Dunque ha vinto ancora lui, il vecchio Donald. Probabilmente è la terza volta consecutiva, tenuto conto dei brogli del 2020. Successo netto, in termini di Stati conquistati e di voti popolari. L’effetto trascinamento consegna ai repubblicani il controllo di Camera dei rappresentanti e Senato. L’elefante sconfigge l’asinello. Fin qui i dati, i nudi fatti, che consegnano al ridicolo i sondaggisti – tutti allineati sul pareggio – e dimostrano il fiuto degli allibratori, che pagavano la vittoria della Harris assai più di quella di Trump.
Un altro dato consolante è il rigetto nel Nord Dakota di una norma che avrebbe inserito l’aborto come diritto nella costituzione dello Stato. Analogo orientamento in un referendum in Florida. Più che un duello destra-sinistra o conservatori–progressisti emerge una volta di più – come nel 2016 – la totale incompatibilità tra popolo e élite. Joe Biden ha definito alcuni giorni fa gli elettori di Trump – la maggioranza degli americani, come si è visto – “spazzatura”. Il solito riflesso suprematista dei sedicenti illuminati, appostati nei quartieri ricchi, nelle università, nel sistema di comunicazione e intrattenimento, schierati come un sol uomo dalla parte del partito che si definisce democratico. Hillary Clinton parlò di “deplorevoli” e perse. François Hollande – che contende a Macron il titolo di peggior presidente della storia francese – definì “sdentati” i suoi avversari. Non porta fortuna disprezzare il popolo a cui si deve chiedere il voto.
E’ la lezione che un’oligarchia autoreferenziale, carica di disprezzo per la gente comune, non apprende mai, troppo convinta della propria superiorità, incapace di accettare l’esistenza stessa di un pensiero alternativo. In questo senso, la vittoria di Trump desta sollievo: un macigno sull’arroganza delle classi dirigenti in entrambe le rive dell’Atlantico. Sollievo, non entusiasmo, ma mille volte meglio il presidente dal ciuffo arancione rispetto a un’avversaria manifestamente incapace, in balia del grumo di potere delle famiglie Obama e Clinton, nonché della cricca guerrafondaia neocons (conservatori del predominio Usa!), sostenitrice dell’ abietta ideologia woke, portabandiera di tutte le peggiori cause che gli Usa esportino nel mondo ( gender, LGBT, bellicismo, cancellazione culturale).
Con Trump alla Casa Bianca e il Congresso a guida repubblicana è probabile una battuta d’arresto, ma non è il caso di abbandonarsi all’entusiasmo. Ha vinto il meno peggio, ma non arriva l’Impero del Bene. Lo slogan trumpiano è chiaro: MAGA, Make America Great Again, rifare grande l’America. Ovvio, per un patriota americano, ma non rassicurante per il resto del mondo. Dei tre scenari imprescindibili per la potenza Usa – trascuriamo il “cortile di casa” centro e sud americano- almeno due non vedranno cambiamenti significativi. In Estremo Oriente la competizione con la Cina si inasprirà (questa fu la politica del primo Trump), mentre in Medio Oriente non è pensabile alcun cambiamento nelle relazioni con Israele. Trump è un amico fidato delle lobby ebraiche e un fiero avversario dell’Iran. Vedremo se la crisi del governo Netanyahu condurrà a più miti consigli la violenza dello Stato sionista sui suoi vicini e se la prudenza prevarrà nella polveriera del Vicino Oriente.
Più complicato immaginare il comportamento del neo presidente nello scenario europeo e rispetto alla guerra Russia- Ucraina, che è in realtà uno scontro tra gli Usa e l’Europa. Prendere atto della sconfitta ucraina e accettare la restituzione alla madrepatria russa dell’est e del sud ucraino potrebbe essere la via giusta, assicurando una via d’uscita al dittatore Zelensky (tale è, poiché in Ucraina non si tengono più elezioni e quasi venti partiti sono stati messi fuori legge) e alla martoriata Ucraina un ragionevole piano di ricostruzione. Difficile, tuttavia, per la prevedibile resistenza del deep State americano e per le pressioni dell’arrogante ex potenza britannica, che fece fallire nel 2022 una pace di compromesso. L’auspicio che corrisponda a verità la promessa fatta a caldo di non iniziare guerre e fermare quelle esistenti.
In più, proprio perché Trump persegue la grandezza americana, tenere l’Europa vassalla è nell’interesse di ogni amministrazione Usa. Capiremo presto se gli scenari asiatici – e le difficoltà nell’ America a sud del Rio Grande- saranno per Trump più importanti del vecchio, servile alleato europeo. Dal punto di vista geopolitico, è arduo immaginare che gli Usa permettano il riavvicinamento naturale tra Europa (ossia soprattutto Germania) e Russia. Forse saranno tenuti a bada i falchi – o falchetti- antirussi in Europa, non fosse altro perché i costi dell’impegno Usa in Europa e nella Nato sono elevati e Trump già nel precedente mandato chiese agli europei di provvedere alla difesa con risorse proprie. Un argomento di peso, tenuto conto che le opinioni pubbliche europee sono contrarie alla guerra e all’aumento delle spese militari.
Quanto alla battaglia culturale in atto in occidente sul piano dei valori civili, è sperabile- ma niente affatto certo- che la presidenza repubblicana riesca a bloccare le derive peggiori. Non osiamo immaginare niente di più. Un altro tema caldissimo è quello delle transizioni promosse dalle oligarchie occidentali, ossia americane. Transizione climatica, alimentare, digitale, sessuale, riunite nella rivoluzione tecnologica, nell’avanzata dell’Intelligenza Artificiale, nel cammino del transumanesimo. Quale sarà il ruolo di Elon Musk, l’oligarca tecnologico schierato con Trump? Difficile immaginare l’abbandono dell’Agenda 2030.
L’ultima riflessione riguarda i numeri, le divisioni della società americana. La Harris supera nettamente Trump nel voto femminile, mentre il repubblicano avanza tra i latinos e vince nettamente nel voto cattolico e protestante. Le analisi approfondite sono premature, a scrutinio appena terminato, ma appare chiara la spaccatura radicale tra due concezioni inconciliabili, quella del progressismo globalista e “dirittista”, prevalente nelle élite, nelle grandi aree urbane, tra le donne in carriera, e quella del radicamento nelle tradizioni civili, etiche, religiose, del popolo. Sempre più, il conflitto è tra alto e basso, centro e periferia. Nullo, purtroppo, il dibattito sul modello liberal liberista. Il conflitto- ancora una volta- è interno al sistema. Stavolta hanno vinto i meno pericolosi, ma non è tempo di esultanza, bensì di prendere slancio nella battaglia sui temi antropologici, civili, economici, finanziari, dalla parte del popolo, delle classi medie e basse, i cui interessi sono opposti a quelli del capitalismo globalizzato tecno finanziario.
La soddisfazione maggiore – i lettori perdonino la malizia- è vedere i volti, le espressioni, le reazioni stizzite, talora inconsulte, dei tifosi di Kamala, qui e in America. Non necessariamente i nemici del mio nemico sono buoni e giusti, ma chi odia The Donald è nemico dei nostri principi e dei nostri interessi. Ci rallegriamo per la sconfitta avversaria più che felicitarci con il vincitore. Piuttosto che niente meglio piuttosto, diceva qualcuno. Piuttosto che Harris, Obama, LGBT, woke, aborto diritto universale, deep State, esportazione armata della democrazia, meglio il ciuffo del vecchio Trump.
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