La storia della Resistenza comunista italiana è costellata da episodi talmente orrendi che sembrano, visti con gli occhi di oggi, assurdi e incredibili. In realtà tali episodi non furono né casuali né sporadici; i partigiani seguivano una linea ideologica e strategica ben precisa e già collaudata alla nascita dell’Unione Sovietica. Per potere perseguire la logica della resistenza comunista, rappresentata dalla strategia del terrore, servivano uomini che sapevano essere cinici e sanguinari, perché solo chi é permeato da tanta disumanitá puó apprezzare l’ideologia comunista.
La presenza permanente ed attiva dei criminali comuni all’interno della resistenza non deve per nulla stupire. Tra delinquenti della peggior specie e partigiani non c’era nessuna differenza e nessuna divergenza, sia di vedute che di comportamento anzi, la posizione dei partigiani è più grave perché, sia la pianificazione che l’esecuzione dei delitti erano la risultante della più sanguinaria freddezza e del più cinico odio ideologico. Ecco perché i crimini della resistenza sono particolarmente efferati. Che fossero dei criminali comuni o criminali guidati dall’ideologia (questo erano i partigiani), tutti gli autori di delitti furono coperti con ogni mezzo e in modo sistematico, sia dall’apparato del partito comunista italiano che da quello sovietico, sino ad organizzarne, qualora non ci fossero altri mezzi per proteggerli, la loro fuga ed il mantenimento nell’Unione Sovietica di Stalin.Tra gli innumerevoli esempi che consentono di comprendere perfettamente quale era la costante che contraddistinse sempre la strategia delle bande armate comuniste, si puó citare la tragica vicenda che il 12 agosto 1944 coinvolse Sant’Anna di Stazzema, un paesino dell’entroterra Lucchese, localitá nota come paese “vittima di stragi” da parte tedesca e fascista.
In realtá anche in questo caso, nulla togliendo alla crudezza germanica, furono i partigiani a fare inferocire i tedeschi, con il preciso scopo di indurli a compiere una rappresaglia, (che porterà alla fucilazione di quasi tutti gli abitanti del piccolo borgo).
Prima di addentrarci nella lettura che segue, vorrei fare una premessa! è ormai risaputo che il mesto operato dei partigiani non fu mai di nessuna importanza per le sorti del conflitto, come se ciò non bastasse, gli alleati, che pure si servirono di questi mascalzoni, non li ebbero mai in alcuna considerazione, tanto che essi per primi li considerarono sempre dei viscidi criminali.
Dell’amara vicenda di questo piccolo borgo ci sono chiare testimonianze di alcuni sopravvissuti. Tra di essi il signor Duilio Pieri, che nella strage perdette il padre, la moglie, due fratelli, le cognate e quattro nipotini, e che dal 1945 è presidente del locale “Comitato vittime civili di guerra”. I partigiani in questione erano i criminali della brigata 10/bis Garibaldi, i quali seguivano l’ormai collaudata tecnica: per prima cosa effettuarono alcuni agguati contro i tedeschi, che a loro volta risposero con una serrata ricerca dei ribelli nelle campagne circostanti al paesino. In quell’occasione i partigiani si introdussero a forza dentro le case e da lì spararono contro i tedeschi (questa operazione mirava a indurre i tedeschi a pensare che tra la gente del posto vi erano partigiani, o che la gente del posto desse loro protezione, azione che faceva scattare il diritto di rappresaglia).
A loro volta i tedeschi effettuarono una prima rappresaglia nella quale si limitarono a dare alle fiamme le case da dove erano partiti i colpi. Ma i partigiani continueranno nei loro agguati, sempre col medesimo scopo, indurre i tedeschi (in quel caso si trattava di un battaglione della 16° Divisione SS Reichsführer) a compiere altre rappresaglie. Con l’intento di non fare sfollare i civili, per farli uccidere, i partigiani tranquillizzarono la gente del posto assicurando loro che in caso di una nuova rappresaglia li avrebbero difesi. Infatti ben presto i tedeschi, decisi a “bonificare” la zona, affissero l’avviso di sgombero della popolazione per via dell’imminente rappresaglia (con tanto di avviso che avvertiva che chiunque fosse stato trovato nell’abitato sarebbe stato passato per le armi perché considerato fiancheggiatore dei partigiani).
Racconta Amos Moriconi, un ex minatore che in quel periodo faceva il fornaio, che nella strage perdette la moglie, la figlioletta di due anni, la madre, due sorelle, un fratello e il suocero.<<(…) I comunisti però intervennero subito, strappando il manifesto tedesco e affiggendone un altro nel quale facevano obbligo ai civili di non muoversi. Che cosa dovevamo fare? Eravamo presi tra due fuochi. La presenza minacciosa dei partigiani comunisti era molto più concreta di qualsiasi ordinanza tedesca. Così restammo tutti. Gli abitanti di Sant’Anna, gli sfollati che avevano cercato salvezza nel borgo appenninico non potevano certo sospettare, in quei momenti, che i comandi comunisti avevano freddamente deciso di sacrificarli. I partigiani calcolarono infatti cinicamente che le SS avrebbero scambiato gli uomini di Sant’Anna per partigiani comunisti e li avrebbero massacrati, tornando quindi alle loro basi con la certezza di aver “ripulito” la zona.>> Amos Moriconi continua il racconto:<<(…)Ricordo che affrontai uno degli ultimi partigiani che si accingevano a lasciare il paese e gli dissi: “Perché ci abbandonate? Voi sapete bene di averci infilato in una rete e sapete anche che i tedeschi non ci risparmieranno. Avevate promesso di difenderci. Dove ve ne andate adesso?”. Ma quello mi guardò ghignando e si allontanò senza rispondermi>>.
Ben si comprende quindi che la strategia delle bande comuniste era quella di condurre a morte certa i civili.
Racconta ancora, Amos Moriconi. <<La strage incominciò poco dopo le sei del mattino. I tedeschi, circondata la vasta conca dell’anfiteatro dove sorge Sant’Anna, si divisero in squadre, penetrando simultaneamente nelle diverse frazioni che compongono il paese: Argentiera, Le Case, Franchi, Vaccareccia, Coletti, Bambini, Colle, Sennari e Molini.
La popolazione venne colta di sorpresa. L’allarme però corse fulmineo di casa in casa e furono numerosi coloro che riuscirono a mettersi in salvo gettandosi nei boschi che circondano Sant’Anna. Ma, come già era accaduto in occasione di precedenti allarmi del genere, solo gli uomini tra i 18 e i 60 anni cercarono scampo. Fino a quel momento, infatti, l’incubo della rappresaglia aveva sempre risparmiato, almeno nello Stazzemese, i vecchi, le donne e i bambini.
Nessuno in paese, quella mattina, poteva sospettare che i tedeschi fossero decisi a uccidere senza pietà, quali “fiancheggiatori” dei partigiani, tutti gli abitanti di Sant’Anna. Nessuno poteva immaginarlo, ad eccezione però di alcune persone: i capi partigiani comunisti della zona. Questi, infatti, sapevano benissimo che i tedeschi, quando ritenevano di dover eliminare qualsiasi presenza partigiana in un determinato settore, non esitavano a massacrare anche i civili che abitavano nella zona. Lo sapevano anche perché proprio in quelle ultime settimane, e specie nel territorio della provincia di Arezzo, centinaia di innocenti erano stati trucidati nel corso di alcune feroci ritorsioni scatenate dalla attività criminose di formazioni partigiane rosse. Ma i capi comunisti, fedeli alle direttive della “guerra privata” condotta dall’organizzazione rossa, si guardarono bene dal mettere sull’avviso gli abitanti di Sant’Anna: a loro, quegli uomini, quelle donne, quei bambini, facevano più comodo da morti che da vivi, visto e considerato, tra l’altro, che nessuno degli abitanti del paese aveva voluto entrare nelle formazioni partigiane comuniste.>>
Un altro sopravvissuto, Mario Bertelli, in un primo momento pensò che comunisti alla fine sarebbero intervenuti in difesa del paese e della popolazione ma si trattò di una illusione che durò poco. Bertelli racconta <<(…) Dal mio nascondiglio potevo sentire l’eco degli spari e delle raffiche. La distanza mi impediva di udire le grida e le invocazioni d’aiuto. Per un po’ di tempo ritenni così che i tedeschi sparassero più che altro per intimidire la popolazione come era già accaduto altre volte. Poi cominciai a vedere il fumo degli incendi. Bruciavano case un po’ dovunque. Mi resi conto che la situazione si stava facendo tragica. Ero solo, senza armi. Tornare in paese in quelle condizioni non sarebbe servito a nulla: non avrei potuto aiutare i miei familiari e sarei caduto subito nelle mani dei tedeschi. Trascorsi così ore di agonia. Alla fine gli spari diminuirono di intensità e poi cessarono del tutto. Mi avviai allora verso l’abitato. Avrei voluto correre ma ero troppo debole a causa della malattia: il terrore di quanto avrei potuto vedere in paese mi piegava le gambe. Quando giunsi, molte case stavano bruciando. Mi avvicinai alla prima: vidi alcuni cadaveri tra le fiamme. Allora corsi urlando come un pazzo verso la mia casa. Era stata distrutta dalle fiamme, ma tra le macerie infuocate non trovai alcun cadavere. Mi spinsi allora fino alla piazza della chiesa, da dove vedevo levarsi un fumo denso. Ma quando vi arrivai, una scena spaventosa mi inchiodò al suolo senza che avessi più la forza di avanzare di un passo: un mucchio enorme di cadaveri stava bruciando lentamente. Ad un tratto mi sentii afferrare convulsamente e una voce, quella di mio padre, singhiozzò: “Sono là dentro… tutti”. Seppi cosi che nell’orribile cumulo e erano anche mia moglie, mia madre, le mie sorelle Pierina e Aurora e mio nipote. La rappresaglia però non si accanì contro tutte le frazioni che compongono Sant’Anna. Nella frazione Sennari, per esempio, le SS diedero fuoco ad alcune case e radunarono tutta la popolazione in una piazzetta. Sistemarono quindi le mitragliatrici per falciare quei poveretti: giunse però all’ultimo momento un ufficiale che impedì il massacro.
Nella frazione Bambini, i tedeschi non bruciarono case e non uccisero alcuno. Le altre frazioni, invece, furono quasi tutte distrutte e gli abitanti massacrati. Non si è mai capito il perché di questa terribile selezione. Una risposta può essere data dal fatto che le SS conoscevano o perlomeno, credevano di conoscere l’ubicazione delle case nelle quali erano stati ospitati i partigiani o, peggio, dalle quali i partigiani avevano fatto fuoco contro i loro camerati. Infatti durante il rastrellamento, accanto ai tedeschi c’era un ex partigiano comunista di nazionalità polacca, diventato spia delle SS (di norma i partigiani presi prigionieri, per evitare di essere fucilati, tradivano sistematicamente i loro compagni, mandandoli a morte certa, oppure si mettevano al servizio dei tedeschi indicando loro le frazioni da distruggere e le famiglie da massacrare perché nascondevano partigiani).
I tedeschi compirono la loro rappresaglia e se ne andarono, dopodiché i partigiani, che erano rimasti a godersi lo spettacolo nascosti poco distante dal centro abitato, rientrarono in paese per compiere ció che fu sempre la prerogativa di questi sciacalli , il saccheggio delle case e l’espoliazione dei cadaveri, non mancando mai di strappare persino eventuali protesi dentarie in oro.
Racconta Amos Moniconi:<<(…) Fu allora che qualcuno mi disse che era necessario seppellire subito i morti. Raccolsi un pò di attrezzi e scavai una grande buca. Poi vi trasportai le salme dei miei congiunti e cercai di comporle prima di seppellirle. Mentre mi stavo dedicando a questa terribile incombenza, vidi i partigiani. Erano due. Uno lo conoscevo bene da tempo: era un milanese che si faceva chiamare “Timoscenko”. Si avvicinarono a me. Notai subito che avevano le tasche piene di portafogli, oggetti d’oro e d’argento. Se ne erano infilati anche dentro la camicia. Li guardai senza parlare. “Timoscenko” allora mi disse: “Devi consegnarci tutti i soldi e gli oggetti di valore che trovi sui morti. Siamo noi che dobbiamo prenderli in consegna”. Mi sentii salire il sangue alla testa; impugnai la piccozza e la alzai di scatto; “Vattene” gli dissi… “Vai via se non vuoi che ti spacchi il cranio”. “Timoscenko” esitò un momento poi, senza replicare, si allontanò”. Sul conto di questo “Timoscenko” e altri partigiani comunisti ne abbiamo sentite raccontare di tutti i colori. Furono visti entrare nelle case dove non era rimasto vivo più nessuno e uscirne dopo aver fatto man bassa. Furono anche visti spartirsi il bottino.
Il racconto di Amos Moniconi fu confermato da Teresa Pieri, una delle superstiti la quale, raccontando ciò che vide qualche giorno dopo la strage affermò <<(…)scesi a Valdicastello, in una strada riconobbi due partigiani comunisti che avevo visto tante volte a Sant’Anna. Mi avvicinai e mi accorsi che si stavano dividendo soldi, braccialetti, catenine d’oro. Tutta roba rapinata sui cadaveri dei nostri cari>>.
Vincenzo Ballerino
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