Non è come se il pianeta terra fosse tutto?
Non è come l’aria, leggera e imprendibile, presenza e assenza colui che mostra sensibilità insolita, che pone cure e attenzioni dove non ci eravamo mai posati, se non magari, per ragioni diverse, financo opposte? Non è come l’aria colui che non sta in un’agenda, in un orario, in una promessa? Non è aerea certa sconsiderata libera creatività? Non lo è l’impossibilità di reggere il fardello della vita rinchiusa nelle norme?
Non è come la terra, ferma, pesante, solida, rassicurante colui a cui ci riferiamo per trovare o dare consistenza al nostro incedere? E non è come la terra colui che osserviamo immobile nel suo vivere, nervosamente allergico a ciò che già non c’è, intollerante nei confronti di chi a lui non conviene? Non è terrea certa continuità, certa allergia al mutamento? Non lo è l’inettitudine a comprendere il mondo estraneo alle categorie e classificazioni in cui si riconosce?
Non è come l’acqua, penetrante, apparentemente inconsistente, profondamente ostinata e spietata, volatile da aerea a materica colui che sembrava qui ed invece era là? Che, debole, facilmente si fa mettere dove si preferisce, e imprevedibilmente sta dove non avremmo creduto? Sempre pronto ad annunciare ciò che non avevamo sospettato? Non è liquido il suo peregrinare per tutti i luoghi? Non lo è il suo mutare nel viscido e nel falso, quando spirito e forza d’animo non lo sorreggono?
Non è come il fuoco, devastante e inavvicinabile colui che sembra procedere come un panzer su un praticello, qualunque siano gli ostacoli che si frappongono al suo avanzare? Colui che senza intenzioni specifiche tiene distante o, incomprensibilmente, si lascia avvicinare? Non è focosa l’esuberanza, eruzione delle proprie convinzioni? Non lo è la sua costrizione a rogo compiuto?
Non è come un rinchiuso in se stesso colui che deride ciò che, a suo dire, non è scienza? Per esempio l’astrologia, l’alchimia, l’ermetismo, lo zen, la conoscenza estetica e perciò quella delle tradizioni sapienziali elaborate dagli uomini nel corso della storia, alle quali bisogna aggiungere quelle preistoriche? O erano stupidi perché non avevano studiato? Crederli tali, non è come misconoscere le culture altrui ed eleggere la nostra? Come affetti dall’ identificazione con il procedere tecnologico, grave patologia endemica della cultura materialista?
Così avanzando non è perciò considerarsi indipendenti dal mondo, perfino superiori e anche detentori? Non è credere di essere veramente l’io con cui ci descriviamo e descriviamo gli altri? Ovvero non è come essere impediti dal riconoscere il profondo significato della caducità del proprio pensare e fare? Non avanzare a petto in fuori sulla sottile domopaktica superficie che avvolge il cosmo, credendo che nulla esista oltre ad essa?
Non è tragico, esiziale e mortifero ciò che ne deriva, verrebbe da domandarsi e da credere. Ma che altro fare, dove altro andare con questo uomo, con questa cultura se non sotto la gogna in cui ci troviamo?
Osservare lo stato delle società odierne, non ci basta per porre freno al sistema che ci ha condotti nello stato malato in cui versiamo. La politica procede salariata da coloro che desiderano e realizzano lo stato delle cose. La democrazia gode ancora dell’incredibile presenza sulle bocche dei fautori di guerre, censure, restrizioni indebite, abusi di potere, minacce, controllo, ricatti, media avvelinati.
L’uomo, che sempre con qualcosa si identifica per sentire esistere se stesso, ha ora modelli che nulla hanno a che vedere con ciò che lo salverebbe dal male suo e da questo provocato ad altri. Se il potere più forte dell’educazione sta nell’esempio, ciò a cui assiste, ciò in cui è immerso, indipendentemente dai discorsi intonacati di giustizia, uguaglianza, solidarietà, sviluppo, ambiente, non potrà che formare uomini-stampino, il cui valore consisterà nel replicare la cultura del domopak.
Populisti sono detti coloro che, senza doti culturali, ma con grave malessere, reagiscono alla rotta della politica, sfiduciano in un crescendo wagneriano le élite, disertano le urne, cioè il fu primo diritto democratico, denunciano i denari spesi per la guerra e sottratti ai servizi sociali, condannano la sequela di privatizzazioni, non si sentono più italiani, vorrebbero scendere, andarsene via perché nonostante la quantità che sono, la loro voce non è considerata. Vorrebbero aprire gli occhi ai divanisti del covid, ma per la paga si sentono dire che le morti crescenti non esistono e nulla hanno a che fare con l’intruglio imposto.
Se politicamente bisogna parlare di malato terminale, privatamente, come nei frattali, la medesima metastasi si mostra identica. Violenza, insofferenza, disoccupazione, omicidi, superficialità, stragi non sono eccezioni ma costanti e crescenti. Come costante è l’indifferenza con la quale, assuefatti, sempre meno si reagisce, sempre meno ci si aggrega. E quando invece lo si fa o si prova a farlo, il rischio di creare un atollo, un ashram in cui darsi del bravo l’un l’altro, è piuttosto alto. La disgregazione pare compiuta se, non solo affligge il domopaktiano e il divanista, ma anche coloro che di questo stato delle cose vorrebbero farne un falò.
Non c’è un nuovo Orwell per far passare la guerra come un’industria, il consumo come buona morale, il popolo come un problema.
Visto il precipitare umanistico-politico, non solo pare illusorio poter porre qualche freno, ma, simbolicamente interpretato, sembra il segno di un destino al quale non possiamo sottrarci, nel quale dobbiamo transitare, forse, e questa è la speranza, per arrivare alla fine e perciò a una rinascita che ci possa fare recuperare ed eleggere il sogno della bellezza, che possa estinguere l’incubo in cui versiamo, in cui la falsa conoscenza storica tecno-scientista ha obnubilato quella simbolica delle allegorie universali.
lorenzo merlo ekarrrt – 180924
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