I Testi delle Piramidi sono produzioni dell’Antico Egitto risalenti all’Antico Regno. Sono scritti in antico egiziano, in un geroglifico molto formale (come l’alfabeto latino “quadrato”), all’interno delle piramidi di re e regine, localizzate a Saqqara, nella necropoli dell’allora capitale Menfi. Risalgono ad un periodo che va dalla fine della V dinastia (con il faraone Unis/Unas) sino all’VIII dinastia (con il faraone Ibi), ovvero dal XXIV al XXII a.C., circa due secoli.
Di solito nelle piramidi vi è un lungo corridoio, alla fine del quale si trova uno spazio quadrato detto Anticamera, con una porta sulla parete a sinistra che introduce in un ambiente detto Serdab; invece, la porta a destra dell’anticamera è la stanza del sarcofago. In tutto questo percorso ci sono formule sulle pareti.
La stanza del sarcofago ha testi principalmente su queste pareti:
- Parete Nord: viene offerto al defunto l’unguento adoperato per la imbalsamazione, probabilmente a base di natron, detto Occhio di Horus, accompagnato con offerte di cibo e consegna delle insegne reali (scettro, abbigliamento, e altri simboli di potere regale). Secondo il mito, l’occhio fu strappato a Horus da Seth ed è il simbolo della distruzione e della morte, quindi quando viene riparato ritualmente è il simbolo della guarigione e della vita.
- Parete Sud: rituale della resurrezione a nuova vita grazie a Nut. Il re risorge a nuova vita grazie al sarcofago, che viene identificato con la dea Nut, che rappresenta il cielo (il Sole segue il suo viaggio per illuminare la terra nel corpo di Nut, così come il sovrano compie il suo viaggio ultraterreno nel sarcofago). Si tratta di formule di risurrezione, nelle quali il re viene riportato nel mondo dei vivi, cioè viene invocato dal sacerdote e quindi risorge, si alza, e viene chiamato a fare presso i morti ciò che faceva presso i vivi, cioè a regnare e giudicare.
- Parete Est: rituale del mattino al sorgere del sole, con formule che ritraggono il rituale quotidiano del Re che si preparava per la giornata e adesso lo compie nel mondo dei morti.
Nel cosiddetto “Inno Cannibale” (formule 273-274, che costituiscono un unico testo coerente contenutisticamente e linguisticamente) abbiamo una delle formule più importanti e più famose tra i testi di resurrezione: il sovrano assorbe le potenze cosmiche per poter entrare nel cielo. In questo inno, al re viene preparato un pasto, fatto di dei, entità e esseri umani. Si potrebbe ipotizzare che un tempo questo uso fosse reale. Nel momento in cui il re defunto entra nel cielo assorbe le energie delle altre entità cosmiche che lo circondano, vale a dire che si nutre di costoro. La formula 273 spiega la preparazione del pasto, la 274 affronta tematiche più specifiche relative al pasto.
Sembra essere un testo particolarmente antico: mancato riferimento a Osiride; tra gli dei maggiori indicati c’è Atum come padre del defunto, c’è Gebb come dio terra e c’è Orione come protettore del re e padre degli dei. Linguisticamente ci sono forme arcaiche: il pronome pw, che normalmente si usa nelle proposizioni nominali (PPN) ed è indeclinabile, lo troviamo nell’Inno Cannibale nella versione arcaica pj; c’è una forma passiva, che è una sDm=f passiva con reduplicazione dell’ultima radicale. Questi elementi collocano la stesura dell’Inno in un periodo molto arcaico, precedente a quello nel quale Eliopoli divenne capitale dell’Antico Regno. Nell’Inno si fa riferimento a jw nsjsj, “isola dell’avvampamento”, una realtà geografica dell’oltretomba egiziano, che secondo Sethe rimanda a una origine ermopolitana del testo. Alcuni ritengono che l’Inno Cannibale sia il più antico Testo delle Piramidi dall’origine (orale) addirittura preistorica, quando vi era la pratica del cannibalismo.
Ecco il testo in egiziano di quasi tutta la formula 273. Il tenore del resto dell’Inno è lo stesso, quindi lo saltiamo. Basta quanto riportato per mostrare di cosa parla:
273
- 393a gp pt jḥjj sbAw
- 393b nmnm pḏwt sdA qsw Akrw
- 393c gr r.sn gnmw
- 394a mA.n.sn NN ḫ‘ bA
- 394b m nṯr ‘nḫ m jtw.f wšb m mjwwt.f
- 394c NN pj nb zAbwt ḫm.n mjwt.f rn.f
- 395a jw špsw NN m pt jw wsr.f m Aḫt
- 395b mr tm jt.f ms sw
- 395b jw ms.n.f sw wsr sw r.f
- 396a jw kAw NN ḥA.f jw ḥmwswt.f h̠r rdwj.f
- 396b jw nṯrw.f dpj.f jw jarwt.f m wpt.f
- 396c jw sšmwt NN m ḥAt.f ptrt bA Aḫt nṯb.s
- 396d jw wsrw NN ḥr mkt.f
- 397a NN pj kA pt nhd m jb.f anḫ m ḫpr n nṯr nb
- 397b–c wnm wzmw.sn jww mḥ h̠t.sn m ḥkAw m jw nsjsj
- 398a NN pj apr jab Aḫjw.f
- 398b jw NN ḫa m wr pw nb jmjw-jst-awj
- 398c ḥms.f sA.f jr gbb
- 399a NN pj wḏa mdw.f ḥna jmn rn.f
- 399b hr pw n rḫs smsw
- 399c NN pj nb ḥtpt ṯAz aqA
- 399d jr Awt.f ḏs.f
- 400a NN pj wnm rmṯ anḫ m nṯrw
- 400b nb jnw ḫAa jpwt
- 401a jn j.ḫma jpwt jmj kḥAw spḥ sn n NN
- 401b jn ḏsr-dp zAA n. f sn ḫsf n.f sn
- 401c jn ḥrj-ṯrwt qAs n.f sn
- 402a jn ḫnzw mds nbw ḏAd.f sn n NN
- 402b šd.f n.f jmjt h̠t.sn …
Traduzione.
- Il cielo (pt) si rannuvola (gb), le stelle si oscurano
- Tremano gli archi (del cielo), tremano le ossa (qsw) degli Akeru
- Tacciono dunque i viventi
- Dopo che hanno visto il re (NN) sorgere e nella condizione di Ba
- In qualità di dio vivente nel numero dei suoi padri e nutrito dalle sue madri
- Il re (NN) è il signore della sapienza, sua madre ha ignorato il suo nome
- La nobiltà del re è in cielo (m pt), la sua potenza è nell’orizzonte
- Come (mr) Atum padre suo (jt.f) che lo ha generato (ms sw)
- (Atum) lo ha generato (ma) il re è più potente di lui (wsr r.f, comparativo)
- I Ka di NN sono intorno a lui, i suoi feticci sacrali sono sotto i suoi piedi (rdwj, duale)
- Gli dei del re (NN) sono sulla sua testa, i suoi urei sono sulla sua fronte
- I serpenti guida del re (NN) sono nella sua fronte che guarda (ptrt) il Ba dell’orizzonte che brucia essa (nṯb.s, participio con pronome)
- La potenza del re (NN) sta sopra il suo busto
- Il re (NN) è il toro del cielo fremente nel suo cuore, vivente della manifestazione di ogni dio
- Mangiante le loro viscere dopo che sono venuti mentre il loro ventre è pieno di magia nell’isola dell’avvampamento
- Il re (NN) è equipaggiato, uno che ha unito (a sé) la sua gloria
- Il re (NN) è apparso come (m) quel grande (pw qui ha valore di deittico e non di copula) signore di aiutanti (jmjw-jst-awj)
- Egli siede e la sua schiena (è) verso Gebb
- Il re (NN) sta in giudizio con colui il cui nome è nascosto (jmn)
- Quel giorno in cui (hr pw n) si macella Semesu
- Il re (NN) è il signore dell’offerta e lega la corda (la quale porta gli animali al sacrificio)
- (Il re) è uno che fa (jr: participio sostantivato del verbo “fare”) la sua offerta di cibo da solo (ds.f= “lui stesso”, quindi “da solo”)
- Il re (NN) è uno che mangia (wnm) uomini e vive (ank) di dei (m strumentale) (cioè: si nutre di dei)
- (Il re) (è) signore dei portatori di messaggi e assegnatore (ḫAa) di compiti
- (E’ proprio) colui che afferra (j.ḫma) le fronti (jpwt), che è nella stanza (jmj) della caldaia (kḥAw), che prende al laccio loro (sn) per il re (NN)
- (E’ proprio) colui dalla testa dritta che fa la guardia a loro (sn) per lui (il re) e che respinge loro per lui
- (E’ proprio) colui che si occupa del sangue (il macellaio) che lega loro per lui
- (E’ proprio) il dio Kensu che taglia i signori (gli dei) e che li infilza per il re
- Estrae per lui le interiora loro …
Breve commento.
Il verbo gb, “rannuvolare”, che, come sostantivo, significa “nuvola”, potrebbe essere una sDm=f (“si rannuvolerà”), oppure potrebbe tradursi come una pseudo-verbale (che nell’antico egiziano si confonde con la sDm=f, cioè “si sta rannuvolando”), oppure potrebbe essere uno stativo (che se si trova in posizione iniziale perde le desinenze, “si è rannuvolato”). Il re prima di essere introdotto nel cielo scatena fenomeni atmosferici estremi.
Il verbo nmnm ha l’elemento radicale raddoppiato, si tratta quindi di un verbo iterativo, esprime una azione che viene fatta più volte: qualcosa continua a tremare, a oscillare. “Archi” (pḏwt): per gli antichi egizi il cielo viene visto come una calotta concava sostenuta da archi. Akeru sono divinità serpentiformi che dominano la terra, quindi si potrebbe pensare che stiano tremando le rocce, viste come le ossa della terra.
R.sn è preposizione r + pronome sn, “a loro”, che vale anche “in quanto a loro”, “relativamente”, ma pure “invero, dunque”. Gnmw è participio: “i moventi, i mossi, coloro che si muovono”, cioè i viventi.
Il verbo mA.n.sn, “loro videro”, è una sDm.n=f subordinata, da rendere con una proposizione temporale. Il verbo ḫ‘, “sorgere”, esprime una temporale: “dopo che hanno visto il re dopo che è sorto”, che si può meglio rendere in traduzione con un infinito. Stesso discorso per il verbo bA. I verbi ḫ‘ e bA sono due stativi con omissione della desinenza –w, tra di loro coordinati. Il Ba è una parte dell’anima, quella in grado di poter viaggiare nell’oltretomba (geroglifico della cicogna), invece il Ka è la forza vitale, il doppio animico.
C’è una m di stato, “in qualità (m) di dio”. il sostantivo jtw.f, “padri suoi”, ha uno yod prostetico, tipico dell’egiziano antico. Il verbo wšb è un participio passivo, “nutrito”. Potrebbe essere anche uno stativo (questo spiegherebbe perché non c’è il complemento di agente espresso da n): “…e è nutrito dalle sue madri”.
“Il re è il signore (nb)”: è una proposizione nominale, ma in prima posizione non vi è il predicato nominale bensì il nome del re, la parte più importante dell’enunciato (come spesso accade in antico egiziano). Nb ha anche il valore di prefissoide, che si traduce con “dotato di”, quindi si potrebbe tradurre anche: “il re è dotato di sapienza”, “il re è sapiente”. Anche in arabo e ebraico, dove però il prefisso è rab-, “dotato di” (rabbino significa “signore”).
La forma ḫm.n può essere una sDm.n=f (“ha ignorato”) oppure un participio compiuto passivo con agente (“ignorato da”). Originariamente la sDm.n=f era un passivo con agente (espresso da n) che poi si è trasformata in una forma finita. Se è participio: “ignorato da sua madre il suo nome”; se è sDm.n=f: “sua madre ha ignorato il suo nome”. Se lo intendiamo come un participio, c’è una grande differenza tra le lingue afroasiatiche (come l’egiziano, l’arabo, l’ebraico, e così via) e quelle indoeuropee (come l’italiano). In italiano abbiamo il participio attivo (il mangiante il cibo) e passivo (il cibo mangiato), invece nelle lingue afroasiatiche il participio può essere usato in un terzo modo: come obliquo. Il mangiante (attivo, la persona che compie l’azione), il mangiato (passivo, la persona che subisce l’azione), ma c’è anche la persona con cui si condivide il mangiare (è il participio obliquo). “Ignorato da sua madre il suo nome” è un participio obliquo, che si traduce meglio in italiano: “il cui nome è ignorato da sua madre”. Il fatto che il nome del re è ignorato è un segno di potenza, di mistero, di grandezza: la madre è la persona che meglio conosce il figlio, quindi il nome è talmente segreto da essere ignorato anche da sua madre. Presso gli egiziani la madre dava un nome pubblico e un nome segreto, quest’ultimo conosciuto solo dai due. Nelle città antiche c’erano due nomi, quello pubblico e quello segreto, quest’ultimo non è conosciuto per protezione. Conoscere il nome significa avere potere su qualcuno. Nelle maledizioni si usava il nome della persona per fare il maleficio.
La parola špsw significa di per sé “nobili”, ma ha anche un altro significato: “nobiltà”, in quanto la –w non serve solo per formare il plurale ma anche gli astratti. Notiamo il frequente uso di proposizioni introdotte dall’indicatore jw, relativamente poco usato nei Testi delle Piramidi. Il potere degli dei è celeste ma si manifesta sulla terra mediante la forza: il re è un dio (figlio di Atum, dio che corrisponde al sole prima di sorgere, in egiziano tem significa “cessare”, invece Ra è la stessa divinità come sole già sorto) nobile in cielo e potente sulla terra (orizzonte). Il sostantivo Aḫt significa “orizzonte” e deriva da Aḫ, “luminoso”, perché l’orizzonte diurno viene illuminato dal sole.
Il concetto di “intorno” (ḥA.f) comprende nei Testi delle Piramidi anche quello di protezione. Quindi i Ka del re sono attorno a lui per proteggerlo. Il plurale ḥmwswt indica dei feticci sacrali a forma di spazzola (idea del sacro associata a quella della purità).
Gli urei (jarwt) sono i serpenti che proteggono il faraone dai suoi nemici incenerendoli con lo sguardo. Si tratta del rettile che i greci chiamavano basilisco. Il termine greco basiliskos vuol dire “piccolo re” (dal greco basileus, “re” + il suffisso –iskos, “piccolo”, come aster, “stella” + -iskos = “asterisco”, cioè “piccola stella”). Il copricapo del re egiziano ha per l’appunto un cobra. Il verbo jar vuol dire “salire”, quindi l’ureo è il cobra che si rizza in posizione di attacco.
La forma s-šmwt è causativo del verbo šmj, “andare”, si tratta di un participio femminile plurale, si riferisce ai cobra (in egiziano al femminile): “coloro che sono alla guida”.
La forma ptrt può essere sia un participio (che guarda) sia un sDm.f circostanziale (dopo che il Ba la guarda).
La parola wsr significa potere, ma la desinenza –w non indica un plurale bensì un astratto, quindi wsrw significa “potenza”.
La riga 14 ha due participi: nhd, “fremente”, anḫ, “vivente”. La lingua egiziana adopera molto i participi. Ka come “spirito” era pronunciato ku, lo sappiamo da un vaso che in egiziano è kaerka, invece in cuneiforme è kuirku: dalla resa cuneiforme sappiamo che la vocale è una /u/. Invece ka come “toro” aveva la /a/, lo sappiamo perché in copto la forma è ko, e solo la /a/ dell’egiziano antico può dare la /o/ del copto.
Wnm (participio: “mangiante”): la grafia di questa parola è “singolare” per chi è abituato all’egiziano classico, cioè un fiore e due pagnotte (in egiziano classico il fiore viene sostituito dal segno dei due pali in croce e le pagnotte dall’uomo che porta la mano alla bocca per mangiare). Il verbo jww significa di base “venire”, l’infinito è jwj (un altro verbo egiziano per “venire” è jjj), quindi la radice è jw. Cosa è allora la –w finale della forma jww? Potrebbe essere un participio incompiuto oppure la III persona dello stativo. Quest’ultima forma viene chiamata dai grammatici anche antico perfettivo oppure pseudoparticipio, ma la denominazione migliore è “stativo” e questo per due motivi. La forma più simile allo stativo egiziano è quella accadica, che viene chiamata dai grammatici “stativo”. In secondo luogo, tale forma indica una entità che ha raggiunto uno stato, una qualità dell’essere (“qualitativo” in copto). In egiziano si usa per indicare una qualità (è un aggettivo) oppure per indicare un participio predicativo. La predicatività è ciò che in italiano si esprime con il gerundio o l’infinito: “ho visto tua madre uscendo di casa”, cioè “mentre usciva”, che ci dice in che condizione si trova il referente mentre avviene l’azione. Quindi “che mangia le loro viscere mentre/dopo che loro sono venuti”. Lo stativo assoluto (in principio di frase) è una forma finita; invece, se è all’interno di una frase si tratta di uno stativo predicativo. La parola ḥkA vuol dire “magia” (copto hik): la desinenza –w (ḥkAw) non esprime un plurale ma un astratto. Il verbo mḥ, “riempire”, forma una sDm=f circostanziale. Oppure il verbo mḥ potrebbe essere anche un participio: il re mangiante e “riempiente” il loro ventre di magia. Una nota anche sulla forma nsjsj. In medio egiziano (ma anche prima) la r finale dell’egiziano antico si iotacizza e in una fase successiva cade. Natjr, “dio”, diventa in medio egiziano natjj e poi in copto nut. In questo modo avevamo all’inizio neserser, che si iotacizza in nsjsj. La radice di neserser è ser, che significa “ardere”, e si ritrova nell’ebraico serafim, un coro di angeli raffigurati come serpenti di fuoco, dal verbo ebraico saraf, “ardere”.
Il nome apr è una proposizione nominale (PPN): “il re è quello (pj) equipaggiato/dotato”. Aḫjw, letteralmente “luminoso”, con la desinenza –w di astratto, quindi “gloria” (come ciò che dà lustro).
L’espressione jmjw-jst-awj vuol dire letteralmente “coloro che sono nel” (jmjw: nisbe della preposizione m + plurale -w) luogo (jst) delle braccia (awj è duale di braccio)”, cioè “gli aiutanti”.
Wḏa mdw.f = “dividere la parola”, cioè “essere in giudizio”. Abbiamo in questa riga una tematizzazione o enfatizzazione: il nome del re viene posto all’inizio della frase, anche se dovrebbe andare dopo, con lo scopo di evidenziarlo.
Alla riga 24 si parla della quotidianità del re: ha aiutanti, è capo dei messaggeri, assegna compiti. Il re fa nel mondo dei morti ciò che faceva nel mondo dei vivi. Il re è chiamato a risorgere nel fare nel mondo degli dei ciò che faceva da vivo.
Alla riga 25 la particella nj è in posizione iniziale quindi dà enfasi. La forma jmj è nisbe di jn (dentro). “Colui che afferra” è una entità divina, che prepara il cibo al re.
La costruzione ḏsr-dp significa “sollevato di testa” (colui che ha la testa dritta). Costui sorveglia le vittime affinché non scappino. L’egiziano è una lingua asindetica, quindi la congiunzione “e” è implicita. Sethe dice che questa entità “li respinge” perché vogliono scappare, quindi li rimette dentro.
La costruzione ḥrj-ṯrwt significa letteralmente “colui che è sul rosso” (ḥrj è nisbe della preposizione ḥr). Il “rosso” ha il determinativo dello scriba: si tratta di rosso vivo come l’inchiostro dello scriba, cioè come il sangue. Nell’antico Egitto l’inchiostro era venduto a mattonelle, come in Cina: il pennello veniva intinto nell’acqua e poi passato sopra la mattonella, come l’acquarello, per poi scrivere. In Cina abbiamo un pennello fatto di bambù con setole alla estremità; invece, in Egitto vi era una canna nilotica masticata all’estremità per permettere di scrivere. Lo scriba egiziano aveva due tipi di inchiostro: nero e rosso (per le “rubriche”, dal latino ruber, “rosso”, cioè gli inizi dei capitoli).
Il dio Kensu era una divinità lunare, letteralmente “il viaggiante”. Si può tradurre anche: “(E’ proprio) Kensu, coltello (mds) dei signori (nbw), che infilza …”.
L’espressione jmjt h̠t.sn significa letteralmente “ciò che sta dentro il ventre loro”.
Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia con formazione accreditata. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe con varie Case Editrici 53 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli. Da anni è collaboratore culturale di riviste cartacee, riviste digitali, importanti siti web.