12 Gennaio 2025
Antropogeografia

Piccoli grandi maghi – Rita Remagnino

Pur di negare la presenza di una significativa cultura universale, distrutta o gravemente smembrata dagli eventi catastrofici che accompagnarono la fine dell’ultima Era Glaciale, i controllori della narrazione storica insistono nell’offrire l’impresa di Colombo come «scoperta delle Americhe».
Se però gli antenati preistorici non avessero esplorato e accuratamente cartografato il globo nell’arco di migliaia di anni, né vi fossero state relazioni intercontinentali, non si spiegherebbero i numerosi simboli condivisi, o la sequenza di numeri sempre uguali che appare ripetutamente in tutti i siti megalitici del mondo.
Sono dunque da ritenersi preistorici i rapporti tra le popolazioni native del continente doppio e i siberiani, i cinesi e i giapponesi in nome dei quali parla il vasellame scoperto a Valdivia (Ecuador), confermando le navigazioni transoceaniche compiute dagli Jomon tra i 15.000 e i 5.000 anni fa. Le imbarcazioni partivano da capo Ashizuri, la punta più meridionale di Shikoku, risalivano a nord lungo le coste orientali dell’arcipelago giapponese, costeggiavano le isole Curili e Aleutine, s’inoltravano nel Pacifico sfruttando la «corrente nera» (kuroshio) e poi scendevano verso la California e l’Ecuador [immagine 1].
Analogamente in Eurasia le basi antropologiche della civiltà non vennero gettate dal «ciclo ariano», né il fuoco della civiltà fu acceso dalla società «tripartita» (Dumézil), come già sospettò Evola riducendo la struttura delle tre caste “all’eredità degli invasori arii dell’India”, ma tutto ebbe inizio da una primordiale struttura sociale «quadripartita» ancora in fase di valutazione (cfr: Il mistero dell’Occidente. Scritti su archeologia, preistoria e Indoeuropei 1934-1970, curato da Alberto Lombardo, Quaderni evoliani n°53).
Inevitabilmente la questione ne apre un’altra: chi occupava la casta mancante? In quale figura si concentravano le funzioni di guerriero, sacerdote e artigiano? L’identikit restituisce l’immagine dei piccoli «artigiani-maghi» posti da molte tradizioni all’inizio dei tempi e provenienti da stirpi indigene dislocate nell’emisfero australe. Se l’Eurasia vanta popolamenti antichissimi, gli arcipelaghi vulcanici del Pacifico non sono da meno.
Nella penisola sud-occidentale dell’isola indonesiana di Sulawesi è stata trovata una pittura rupestre risalente a 51.200 anni fa, come conferma la datazione torio-uranio. Il significato della scena raffigurata però resta incerto: tre teriantropi accanto a un maiale/cinghiale, l’animale-totem associato dai Veda alle alte vette dell’Himalaya. Cosa ci faceva un simbolo tipico della fascia sub-artica nell’emisfero australe?
Stante l’instabilità del punto di partenza si confermano le linee migratorie preistoriche in senso orizzontale, verticale e trasversale. Probabilmente è stato prematuro far partire dai Monti dell’Altaj il Denisova alla scoperta di Australia, Papua, Nuova Guinea, Isole Fiji e Polinesia. Pochi hanno considerato il processo inverso; tuttavia, se davvero la marcia di questo antenato (8.500 chilometri!) fosse iniziata dalla Siberia, perché nessuna popolazione eurasiatica, nemmeno la più appartata e meno ibridata, ha nel proprio patrimonio genetico percentuali denisoviane? E perché tutte le culture arcaiche affidarono al Polo Sud il compito di rappresentare la «direzione principale», cioè la causa, il motivo, la scaturigine?
Per i Sumeri, ad esempio, la «radice di ogni esistenza» stava nell’Apsû, mentre tra alcune antiche tribù del sud-ovest del Pacifico si raccontava che l’umanità era «emersa dal basso» e prima di giungere a destinazione aveva attraversato tre o quattro «mondi sovrapposti». Ora nessuno è tanto ingenuo da prendere alla lettera racconti vecchi di migliaia di anni, ma sarebbe altrettanto sciocco ignorare la consapevolezza (memoria, conoscenza, esperienza) degli Antichi su qualcosa d’importante esistito in tempi remoti nel Mare del Sud (Oceano Pacifico).

 

Storie esemplari

Come suggeriva Evola la geografia «immaginale» non andrebbe mai separata da quella «materiale», trattandosi di differenti percezioni della medesima realtà. Usando la sola immaginazione, o le sole carte geografiche, i Greci non avrebbero certo completato il puzzle geo-storico che li riguardava collocando al Centro l’habitat primordiale degli Uomini (Neanderthal?), a Nord quello dei Giganti (Cro-magnon?) e ancora più sopra l’olimpo polare abitato da esseri divini così alti, ma così alti (Sapiens?), che uno di loro, Ares, cadendo in basso coprì sette jugeri (Iliade, XXI), mentre un altro, Poseidone, con quattro passi andò da Samo a Ege (Iliade, XIII).
Quanto al Sud, al di sotto della corrente equatoriale si trovava la culla della stirpe nanesca, cioè abitava quel popol pigmeo che per vendicarsi dell’uccisione del gigante Anteo, storico fratello «di terra», legò Eracle come un salame alla maniera del Gulliver di Johnathan Swift. Ma l’eroe si scrollò di dosso i carcerieri con una sonora risata, li infilò in una pelle di leone e ne fece dono al fratello Euristeo.
Chiaramente i Greci assimilavano l’emisfero australe ai territori meridionali della Libia e dell’Egitto, dove, forse, qualcuno di loro in viaggio d’istruzione aveva visto il nano Bes dipinto su un’ampia gamma di oggetti domestici con tanto di sopracciglia ispide, capelli lunghi, grosse orecchie a sventola e la lingua fuori alla maniera di certe divinità indù.
All’opposto dei Nani presenti nelle mitologie nordiche, dove la stirpe nanesca fu alquanto variegata e prolifica, Bes non apparteneva ad una famiglia etnica specifica ma rappresentava un unicum, e come tale scivolò nella gaudente fase matriarcale mediterranea, dove tutti i giorni erano buoni per fare festa e il Nano presiedeva i divertimenti, la musica e la danza.
Fu appunto ballando e suonando il flauto che alcuni esponenti della stirpe nanesca accompagnarono la mesta ritirata da Tollan del dio mesoamericano Quetzalcóatl, ma non prima di avere nascosto tutti i tesori dei Toltechi nelle gole montane e nelle segrete stanze sotterranee della città, prevedendo un ritorno che non risulta essere mai avvenuto.

Sapienti e irriverenti, sempre attenti al patrimonio e abili artigiani, ma soprattutto portatori di un sapere magico ancestrale, i Nani ebbero un ruolo-chiave anche nel mondo norreno dove forgiarono Brising, la collana dall’irresistibile potere seducente indossata da Freyja, la dea dei Vani mandata come ostaggio presso gli Asi e divenuta la loro «maestra di magia».
Quattro di loro (Norðri, Suðri, Austri e Vestri, rispettivamente il nord, il sud, l’est e l’ovest) scongiurarono il crollo dei cieli offrendosi come puntelli umani della volta celeste (dopo l’impatto meteorico che 12.900-11.500 anni fa causò il Dryas Recente?). Da allora in poi nell’immaginario collettivo il Nord divenne il luogo freddo dello spirito e della meditazione, il caldo Sud faceva crescere le cose, ad Est il sole nasceva insieme alle idee mentre l’Ovest era il luogo del tramonto. Allegorie? Se anche fosse l’antropologia culturale del cosiddetto occidente collettivo non può prescindere dalle sue fondamenta cosmogoniche, perciò è sempre meglio sapere di cosa sono fatte.

 

Il ciclo di Vāmana

La narrazione più completa, probabilmente la più antica, appartiene al ciclo del nano Vāmana, quinto avatāra di Vishnu, venuto al mondo (dopo i diluvi?) per «recuperare le ricchezze degli esseri celesti» (il sapere ancestrale?) necessarie a costruire il Nuovo Mondo (Vāmana Purāṇa, 23-21; 89-94).
Lo sconquasso del pianeta richiedeva il rifacimento di tutte le mappe e perciò qualcuno doveva (ri)prendere in mano la corda e «misurare» ciò che restava. Come in Egitto il ritiro delle acque diluviali e l’ascesa del falco Ra (Età del Leone, 10.860 – 8.700 a.C. circa) chiamò in causa Thot, “colui che fa calcoli in cielo, colui che conta le stelle, enumera la terra e quel che contiene, è il misuratore della terra”, così l’India fece appello a Vishnu-Vāmana.
Innanzitutto l’architetto celeste crebbe a dismisura, occupando tutto il cielo con il suo corpo immenso. Con il primo passo misurò poi i pianeti inferiori, fino alla Terra, raggiungendo con il secondo la parte più alta della volta celeste, che forò con l’alluce per farvi penetrare l’acqua dell’Oceano Causale (il Pacifico?) su cui galleggiavano numerosi altri universi (le nuove terre emerse?).
Infine l’avatāra lavò accuratamente i suoi piedi di loto e ridiscese tra gli umani in veste di Gange celestiale (Srimad Bhagavatam, 5.17.1), raccomandando alla casta dei brahmani di avere cura della figura-chiave del Nano riparato dall’ombrello (Alain Daniélou, La fantasia degli dei e l’avventura umana, Casadeilibri, Limena, 2013).
Sotto l’aspetto simbolico l’epica di Vāmana (apparsa probabilmente con il culto di Vishnu intorno al 3.138 a.C., e rispettata come «parola divina» fino al III secolo d.C.) rappresenta la cuspide tra il prima e il dopo, cioè segna il momento in cui l’umanità dovette rimboccarsi le maniche per cominciare a spalare le macerie del passato (impersonate da Bali Maharaja).
Sul fronte geo-antropologico la figura del piccolo uomo dalla pelle scura evoca invece qualcosa di molto concreto: l’incontro tra la pigmoide Stirpe Nera cresciuta sotto l’influenza della meridionale «Luce del Sud» (l’Antartide Minore privo di ghiacci?) e la Stirpe Rossa espressione manifesta della settentrionale «Luce del Nord».
Qualcuno penserà che non c’era bisogno di costruire un’intera saga, tenendo impegnate enne generazioni, per raccontare dei semplici fatti di cronaca. Se invece fosse vero il contrario? Se oggi i bambini venissero sollecitati a memorizzare la Storia per immagini anziché imbeccati come pappagalli con nomi e date? Se il cambio di prospettiva servisse a capire meglio il senso ultimo del percorso umano, che è essenzialmente di ordine spirituale? Oppure, è proprio questo il pericolo da scongiurare?

 

L’hobbit di Flores

Distante dall’area tradizionale il mondo dei paleoantropologi rimase di stucco nel 2004, quando il ritrovamento dell’homo floresienses lo costrinse ad inserire ufficialmente nella variegata famiglia del genere umano la specie dei Nani, fino a quel momento relegati ai libri per l’infanzia.
Sull’isola di Flores erano già stati ritrovati alcuni utensili di pietra nello stesso strato degli stegodonti (1968), di cui si ipotizzava un’età approssimativa di 750.000 anni, insieme ai resti di testuggini giganti e dell’altrettanto enorme varano di Komodo, specie estinte attorno a 12.000 anni fa. Adesso, però, ci si doveva cimentare con degli scheletri umani in miniatura (1 metro di altezza x circa 25 kg di peso).

Fresca di effetti speciali cinematografici la comunità planetaria esultò alla notizia dell’inaspettato ritrovamento dell’hobbit di Flores, a maggior ragione quando si seppe che la stirpe nanesca indonesiana era vecchia di almeno 95.000 anni, coesistette con il Sapiens fino a 12.000 anni fa e poi si estinse, o comunque fece perdere le proprie tracce sull’isola.
Verosimilmente i primi incontri tra le minuscole stirpi «telluriche» (legate alla terra di origine) e i navigatori euroasiatici risalivano al Terzo Grande Anno dell’attuale Manvantara, il Tretāyuga (39.000-32.500 anni fa), cioè all’epoca in cui l’isola di Flores costituiva uno dei tanti porti sicuri dislocati nell’area marina della Sonda.
La quantità spropositata di attrezzi trovata accanto ai resti umani suggeriva inoltre che gli hobbit non lavoravano soltanto per la tribù ma anche per l’esterno. Niente di più facile, dunque, che in transito da Flores gli intraprendenti Sapiens, o i Denisova, ad un certo punto abbiano giudicato più conveniente utilizzare tante eccellenti abilità manuali nel continente. Il rapporto sarà cambiato in seguito, quando il massimo tasso di sollevamento degli oceani (15.000-11.000 anni fa) cancellò le rotte impedendo ai Nani «in trasferta» di tornare indietro.
Ciò spiegherebbe in parte l’indole rancorosa e bellicosa attribuita ai piccoli artigiani da molte tradizioni, ed infine incastonata nella guerra perenne Nani vs Gru. L’oggetto del contendere era immancabilmente un bene materiale, spesso legato alla terra; da qui i pettegolezzi sull’attaccamento dei piccoletti alle cose del mondo, una maldicenza al cui pozzo attinse acqua anche Tolkien: “Quando il cuore di un nano, anche il più rispettabile, è risvegliato da oro e gioielli, si fa improvvisamente ardito e può diventare feroce.”

 

La calunnia è un venticello

Dal punto di vista scientifico il ritrovamento dell’homo floresienses segna l’abbandono definitivo del vecchio paradigma evoluzionista che prevedeva la successione/sostituzione graduale degli ominidi nella direzione evolutiva dell’essere umano anatomicamente moderno. È chiaro che la nostra specie nel corso di un’interminabile sequela di vicissitudini ha dato origine a stirpi variegate, tra le quali vi è appunto il «nano» di Flores, il più minuscolo del più basso pigmeo mai conosciuto.
Quando i rapporti interetnici nel Pacifico s’interruppero a causa del rialzo dei livelli marini, i soggetti pigmoidi si erano ormai sparsi dappertutto, e anche ampiamente ibridati con le stirpi autoctone. Tuttora nelle Isole Andaman (Golfo del Bengala) i negritos presentano caratteri pigmoidi. Fino agli Anni Venti del secolo scorso le zone montuose della penisola tailandese, malese e indonesiana, erano popolate da etnie pigmee in via di estinzione (i Semang della Malaysia, gli Yali dell’Indonesia, eccetera) mentre nel Queensland australiano è stata ampiamente documentata la presenza dei Vedda: piccoli individui con la pelle olivastra e il pelo denisoviano.
Persino il cinema ha avuto il suo portatore di «nanismo primordiale», l’attore filippino Weng Weng (1957-1992), sebbene la tendenza dell’attuale società della medicalizzazione sia più che altro quella di considerare il piccolo alla stregua di un «malato da curare».
Ciò non significa che un tempo i Nani fossero visti di buon occhio, anzi, molte credenze superstiziose si svilupparono sul loro conto. A cominciare dall’idea di forze infere di natura sconosciuta dimoranti nel cuore dei piccoletti e sempre pronte a sprigionarsi come faville da un fuoco.
Fu allora che tra le gambe storte di Bes l’egiziano spuntò un’inquietante coda, mentre i Nani europei furono cacciati sottoterra con la scusa che l’esposizione ai raggi del sole poteva trasformarli in pietra. Facendo di necessità virtù essi si misero a lavorare ancora più alacremente, rintanati tra le fucine e i laboratori domestici dove il tempo era scandito dagli incantesimi pronunciati utilizzando antichissime parole di potere.
Incudine e martello, fuoco e acqua, preghiere e formule magiche. Nessuno può dire quanto andò avanti questa storia; finché i loro servigi tornarono utili nell’Età del Bronzo, quando la produzione di armi e ornamenti toccò il picco massimo, facendo guadagnare ai piccoli fabbri-maghi il meritato titolo di «artigiani degli dèi», un’onorificenza che li rese meno antipatici alle comunità locali, disposte a sorvolare sul loro pessimo carattere pur di ottenere le opere ineguagliabili di cui erano capaci.
Leggendo queste storie viene da chiedersi cosa desse più fastidio ai continentali, se l’«anzianità» degli omini del Sud, ostinati sostenitori della superiorità di un mondo precedente, oppure la «magia tellurica» della quale detenevano i segreti.
Ai due fattori citati l’Uomo Ultimo che ormai le ha viste tutte, o quasi tutte, ne può aggiungere un terzo: l’incertezza antropologica di un tempo sospeso tra un passato che appare irrecuperabile e un futuro che stenta a manifestarsi. Non esiste un ambiente migliore di questo per scatenare paure incontrollate e scatti di violenza, “è in questo interregno [dunque] che si verificano i fenomeni morbosi più svariati” (A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino, 2014).

Ricercatrice indipendente, scrittrice e saggista, Rita Remagnino proviene da una formazione di indirizzo politico-internazionale e si dedica da tempo agli studi storici e tradizionali. Ha scritto per cataloghi d’arte contemporanea e curato la pubblicazione di varie antologie poetiche tra cui “Velari” (ed. Con-Tatto), “Rane”, “Meridiana”, “L’uomo il pesce e l’elefante” (ed. Quaderni di Correnti). E’ stata fondatrice e redattrice della rivista “Correnti”. Ha pubblicato la raccolta di fiabe e leggende “Avventure impossibili di spiriti e spiritelli della natura” e il testo multimediale “Circolazione” (ed. Quaderni di Correnti), la graphic novel “Visionaria” (eBook version), il saggio “Cronache della Peste Nera” (ed. Caffè Filosofico Crema), lo studio “Un laboratorio per la città” (ed. CremAscolta), la raccolta di haiku “Il taccuino del viandante” (tiratura numerata indipendente), il romanzo “Il viaggio di Emma” (Sefer Books). Ha vinto il Premio Divoc 2023 con il saggio “Il suicidio dell’Europa” (Audax Editrice). Altre pubblicazioni: "La vera Storia di Eva e il Serpente. Alle origini di un equivoco" (Audax Editrice, 2024). Attualmente è impegnata in ricerche di antropogeografia della preistoria e scienza della civiltà.

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