihuacan. Oppure a Kerama, Aguni, Chatan e ai tanti resti di costruzioni ciclopiche addormentate sul fondo del Pacifico.
Quale antichissima civiltà li ha progettati? Da dove venivano i costruttori della Porta del Sole di Tiahuanaco? Chi era il dio-civilizzatore immortalato sul rilievo centrale, con due scettri in mano e l’aspetto serpentino? Quale significato attribuire alle 48 figure alate (sciamaniche) che lo accompagnano, di cui 32 con volto umano e 16 recanti la testa d’uccello?
Non suscitando alcun interesse di ordine economico, l’archeologia viaggia a rilento e perciò il libro della preistoria dell’uomo è fermo ai primi capitoli. Ancora incerta è l’origine dei Nativi americani (NA), alla quale contribuirono non soltanto gli esploratori provenienti dalla Siberia e dal Nordatlantico, come testimoniano alcuni parallelismi tra il lignaggio del DNA mitocondriale (mtDNA) D4h3a (tipico dei NA) e D4h3b, trovato finora solo in Cina e Tailandia.
Tutto fa pensare che le fonti materne ancestrali dei NA appartengano a un’area genetica ben più vasta di quanto inizialmente ipotizzato, ovvero a uno spazio geo-storico dilatato che va dagli antenati degli Jōmon a varie popolazioni dell’Asia Centrale, Cina in testa [immagine 2].
In particolare sul D4h sembrano avere influito almeno due grandi eventi di radiazione: uno durante l’ultimo massimo glaciale (circa 20mila anni fa) e l’altro in fase di deglaciazione (circa 14mila anni fa). Questi rami principali hanno causato la dispersione di sotto-rami D4h in diverse aree, tra cui appunto l’arcipelago giapponese e le Americhe (fonte: Li et al., Mitogenome evidence shows two radiation events and dispersals of matrilineal ancestry from northern coastal China to the Americas and Japan, https://doi.org/10.1016/j.celrep.2023.112413).
Indubbiamente gli innesti non sarebbero stati possibili se l’Oceano Pacifico in tempi preistorici fosse stato come oggi una liquida immensità. Invece una miriade di terre emerse rendeva questo spazio marino facilmente navigabile, ragione per cui è facile imbattersi in parentele culturali come quelle rilevate tra lo sciamanesimo delle tribù native e certe forme tradizionali proprie delle popolazioni mongolidi dell’Asia centrale, di Tibet, Manciuria, Corea, Cina pre-buddista e Giappone shintoista.
Un motivo in più per far partire qualsiasi valutazione del presente dall’Inizio, cioè dalla preistoria, non tanto per questioni metodologiche quanto più per riportare a casa nelle rispettive vite le persone che male sopportano gli Anni della Fine.
L’affermazione non vuole essere un invito ad abbracciare lo spirito di astrazione ereditato dalla filosofia greca, che ha ricondotto al paradiso platonico delle idee «l’uomo di tutti i tempi e di tutti i paesi», chiaramente mai esistito, ma va letta come un suggerimento a non farla più grande di quello che è. Tempo perso, le cose cambiano, come sempre sono cambiate.
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