Raggiunti da un decreto di espulsione, emanato dal governo francese su richiesta del regno di Prussia, Karl Marx e il suo sodale Friedrich Engels sono costretti a fare le valigie e in tutta fretta. A firma del ministro di Francia lo storico Guizot, sotto il vacillante regno di Luigi Filippo, e in quel frangente (1846 è l’anno in cui viene composta l’Ideologia tedesca), l’opera viene abbandonata ai topi perché, spiega lo stesso Marx, il suo scopo era fare i conti con i ‘giovani hegeliani’ (come li definisce Karl Loewith nel suo saggio fondamentale Da Hegel a Nietzsche, letto al secondo braccio del carcere romano di Regina Coeli, 1971), quella ‘sinistra hegeliana’ – qui la definizione è di David Strauss, ripresa dal Michelet – che si era mossa nel tentativo di superare la filosofia ‘compiuta’ del loro Maestro fino a concludersi, freudianamente, con l’‘uccisione del padre’. Eppure, si sa, che quell’assassinio preserva una filiazione, un legame di sangue, che riemerge e si consolida dopo il necessario abbandono (Marx è tanto lontano da Hegel quanto carnefice e vittima di quel ‘cane morto’ che credeva di poter liquidare con una battuta).
E’ opera, dunque, a conclusione di una fase di pensiero; a ben altro i due si predisponevano (prossimo era il 1848 e la pubblicazione de Il Manifesto). L’Ideologia tedesca sarà ritrovata casualmente in una cassa, con alcune pagine profeticamente rosicchiate dai topi, e solo nel 1932 pubblicata, per la prima volta, in Unione Sovietica. Sebbene considerata superata e secondaria, per quanto possa valere il giudizio geniale e vano di un bipede superiore in trasferta per oltre vent’anni in un liceo ‘rosso e democratico’ della periferia romana, mi sembra contenga una somma di annotazioni che ben valgano più del profetismo bandiere rosse e pugni chiusi e quel mattone di autoreferenzialità presuntuosa ed arrogante che è Il Capitale. E alcune fondamenta dell’impalcatura marxiana come, ad esempio, la distinzione fra struttura e sovrastruttura o forze e mezzi di produzione (alcune libere sciocchezze tracimate dalla storia – marxiano e marxista si scavano il fossato e allargano la distanza -; altre ormai banalità ma utili ancora per evitare facili confusioni e ammucchiate con le becere proposte liberiste e borghesi tanto di moda in quest’oggi dominio di plebei).
Fare, dunque, i conti con quei filosofi con cui avevano condiviso i locali della birreria di Jacob Hippel nella Friedrichstrasse, al numero 94, di Berlino, spazio ove si raccoglievano die Freien (i Liberi), l’associazione più radicale di pensatori poeti giornalisti e artisti di vario genere, intorno al filosofo, critico della Bibbia, Bruno Bauer. Nella pretesa di essere il volano della storia per poter passare dalle ‘armi della critica alla critica delle armi’, intanto con sprezzante ironia e facile ingiuria tentare di umiliare un po’ tutto e tutti (Bruno Bauer e Ludwig Feuerbach e in particolar modo il mite professore Kaspar Schmidt, il nostro amico dallo pseudonimo di Max Stirner). Proprio a Berlino, nei pressi dell’Alexanderplatz, si può ancora ammirare (si fa per dire) la statua dedicata a Marx ed Engels, due pesanti e tronfi borghesi dallo sguardo severo e cattivo (Pasolini, nel ’68, trovò in noi reduci da Valle Giulia questo tratto, figli di gente borghese e appunto ‘cattiva’), premessa del colpo alla nuca agli avversari anarchici e del POUM in Spagna nel ’36 agli ufficiali polacchi nelle fosse di Katin e, in Italia, mese di aprile del ’45 e successivi, nel ‘triangolo della morte’, ad esempio…
Max Stirner, s’è detto. L’autore de L’Unico e la sua proprietà (1844, il medesimo anno di nascita di colui che da ‘perfetto nichilista’ seppe puntare il dito ammonitore e rivelatore su i tempi a venire). Il più beffeggiato, deriso, vilipeso, copia del suo libro però sulla scrivania di Mussolini quando ancora dirigeva la redazione de L’Avanti su a Milano – e a lui vengono accostati sia Otto Weininger che Carlo Michelstaedter morti suicidi entrambi all’età di ventitré anni. I due presunti dissolutori, svelatori delle maschere li dichiarono i manuali di storia della filosofia (ma altra finzione vollero anticipare, trasformando la risoluzione dei bisogni nella prigione annientante ogni bisogno), armati di penna e di bile, si accaniscono – facile bersaglio – contro chi rifiuta irride si nega ad ogni richiamo alla specie e alla classe, lo definiscono Sankt Max e ‘storia di spettri’ la sua filosofia. Intollerabile colui che non subordina la propria coscienza, quella stupida e vuota unicità, a qualcosa di più esteso e opprimente, insomma… alla concezione materialistica della storia.
Eppure c’è un passaggio, in quella loro critica, che m’intriga e m’è tornato a mente proprio in questi giorni e proprio qui, su Ereticamente, leggendo una recente recensione: ‘In un maestro di scuola o in uno scrittore, localizzati a Berlino (…), la cui attività si limiti da un lato ad un duro lavoro e dall’altro al gusto di pensare, il cui mondo va da Moabit sino a Koepenick (quartieri periferici e poveri della capitale del regno di Prussia) e dietro alla porta di Amburgo è chiuso da una staccionata, i cui rapporti con questo mondo sono ridotti al minimo a causa della sua posizione miserabile, in un tale individuo, dico, è indubbiamente inevitabile, nel caso egli possieda dei bisogni spirituali, che il pensiero divenga tanto astratto, quanto lo sono la sua vita ed egli stesso’.
Cambiano le coordinate dello spazio del decoro delle possibilità, ma la sostanza? Va da sé che quel pensiero e quella vita e quel se medesimo non mi appaiono affatto ‘astratti’, forse fieri e disperati, sovente patetici e ridicoli, a volte arroganti e presuntuosi. Sì, ma mai astratti… Lacrimevoli in alcuni che del ‘muro del pianto’ hanno assunto atteggiamento e abitudini reiterate. Quale astrattezza può esservi nel girare sotto i portici di Torino, ad esempio, con un solo paio di scarpe né i soldi per risuolarle e abbracciare un ronzino in piazza Carlo Alberto? C’è la follia e la grandezza del Grande Meriggio. L’annuncio che ad altra Aurora si è destinati, anche se in un silenzio assordante e carico di premesse tragiche e affascinanti. Astratto, semmai, è voler trasformare quel pensiero con i suoi sogni e le possibili contraddizioni ad eco della ‘distruzione della ragione quale compensazione della condizione di classe della piccola borghesia con le toppe al culo e il volto la moglie i bambini atteggiati a ‘gran signori’… Certo quando s’andava di notte ad attaccare manifesti e ci si scontrava con le zecche, qualcuno – più di qualcuno – si sottraeva all’impegno, assicurando la disponibilità piena al momento che al pennello e al manico di scopa avessimo sostituito il mitra. Costui – costoro -, sì, erano astratti, ma lo erano solo perché prigionieri della mente e di un fragile cuore a dare loro esistenza. Cosa loro, non roba nostra…
Certo gli intellettuali corrono il rischio di divenire caricatura – Che Guevara affermava come gli intellettuali in quanto classe dovrebbero suicidarsi (era il concetto del superamento tra lavoro intellettuale e quello manuale che animava una espressione in sé insignificante e sprezzante) – con il borsello il libro (da leggere in metropolitana per distinguersi dai ‘coglionazzi’ intenti a digitare il cellulare) nei monologhi sordi ad altrui ascolto sentenziosi perché inossidabile è il dominio della verità. Ignari come la verità è essa stessa una delle tante opinioni possibili. Convinti che il mondo soggiace alla parola. La loro, tanto simile a montagne di carta straccia. Strafottenti verso quei militanti che furono bastoni mani levate ‘Boia chi molla!’. Per anni, però, la piazza l’ingresso nelle scuole dentro le università furono spazi conquistati e difesi, una sfida le botte date e quelle prese. A chi ama citare Marcello Gallian ricordo come fu prima squadrista e poi scrittore de Il soldato postumo…
Appunto gli squadristi. Non fu il Fascismo (di sinistra) a discettare su cosa fosse la sua essenza – a questo ci hanno pensato e se ne occupano i professori, quelli del giorno sempre dopo -, furono i reduci dalle trincee, bombe a mano nerbo di bue e pugnale fra i denti, a rendere il primo Fascismo tale con quell’andare oltre il socialismo per coniugare la nazione con la giustizia sociale. Se non ci fossero stati, forse Drieu la Rochelle non avrebbe scritto Socialismo fascista (e, sempre, avvertì il bisogno fisico di misurare le proprie forze). Confusi, spavaldi, un po’ beceri, strafottenti, forse sani e cattivi… L’amico Giacinto Reale ci offre di loro una descrizione forte ed efficace con le sue ricerche, i documenti, le testimonianze… E quel loro aspro ruvido sovente sgrammaticato raccontarsi vale più d’ogni dotta citazione ed erudito giro di parole. E lo dico pur consapevole d’essere un fottuto piccolo borghese, intellettuale e professore, amante dei libri, soprattutto se sono io a scriverli, fantasioso, astratto per accontentare Marx…
Così Marx può ironizzare fare le pulci volgere le spalle a quelli che furono i suoi compagni di una giovanile stagione, in cui la critica ad Hegel e all’essenza del Cristianesimo diveniva mero pretesto per collocarsi sempre, tronfi, un passo avanti gli altri. Vanitas vanitatum vanitas. Questo sì, ma da borghese convertito, erede di una razza di mercanti e di profeti, difetta di stile, insomma gli manca il necessario tocco d’eleganza e, rovesciando l’assunto di Nietzsche – ‘dove c’è uno stile, là è passato un Capo’ – non sarà mai un autentico ‘duce’ (dopo di lui gli eredi si spartiranno l’eredità e ognuno con miracolosa e fallimentare ricetta, l’un contro l’altro armati) perché non ha saputo coniugare la forma e la sostanza, quella intima coerenza tra pensiero ed azione che fa di una concezione di vita una visione del mondo. Di questi eredi, nella storia e nel presente, abbiamo fatto conoscenza e, pur essendo forse come loro, diffidiamo. Se il loro è segno della concretezza, noi amiamo quelle visioni accusate di astrattezza (con quel Sankt Marx in prima fila) e, pur se conserviamo il vezzo di scrivere libri, non esitiamo ad affermare che i bastoni e le barricate vengono prima d’ogni destra d’ogni sinistra d’ogni bella frase con cui s costruiscono alibi alla propria miseria…
Mi raccontava A. con una punta – m’è sembrato di avvertire – di nostalgia e di rimorso, come al suo istituto fossero solo in quattro a professarsi ‘fascisti’, lui uno studente attento e meritevole mentre gli altri tre uniti dalla condanna d’essere eternamente svogliati e irriverenti e rissosi. Più attenti agli addominali che a darsi alla lettura del barone Julius Evola. Una mattina arrivano decine di compagni, pugni chiusi e ritmati slogan – l’intento è chiaro ‘fuori i fascisti!’ – e con l’uso della ‘giustizia proletaria’. A. viene trattenuto in segreteria, la scuola si fa carico di proteggere i cuccioli migliori, mentre i tre escono e vanno incontro agli avversari, con il gusto della sfida e le spranghe in mano… I fascisti saranno bocciati, va da sé, ma nessuno potrà raccontare e farsi vanto di averli buttati fuori…