8 Ottobre 2024
Avventura Jack London Punte di Freccia

Faccia al sole e in culo al mondo…

di Mario M. Merlino


Le nevi eterne le gelide aurore ai confini del mondo le navi a sfidare l’onda e l’abisso degli oceani i tramonti rosso sangue e uomini e bestie in lotta fra loro e contro la natura. Sopravvivere e dominare: non c’è altra legge, non se ne necessita altra. Il fucile il coltello le zanne sono prioritarie al codice, alla Bibbia, alla morale calvinista. Sono questi gli ingredienti per chi non ha prosciugato il cuore e si è rifiutato di cercare rifugio in tiepide emozioni. Agli altri fare spalluccia mentre s’infilano le pantofole tossiscono brontolano e rimproverano moglie e figli perché s’impossessano del telecomando. Non che si trovi disdicevole concepire nuove leve di guerrieri e condividere la solitudine in due… L’importante è ricordarsi, come insegnava Leon Degrelle, che non siamo nati per mangiare in orario o altre obbligazioni simili. E ricordarci, quando sbraitiamo per l’ingorgo del mattino o qualcuno ci aromatizza con l’ascella sudata in metropolitana che la nostra insofferenza non è altro che il surrogato, civile e vile, dell’ascia del pugno del gusto per la rissa…

Ecco, in qualche scaffale di libreria, nella nostra certo in vecchie edizioni A. Barion (inizio anni Trenta) o della Sonzogno (inizio anni Cinquanta) con la caratteristica copertina di cartoncino rosso. Ad esempio La figlia delle nevi, Martin Eden, Smoke Bellew, Il vagabondo delle stelle, ristampato non molti anni fa dall’Adelphi, e gli intramontabili Il richiamo della foresta, che io preferisco da inguaribile ‘selvaggio’ all’addomesticato Zanna bianca. Autore Jack London, pseudonimo di John Griffith. Un nome fascinoso per un personaggio da leggenda ed avventura, nato nel 1876, abbandonato da adolescente dal padre, vissuto da vagabondo e al confine della legalità, marinaio, dedito ai lavori più disparati, sovente fra i più umili e degradanti, autodidatta ed eclettico nelle letture – Darwin e Spencer, Marx e Nietzsche, ad esempio -, divenuto famoso agli inizi del Novecento ricchissimo e morto suicida ad appena quarant’anni.

Chi non ha ritrovato in qualche banalotta antologia scolastica le pagine dove Buck, il cane-lupo, trascina la pesantissima slitta perché il suo padrone vi ha scommesso mille dollari? Di quel giovane cane che, sottratto alla vita domestica, ritorna all’originaria natura da cacciatore nelle plaghe del Grande Nord, in cui la lettura di Darwin, quello amato da un certo Nietzsche, si traduce in suggestioni richiami luoghi innevati distese di cupe foreste? Oppure il principio evolutivo s’incarna in Zanna bianca, nel lupacchiotto che si trasforma, attraverso le cure e l’affetto di una famiglia, in animale al servizio dell’uomo? Film e sceneggiati hanno contribuito a tenere desta l’attenzione del pubblico, non solo infantile.

Jack London fu anche riesumato nell’ambito di quella stagione, affascinante e perversa, che, per citare una celebre espressione del ‘grande timoniere’ Mao, regnava gran confusione sotto il cielo. Gli anni dove si leggeva di tutto ed il suo contrario nel concorrere all’imminente palingenesi del mondo vecchio corrotto grigio opprimente, insomma borghese. Naturalmente una rivoluzione di giovani che finirono per diventare presto e tragicamente, molti di essi, vecchi corrotti grigi oppressivi e spesso ferocemente brutali. Ecco Il popolo dell’abisso, un crudo reportage sull’East End di Londra dove London visse travestito da straccione per diversi mesi e che sembra capace di riportare le pagine più vivide dell’Utopia di Tommaso Moro e di quell’inchiesta di Engels sulla condizione della classe operaia in Inghilterra. E, soprattutto, Il tallone di ferro, edito la prima volta nel 1907 e divenuto uno dei romanzi più letti da generazioni di socialisti tanto da essere definito ‘fantapolitica marxista’.

Si pensi come il suo protagonista, Ernest Everhard, ha suggerito il nome di battesimo al futuro Che Guevara e che Lev Trotzkij, in una lettera a Joan London datata 16 ottobre 1937, scriveva fra l’altro: ‘Questo libro ha prodotto in me, e non esagero, una viva impressione. (…) Infine, niente colpisce maggiormente nell’opera di Jack London che la sua previsione veramente profetica dei metodi che Il tallone di ferro userà per mantenere il suo dominio sull’umanità calpestata. (…) Al di sopra delle masse dei diseredati s’innalzano le caste dell’aristocrazia operaia, dell’armata pretoriana, dell’apparato poliziesco onnipresente e dell’oligarchia finanziaria che corona l’edificio’. Lo si volle leggere quale descrizione del Fascismo – e perché no dello stalinismo? Misteri della fede e dell’idiozia marxista! -, ma ci sembra che ben possano essere adattate ragioni e immagini all’oggi. Il mundialismo la globalizzazione ‘il potere planetario della tecnica’ il dominio finanziario…

E London fu ed è ancora altro. Il narratore incisivo dell’esistenza tra ghiacci e boschi di individui alla ricerca del cibo e dell’oro. Lo scrittore che avvertì, anche sulla propria pelle, l’esistenza amara ed abbrutita della diseguaglianza sociale e del profitto nella logica del capitale che nell’Inghilterra e negli Stati Uniti poi aveva attecchito ramificandosi nefasto e maligno. Jack London fu ed è colui che sentì il rischio della decadenza – e il suicidio fu, forse, il suo grido estremo folle e disperato -, la decadenza dell’uomo quale destino storico di mettersi in cammino e creare un mondo a misura del suo dominio in una civiltà ove i sogni gli ideali lo spirito d’avventura il gusto di mettersi in gioco sarebbero stati tacitati in nome d’una affermazione esclusivamente mercantile.

Scrive, ad esempio, ne L’ammutinamento dell’Elsinore: ‘E allora conobbi l’ira. Non la comune, ma la fredda ira ponderata. E mi passò nella mente la visione dell’alto posto in cui noi sedemmo e comandammo nei secoli; in tutte le terre e in tutti i mari. Vidi i miei simili, e le loro donne con essi, in situazioni disperate e in imprese impossibili: assediati nei manieri, a marcire nella fitta jungla, tagliati a pezzi, fino all’ultimo, sui ponti di navi. E sempre, le nostre donne con noi, avevamo comandato sopra gli animali. Potremo un giorno scomparire, e le nostre donne con noi; ma da vivi avremmo sempre comandato. Era una visione regale che io avevo nella mia immaginazione: sì; e nella vividezza della visione ne afferrai l’etica, che ne era l’essenza stessa. Era il sacro compito della razza, l’eredità di dovere lasciatoci dagli antenati’.

Questo London, che la critica marxista dileggiò e accusò d’involuzione, è quanto ci appare ancora vivo e leggibile al di là di un momento di amena lettura. Perché, pur in forme confuse e con discutibili commistioni con il mito americano del self-made man, irrompe con la vitalità di quel tipo umano che mantiene alta la testa e ardito il cuore. Con lo zaino in spalla, la spranga in mano, la polvere sugli scarponi, faccia al sole e in culo al mondo…

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