Tra le serie di articoli che ho pubblicato su “Ereticamente” con cadenza settimanale in un arco di tempo ormai non breve, dopo Una Ahnenerbe casalinga-L’eredità degli antenati, le due più ampie e longeve sono state Narrativa fantastica, una rilettura politica ed Ex Oriente lux, ma sarà poi vero? Con un singolare parallelismo, dal momento che la cosa non era affatto programmata, mi è capitato di chiudere, almeno temporaneamente, entrambe le serie a 35 articoli.
È poi successo che ho aggiunto a Narrativa fantastica, una rilettura politica un trentaseiesimo, e più recentemente un trentasettesimo articolo, dedicato a George Orwell, rendendomi conto che sull’autore di 1984 c’erano ancora parecchie cose da dire.
Poiché sono uno che ama le simmetrie, vedrò ora di ristabilirla almeno parzialmente fra le due serie con un nuovo articolo dedicato alla questione della presunta luce da Oriente.
Cominciamo quanto meno col riepilogare tutta la faccenda.
Se esaminate un qualsiasi testo di storia, dalle elementari all’università, e ci aggiungete anche quello che raccontano i libri di divulgazione e i programmi divulgativi che compaiono spesso in televisione, vedete che ci raccontano tutti la stessa storia che in effetti è né più né meno che “la verità” ufficiale al riguardo, la vulgata ortodossa sulle nostre origini, almeno su quelle della civiltà, lasciando ora da parte quella delle nostre origini come specie, sul che, sappiamo ci sarebbero anche parecchie cose da dire. La civiltà sarebbe nata in Egitto e in Medio Oriente nella cosiddetta Mezzaluna Fertile, e solo tardivamente e progressivamente si sarebbe estesa all’Europa.
È un modo di presentare le cose che, sebbene ripetuto fino alla nausea, si discosta parecchio dalla realtà, che ignora deliberatamente i grandi complessi megalitici europei, l’incontestabile priorità dell’Europa nell’invenzione della scrittura (tavolette di Tartaria), nella lavorazione dei metalli, nella misurazione del tempo, nell’allevamento bovino.
Io penso che ciò non sia affatto casuale, ma risponda a un preciso disegno politico che ha lo scopo di immiserire l’idea che gli Europei hanno di loro stessi, al fine di favorire la sostituzione etnica in atto diminuendo le resistenze psicologiche a essa.
Io mi sono permesso una garbata polemica con l’amico Silvano Lorenzoni, che oggi uno degli intellettuali “nostri” più interessanti. Lorenzoni identifica l’ex Oriente lux puramente e semplicemente con il cristianesimo. Ora, è innegabile che il cristianesimo abbia contribuito non solo a svellere gli Europei dalle loro antiche radici, ma ad attribuire al Medio Oriente e alla Palestina da cui questa religione è venuta, una presunta centralità, ma la faccenda è un tantino più complessa di così.
Potremmo dire che il fascino dell’Oriente che l’attuale narrazione “storica” tende a blindare contro ogni evidenza, si fonda su suggestioni molto antiche.
Quando i Romani cominciarono ad abbandonare i culti tradizionali, li sostituirono con quelli di esotiche divinità venute da oriente, i culti di Iside e Mitra, e all’inizio il cristianesimo non era che uno di essi, prima di essere imposto manu militari, cioè con una brutale violenza su cui oggi gli storici sorvolano alla grande, dagli imperatori rinnegati Costantino e Teodosio, ma già prima di allora era parso loro di nobilitarsi inventandosi un’inesistente radice in oriente, pretendendo di discendere dai troiani di Enea, cosa che a parte la poesia di Virgilio, non trova il minimo appiglio storico né archeologico.
Un’importante rivoluzione culturale fu introdotta dai linguisti tedeschi del XIX secolo. Costoro scoprirono che le lingue parlate in Europa (con poche eccezioni, l’ungherese, il finlandese, il basco) sull’altopiano iranico, in India, erano riconducibili a una radice comune, scoprirono un contesto etnico-storico rispetto al quale l’ebraico della bibbia, che è di ceppo semitico, risultava estraneo. Per la prima volta si metteva in crisi la narrazione (pseudo)storica basata sulla bibbia.
Tuttavia, commisero un errore fondamentale. Va da sé che all’indoeuropeo primordiale, anteriore a tutte le suddivisioni che si sono verificate in seguito, alla Ursprache indoeuropea, debba corrispondere un popolo originario, un Urvolk che deve aver abitato una patria originaria, una Urheimat.
L’indoeuropeo si divide in un ceppo occidentale che comprende il latino e le lingue neolatine, il greco, i linguaggi germanici e celtici e un ceppo orientale che comprende le lingue slave e quelle indo-iraniche. Queste due ramificazioni sono anche dette del centum e del satem, secondo la forma tipica che vi assume il numerale cento.
Poiché il sanscrito, la lingua in cui sono scritti i Veda, i testi sacri della religione indù sono i testi più antichi conosciuti redatti in una lingua indoeuropea, essi fecero l’errore di ritenere il sanscrito il più vicino all’indoeuropeo originario, e che per conseguenza, l’Urheimat indoeuropea andasse cercata in India. L’errore, o se vogliamo la deduzione indebita è palese, che il sanscrito sia stata la più antica lingua indoeuropea scritta non significa per forza che esso debba essere stato anche la più antica lingua indoeuropea parlata. Oppure potremmo dire che il miraggio dell’ex Oriente lux, cacciato dalla porta, rientrava in tal modo dalla finestra.
In realtà alla luce dei fatti, tale idea è un’autentica assurdità. Non soltanto l’India sia pure nella sua enorme estensione, è un’area relativamente marginale dell’ecumene indoeuropeo, ma quando gli Aryas vi giunsero, era già fittamente popolata da una popolazione “scura” che parlava e parla tuttora lingue di ceppo dravidico che non hanno nulla a che fare con l’indoeuropeo, e tutto il sistema delle caste pare essere stato concepito per tenere separate le due popolazioni.
Come vi dicevo, le lingue slave appartengono assieme a quelle indo-iraniche, al ramo satem dell’indoeuropeo, il che ci porterebbe a supporre, se prendessimo per buona l’ipotesi dell’origine indiana degli indoeuropei, che all’origine degli slavi vi sia stata una migrazione verso l’Europa orientale dall’India o dall’altopiano iranico. E’ quasi ovvio dire che di una migrazione del genere non si è mai trovata la minima traccia, né archeologica né a livello di antropologia e genetica. E’ invece verosimile esattamente il contrario, che gli Aryas che hanno colonizzato l’altopiano iranico e invaso l’India, fossero una popolazione affine agli slavi, proveniente dall’angolo sud-orientale del nostro continente.
Tuttavia, se andate a consultare Wikipedia, vedrete che le popolazioni precorritrici degli slavi in età antica e loro verosimili antenate, come Sciti e Sarmati, sono regolarmente etichettate come indo-iraniche. Che dire? Wikipedia è una gigantesca summa del sapere, ma anche degli errori e delle scempiaggini della nostra epoca.
Ne è una riprova il fatto che la più antica cultura riconosciuta dagli archeologi come indoeuropea, è quella che hanno chiamato Yamna o Yamnaia, le cui tracce si trovano non distanti dalle sponde del Mar Nero, tra le odierne Romania, Moldavia, Ucraina, Russia meridionale. Con ogni probabilità, l’Urheimat indoeuropea va cercata qui.
Se ci pensiamo bene, lo stesso termine indoeuropeo non è molto appropriato proprio per l’implicita priorità attribuita all’India. Euro-indo-iranico sarebbe più corretto, anche se, fatta questa precisazione, mi atterrò all’uso invalso.
I termini indoeuropeo e caucasico non coincidono, anche facendo la tara del fatto che il primo proviene dalla linguistica, il secondo dall’antropologia per indicare un tipo fisico umano a prescindere dalla lingua parlata. Ma a parte questo, è chiaro che il tipo umano caucasico è qualcosa di più esteso degli indoeuropei sia pure riconosciuti come tali su base linguistica, nella nostra stessa Europa abbiamo popolazioni innegabilmente caucasiche che non parlano linguaggi indoeuropei, Baschi, Ungheresi, Finlandesi, Estoni, Lapponi.
È probabile che in età preistorica l’areale delle popolazioni caucasiche sia stato considerevolmente più esteso di oggi, comprendendo buona parte dell’Asia dove poi sarebbe stato sommerso dall’espansione delle popolazioni mongoliche. Ne sono una testimonianza popolazioni “bianche” sopravvissute ai bordi del grande continente, Daiaki del Borneo, Ainu dell’isola giapponese di Hokkaido. Polinesiani che devono essersi spinti nelle isole del Pacifico a partire dalle coste dell’Asia orientale.
Scusate, ma io toglierei dal mazzo le famose mummie europidi di Cherchen, probabilmente si trattava di Tocari. Questi ultimi, insediatisi in Asia centrale, parlavano un linguaggio non solo indoeuropeo, ma del ramo centum, erano dunque con ogni verosimiglianza il frutto di una migrazione sempre preistorica, ma relativamente tarda.
Per quanto riguarda i Polinesiani, “i vichinghi del Pacifico”, che hanno esplorato e colonizzato le isole sparse in questo immenso oceano fino ad arrivare all’Isola di Pasqua, oggi sono abitualmente collocati assieme ai Malesi nel gruppo maleo-polinesiano, ma già il capitano Cook si era accorto che essi erano spesso di pelle più bianca di quella dei suoi marinai.
Gli Ainu di Hokkaido, la più settentrionale delle isole che formano l’arcipelago giapponese, sono con ogni evidenza il residuo di una popolazione caucasica, gli Jomon, che le abitava in epoca preistorica, e che hanno dovuto man mano cedere ai “nuovi” giapponesi mongolizzati dagli influssi provenienti dal continente.
Tuttavia, e qui faccio un’affermazione ardita di cui sono pronto a prendermi la responsabilità, ho l’impressione che tale mongolizzazione riguardi solo l’aspetto fisico, e che a livello animico il giapponese sia ben altro. Se guardiamo alla cultura nipponica tradizionale, lo “Shinto”, la religione basata sul culto degli dei patri, il rispetto per gli antenati e la figura dell’imperatore, il bushido, l’etica dei samurai, il comportamento eroico fino al sacrificio supremo dimostrato dai kamikaze durante la seconda guerra mondiale, non è difficile sentire in tutto questo qualcosa di paradossalmente più “nostro” rispetto all’attuale cultura europea pesantemente contaminata da elementi semitici.
In una certa misura, un discorso analogo vale anche per la Cina. Nell’iconografia tradizionale cinese, nell’incontro tra Lao-Tze fondatore del taoismo, e Confucio, il primo è rappresentato mentre cavalca un bufalo, simbolo “del sud”, mentre il secondo monta un cavallo che rappresenta “il nord”.
Capite cosa significa questa associazione cavallo-nord-confucianesimo? Nel Celeste Impero militavano come mercenari bande di cavalieri provenienti dal nord, dal Turan, di etnia in massima parte caucasica. Possiamo desumere che Confucio abbia tratto da loro la sua etica fatta di lealtà, senso del dovere, venerazione per gli antenati, amore per la tradizione, che a sua volta ha plasmato l’identità cinese. Non possiamo, come nel caso del Giappone, supporre un’influenza etnica caucasica, ma almeno culturale sì.
Tutto questo per quanto riguarda il Vecchio Mondo, ma le Americhe? Certamente non possiamo presumere un’influenza caucasica alla base delle civiltà precolombiane prima del 1492, oppure invece sì?
Due ricercatori statunitensi, Dennis J. J. Stanford e Bruce A. Bradley hanno avanzato un’ipotesi molto interessante. La più antica cultura litica delle Americhe, la cultura Clovis, non presenta alcuna somiglianza con quelle della Siberia da cui si suppone siano venuti gli antenati degli amerindi, è invece simile a quella europea detta solutreana. I due ricercatori suppongono che i Clovis fossero in realtà cacciatori di origine europea che avrebbero raggiunto le Americhe costeggiando la banchisa artica che nell’età glaciale si estendeva dalla Scandinavia alla Groenlandia, dando la caccia a foche e ad altri animali marini, prima o contemporaneamente all’arrivo degli Amerindi attraverso lo stretto di Bering.
In età storica abbiamo popolazioni “amerindie” stranamente bianche, gli estinti Mandan nell’America del nord, gli Aracani e i Kilmes in quella del sud, per nulla dire dei Chachapoya, i leggendari “guerrieri delle nuvole”. Ai Kilmes, che guarda caso vivono nella zona di Tihuanaco dove si trova uno dei più enigmatici complessi megalitici delle Americhe, ha dedicato molto spazio Gianfranco Drioli nel suo libro Iperborea, la ricerca senza fine della patria perduta.
Ma quella che taglia veramente la testa al toro è la genetica. Le ricerche genetiche hanno dimostrato che un terzo del DNA degli amerindi è riconducibile al tipo antropologico noto come eurasiatico settentrionale, che costituisce l’85 per cento del genoma degli europei.
Noi vediamo che un’impronta caucasica si ritrova alla base di tutte le civiltà, là dove essa non è ipotizzabile, come nell’Africa subsahariana, in Nuova Guinea, nell’Australia aborigena, le popolazioni native non si sono schiodate di un millimetro dal paleolitico.
La preistoria australiana, ad esempio si divide in due periodi, da 50.000 a 30.000 anni fa il periodo degli attrezzi senza manico, e da 30.000 anni fa all’arrivo degli Europei, quello degli attrezzi col manico. Questo ci dà la misura della creatività dell’uomo non caucasico, ventimila anni per inventare il manico.
Se come rischia di succedere oggi a causa di un’immigrazione e di una sostituzione etnica niente affatto casuali, ma pilotate dai poteri forti in Europa e in America, l’uomo caucasico dovesse scomparire, si sarebbe cancellata la parte più intelligente e creativa dell’umanità. Ma stiamo attenti, il polo opposto da contrapporre ai patiti dell’orientalismo non è “l’Occidente”, tanto meno “giudaico-cristiano” e a guida USA, ma l’Europa, Europa che non è la UE, organismo burocratico al servizio del Nuovo Ordine Mondiale, che è l’Europa tanto quanto un tumore è l’uomo che ne è affetto, ma la sua gente, i suoi popoli.
NOTA: Nell’illustrazione, tre classici dell’indoeuropeistica, Religiosità indoeuropea di Hans F. K. Günther, Gli indoeuropei, origini e migrazioni di Adriano Romualdi, La dimora artica nei Veda di Bal Gangadhar Tilak.