La rilettura storica dell’esperienza della Repubblica Sociale Italiana – la cui nascita venne annunciata da Benito Mussolini il 18 Settembre 1943 dai microfoni di Radio Monaco – si è, spesso e volentieri, intersecata con le vicende umane, politiche e combattentistiche delle sue formazioni militari o paramilitari. La cui esistenza permise alla giovane Repubblica di sopravvivere, resistere e anche di potersi affermare, nei limiti del possibile, sul terreno militare.
Purtroppo, non sempre le vicissitudini individuali hanno potuto rappresentare con efficacia una esauriente chiave di lettura, tantomeno le motivazioni di ordine interiore, per quanto logiche e anche sinceramente animate da un generoso entusiasmo giovanile, sono riuscite ad evidenziare la complessa e drammatica vicenda storica e politica dell’ultima “creazione” di Mussolini.
Emerse negli anni del dopoguerra una lettura fortemente “spoliticizzata”, a tutt’oggi imperante, tendente a porre soprattutto in evidenza, in maniera del tutto esclusivistica, la scelta di natura patriottica dettata dalla, certamente più che nobile, motivazione dell’esigenza di salvaguardare, a qualsiasi costo, l’Onore nazionale tradito e lo schieramento di campo a fianco dell’alleato germanico dall’umiliazione e dalla vergogna del tradimento consumato dai Savoia e dalle alte gerarchie militari.
Una apologetica lettura apolitica che celebrava l’eroismo e il sacrificio dei volontari, ma quasi del tutto disinteressata – forse anche imbarazzata – nei confronti delle motivazioni politico-culturali che costituirono la sostanza della RSI e la radice del Fascismo repubblicano. Quasi si volesse arrivare ad una sostanziale de-fascistizzazione del fenomeno del volontariato, affinché i giovani soldati “repubblichini” potessero essere considerati – ovviamente dai vincitori – unicamente come dei soldati qualunque, privi di una etichettatura politica infamante, seppure vestiti con una diversa uniforme e appartenenti al campo avverso.
Purtroppo, ciò avvenne spesso a detrimento di coloro – che furono tanti – che della scelta di adesione alla Repubblica fascista privilegiarono la battaglia politica, lo sforzo decisivo per dare un senso compiuto al processo rivoluzionario fascista, la volontà di chiudere i conti con i “guasti” e gli orpelli del Ventennio e aprire un nuovo e vittorioso capitolo per l’Italia e per l’Europa. Necessariamente a fianco della Germania e della sua rivoluzione, che proprio in quegli anni manifestava apertamente il suo più autentico volto europeista e socialista e la comprensibile volontà di porsi come guida ordinatrice della realtà continentale europea.
Lo stesso Drieu La Rochelle, interpretando le aspettative e le ansie degli ambienti collaborazionisti francesi, riterrà opportuno premere sull’acceleratore della chiarificazione politica nei rapporti con la Germania: “Vi sarà un’egemonia come sempre vi è stata, ma più rigorosa. In quanto sarà chiaramente impossibile tornare alle piccole autonomie nazionali ed alle frontiere economiche. Ci vorrà una grande autorità, per nutrire trecento milioni di uomini affamati e stanchi, per organizzare l’autarchia africana, per organizzare il Socialismo continentale.” Parole nette, lucide e chiare che volevano cancellare qualsiasi eventuale dubbio sull’inevitabile ruolo di baricentro e di guida politica che sarebbe stato svolto dalla Germania nazionalsocialista nell’organizzazione della nuova Europa.
Pertanto, la memorialistica reducistica degli ex combattenti – per sua intima valenza consapevolmente impolitica – si fermerà ad un guado controverso, oltre il quale si poneva la consistenza squisitamente politica della RSI, la figura di Benito Mussolini, probabilmente la più autentica fra quelle consegnateci dalla storia e il consequenziale fenomeno delle Brigate Nere, corpo politico-militare per eccellenza e dichiaratamente fascista.
Fin dalla proclamazione della RSI, e ancor da prima, alla notizia della liberazione di Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso, si costituirono spontaneamente, in varie località del centro-nord, formazioni politiche armate denominatesi, guarda caso, proprio “Squadre d’Azione”; esse costituirono i primi fermenti organizzativi dei fascisti che non avevano mai cessato di essere tali, decisi a fronteggiare con decisione – che potremmo definire quadristica – la drammaticità degli eventi in corso.
Sembrava giunto il momento tanto atteso del riscatto e forse anche dei tanti conti in sospeso da saldare, una volta per tutte.
Ovviamente rappresentarono l’incubazione embrionale naturale e funzionale per il successivo radicamento territoriale del Partito Fascista Repubblicano, prontamente organizzato da Alessandro Pavolini con instancabile dedizione. L’ex ministro del Minculpop del Ventennio, uomo di rara intelligenza e di ancor più vasta cultura, fu uno dei pochi “gerarchi” famosi che si schierò prontamente al fianco del Duce nell’avventura repubblicana in cui sinceramente credette e nella quale riponeva le migliori speranze per una radicale rigenerazione del Fascismo.
Nella persona di Alessandro Pavolini si giunse così all’identificazione totale tra radicalismo politico-sociale ed intransigenza etica, tra un assoluto rigore morale e una bruciante passione idealistica. La stessa tenuta retta e dignitosa manifestata di fronte al plotone di esecuzione partigiano ce ne lascia ampia testimonianza.
Fu proprio Pavolini, in qualità di segretario del PFR, a volere la nascita del Corpo Ausiliario delle Squadre d’Azione delle CC.NN. come effetto della militarizzazione dei compiti politici del Partito, le federazioni del partito si trasformeranno in Brigate e si fregeranno del nome di un caduto per la causa fascista, non si useranno gradi ma si evidenzieranno unicamente le funzioni di comando, la stessa strutturazione interna sarà innovativa e funzionale alle circostanze e ricorderà molto quella dei Freikorps dell’epopea del Baltikum e non casualmente il capolavoro di Ernst Von Salomon I Proscritti accompagnerà, nel tascapane, molti squadristi delle Brigate Nere.
Il partito-combattente, il partito-armato del Fascismo repubblicano era nato. Gli intransigenti porta-spada dei 18 punti del Manifesto di Verona avrebbero fatto sentire la loro voce e tutti l’avrebbero sentita.
L’ufficializzazione avverrà con il Decreto Legislativo del Duce del 30/6/1944 e scatenerà numerose polemiche fra gli organismi politico-amministrativi della RSI.
In maniera particolare prevarranno le animosità contrariate del maresciallo Graziani, comandante dello Stato Maggiore dell’Esercito repubblicano, del principe Junio Valerio Borghese, il carismatico comandante della X MAS e di Renato Ricci comandante della GNR.
Il primo, assertore di una presunta indispensabilità apolitica delle forze armate e di un necessario ammorbidimento del tono fascistizzante della Repubblica, non poteva che avversare chi rimarcava invece la natura squisitamente fascista dello Stato repubblicano e la conseguente supremazia del principio politico anche in campo militare; il secondo ponendosi sulla falsa riga di Graziani vi aggiungeva inoltre la propria natura di “battitore libero”, una “vocazione guerriera” di stampo rinascimentale di cavaliere di ventura, una personalità avulsa da qualsiasi tipo di pressione o di condizionamento, anche se proveniente da Mussolini in persona, tanto meno da parte delle gerarchie politiche di un partito di cui non aveva nemmeno la tessera e della cui esistenza avrebbe fatto volentieri a meno; infine il terzo, Renato Ricci, che vedeva nelle Brigate Nere uno scomodo concorrente per la sua GNR., che fino ad allora si premurava di presentare come l’unico corpo “fascista” della RSI, in virtù del fatto che era sorta dalla fusione di ciò che rimaneva della Milizia con i Carabinieri e con la PAI – la Polizia Africa Italiana – in realtà un connubio poco proficuo e ancor meno felice, visto che il grosso dei Carabinieri gradualmente diserterà o verrà deportato in Germania, riducendo di fatto l’organico e l’efficacia dei presidi territoriali gestiti dalla Guardia Nazionale Repubblicana.
Nonostante tutto questo e con l’incondizionato favore di Mussolini, le Brigate Nere incominceranno speditamente la loro marcia, quella che Alessandro Pavolini definirà la marcia della Repubblica Sociale contro la Vandea monarchica, reazionaria e bolscevica, riprendendo quanto aveva detto Mussolini nel corso di un suo discorso del 27/10/1930: “Odio controrivoluzionario; odio di reazionari; odio di conservatori, che ci onora e ci esalta; è la Vandea universale, liberale, democratica, massonica che teme per i suoi feticci, che vede crollare i suoi altari, che sente smascherare le sue mistificazioni. Noi lottiamo contro un mondo al declino, ma ancora potente perché rappresenta una enorme cristallizzazione di interessi”.
Il segretario del Partito aveva in mente un modello da utilizzare come metro di paragone e come analogia: il soldato politico delle Waffen SS, il combattente politico della guerra di Weltanschauung continentale; e ancor di più aveva ben chiaro le finalità che dovevano animare i suoi squadristi: combattere tenacemente il nemico interno, fronteggiare l’invasione anglo-americana, legarsi politicamente ancor più saldamente al popolo e conseguire i frutti rivoluzionari di una guerra fascista portata fino in fondo, fino alle estreme conseguenze.
In linea con quanto disse il Duce a Milano nel 1944 agli squadristi della Brigata Nera Aldo Resega: “A chi ci domanda: che cosa volete? Rispondiamo con tre parole nelle quali si riassume il nostro programma. Eccole: Italia, Repubblica, Socializzazione. Italia, per noi nemici del patriottismo generico, concordatario e in fondo alibista, quindi inclinante al compromesso e forse alla defezione, Italia significa onore e onore significa fede alla parola data. La nostra Italia è repubblicana. Esiste al nord dell’Appennino la Repubblica Sociale Italiana. E questa repubblica sarà difesa palmo a palmo, sino all’ultima provincia, sino all’ultimo villaggio, sino all’ultimo casolare. Quali siano le vicende della guerra sul nostro territorio, l’idea della Repubblica, fondata dal Fascismo è entrata nello spirito e nel costume del popolo. La terza parola del programma, Socializzazione, non può essere considerata che la conseguenza delle prime due: Italia e Repubblica. La Socializzazione altro non è che la realizzazione italiana, umana, nostra effettuabile del Socialismo. Con questo noi vogliamo evocare sulla scena politica gli elementi migliori del popolo lavoratore. Poiché il più grande massacro di tutti i tempi ha un nome – Democrazia – sotto la quale parola si nasconde la voracità del Capitalismo giudaico che vuole realizzare attraverso la strage degli uomini e la catastrofe della Civiltà lo scientifico sfruttamento del Mondo”.
Quando furono ufficialmente costituite le Brigate Nere, nella loro qualità di organo militarizzato del PFR, si produsse un evento politico concreto, espressione di una politica rivoluzionaria applicata dove quella vocazione popolare e idealistica che erano state alla base del Fascismo delle origini e dell’epopea quadristica tornavano prepotentemente in auge, ma ancor di più motivate e decise nei toni, innalzando all’ennesima potenza il suo carattere di élite rivoluzionaria che nata dal popolo andava verso il popolo.
Non erano stati francamente numerosi i casi in cui il Fascismo, durante il regime, aveva prodotto misure di rottura netta ed inequivocabile con le istituzioni precedenti.
Di prove in senso contrario, piuttosto, se ne ebbero in abbondanza. Basterebbe solamente pensare al caso della MVSN, la milizia fascista, che venne costretta ad essere inquadrata nei ranghi dell’esercito regio e con tanto di giuramento di fedeltà alla monarchia, cosa che creò non poche inquietudini a numerosi fascisti, consapevoli che quella operazione di vertice andava a neutralizzare il potenziale politico della stessa, abolendone l’autonomia e minandone di fatto la fedeltà al regime fascista.
Non a caso dopo i fatti del 25 Luglio, il crollo del regime e l’arresto del Duce, la MVSN non costituì alcun problema per il nuovo governo di Badoglio.
La creazione delle Brigate Nere, cioè la militarizzazione del PFR, rappresentò invece uno dei segnali più visibili di un nuovo determinismo politico in corso d’opera.
Fu la risultante di una volontà comune che, partita dai luoghi dell’azione e dalle località dove la realtà della guerra civile era concreta esposizione quotidiana allo stillicidio, rimise in moto spontaneamente l’antica prassi squadristica del tonificare gli uomini, del fare fronte comune, del rispondere colpo su colpo al nemico.
Niente sarebbe rimasto più impunito.
Alessandro Pavolini, nella sua esemplare coerenza spinta fino al sacrificio ultimo, incarnerà la realizzazione di una volontà più che politica, pienamente ideologica, profondamente compenetrata spiritualmente con il Fascismo: una virile mistica della lotta e della rivoluzione. Una possente volontà che integralmente trasmetterà agli uomini delle Brigate Nere, perché la guerra contro il ribellismo delle bande partigiane era vera guerra rivoluzionaria, era esaltazione nietzschiana del superamento di ciò che ancora era troppo umano.
Storie di guerra, di sangue versato per nutrire la sacra terra della Repubblica. Storie di passione ideologica che non arretrava di fronte a niente, fino al consumarsi del sacrificio, perché non tutti avevano tradito. Quindi, Storia, Sangue e Onore di una Stirpe, quella fascista, che nella militanza nei ranghi delle Brigate Nere inquadrò il significato più intenso del Fascismo e della RSI.
Maurizio Rossi
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