Se si dovesse definire cosa significa il termine “sinistra” (o “destra”, ma questo è un discorso che lasciamo per un’altra volta), ci si troverebbe in serie difficoltà. La definizione che viene più facilmente in mente a molti potrebbe suonare all’incirca “essere dalla parte delle classi lavoratrici” o qualcosa di simile, ma sarebbe una definizione anacronistica che non trova alcun riscontro nella realtà. Oggi in concreto la sinistra è la nemica peggiore delle classi lavoratrici. I politici che fanno parte di questo schieramento fingono di non rendersi conto che il favoritismo che dimostrano nei confronti dell’immigrazione, per l’inevitabile legge della domanda e dell’offerta, importando sul nostro mercato dell’occupazione braccia non qualificate a bassissimo prezzo, deprezzano l’offerta rappresentata dai nostri lavoratori, e questo sta gradualmente e ineluttabilmente facendo arretrare le conquiste sociali degli ultimi due secoli, e fingono di non avvedersi quanto i loro intenti coincidono con gli interessi del capitalismo finanziario più sfrenato.
Allo stesso modo la loro vocazione cosmopolita li spinge a farsi paladini di una “Europa” parassitaria e prona ai voleri dell’altra finanza, le cui istituzioni, a cominciare dalla privazione della sovranità monetaria degli stati nazionali, serve unicamente a succhiare le risorse degli stati europei, privandoli, a unico beneficio di una ristretta élite di parassiti, della ricchezza prodotta dal lavoro dei popoli d’Europa.
In realtà, però, il divorzio fra la sinistra e la causa dei lavoratori non è cosa di adesso, la prima frattura risale a quasi un secolo fa, risale a una data precisa, quello che per il calendario giuliano ancora in uso nella Russia zarista era ancora ottobre, ma per quello gregoriano oggi comunemente in uso, è il 7 novembre 1917, una data tragica nella storia dell’umanità. Per tutto il XIX secolo, “sinistra” aveva avuto un significato relativamente preciso: essere per il suffragio universale, le libertà, i diritti, i ceti subalterni. A partire da quel momento diventa sinonimo della più feroce autocrazia della storia moderna.
Come ha scritto Jean François Revel:
“La pretesa delle antiche élite di governare la società nel loro esclusivo interesse non si è estinta, ma si è reincarnata nelle classi dirigenti del Socialismo Reale”.
Tuttavia la vera, irreversibile frattura fra “socialismo” e classi subalterne, tra sinistra e popolo, non si è probabilmente verificata allora ma mezzo secolo più tardi, con i famosi movimenti del ’68 sul cui reale significato si è profondamente equivocato (a loro favore).
La contestazione nacque come “coda” della guerra del Vietnam. Gli Stati Uniti giustificavano il loro ruolo egemone nel mondo non comunista con la difesa degli stati “alleati” (in realtà vassalli, ma per ora prescindiamo) da una possibile aggressione comunista. L’avevano fatto in Corea, non potevano tirarsi indietro in Vietnam, oggetto di un attacco analogo. Tuttavia, fra le due guerre estremo-orientali, il clima negli USA era decisamente cambiato, era arrivata all’età adulta una generazione cresciuta nella società del benessere per la quale l’idea di indossare una divisa e andare a combattere per la propria patria era semplicemente intollerabile.
La protesta contro la guerra del Vietnam si estese dai campus americani all’Europa. Ora – s’intende – i ragazzi francesi, tedeschi, italiani non correvano alcun rischio di essere spediti a combattere nelle giungle vietnamite, ma in questo caso si creava una sorprendente sinergia fra la tendenza a imitare tutto quel che veniva dagli USA con l’infiltrazione ideologica di sinistra.
Non è per nulla casuale che l’epicentro europeo della contestazione fosse in Francia, in particolare nell’università parigina della Sorbona dove da tempo c’era una “cultura” maggiormente “spostata a sinistra” che nel resto dell’Europa. Questi ragazzi erano allievi della generazione dei “nouveaux philosophes” a loro volta discepoli di Sartre e Lacan che avevano modellato un “nuovo” marxismo innestando sulle tematiche dell’autore di Treviri massicce dosi di esistenzialismo, psicanalisi, scuola di Francoforte; una mistura di cui forse Marx sarebbe stato il primo a essere schifato.
Questi giovani che si allineavano dietro gli striscioni della contestazione, è quasi superfluo rimarcarlo, erano tutti pasciuti rampolli dell’alta borghesia.
Ricordiamo che nello stesso periodo la Sorbona allevava leader terzomondisti che si sarebbero rivelati i più accaniti nemici del mondo occidentale, dagli ajatollah iraniani ai Khmer rossi.
In parallelo, si river
savano in Europa anche suggestioni provenienti dalla Cina. Era il periodo della cosiddetta rivoluzione culturale, quella che oggi i Cinesi ricordano come la “follia di dieci anni”. Ciò che era accaduto realmente era che, dopo che il gruppo dirigente cinese aveva estromesso l’anziano “grande timoniere” Mao Dse Dong per avviare una serie di modernizzazioni di stile tecnocratico, l’entourage del vecchio presidente guidato dall’ultima moglie dello stesso, il “cerchio magico” poi ricordato come “banda dei quattro” aveva ribaltato le carte in tavola con una mobilitazione degli elementi più fanatici del partito, le “guardie rosse”, assunto il comando e imposto un “socialismo” arcaico e antimoderno che provocò un forte arretramento dell’economia del grande Paese asiatico oltre a un feroce giro di vite verso coloro che erano sospettati di essere in qualche modo degli oppositori.
savano in Europa anche suggestioni provenienti dalla Cina. Era il periodo della cosiddetta rivoluzione culturale, quella che oggi i Cinesi ricordano come la “follia di dieci anni”. Ciò che era accaduto realmente era che, dopo che il gruppo dirigente cinese aveva estromesso l’anziano “grande timoniere” Mao Dse Dong per avviare una serie di modernizzazioni di stile tecnocratico, l’entourage del vecchio presidente guidato dall’ultima moglie dello stesso, il “cerchio magico” poi ricordato come “banda dei quattro” aveva ribaltato le carte in tavola con una mobilitazione degli elementi più fanatici del partito, le “guardie rosse”, assunto il comando e imposto un “socialismo” arcaico e antimoderno che provocò un forte arretramento dell’economia del grande Paese asiatico oltre a un feroce giro di vite verso coloro che erano sospettati di essere in qualche modo degli oppositori.
A questo va aggiunto il fatto che i rapporti fra Cina e Unione Sovietica erano da tempo pessimi NON per motivi ideologici ma per contrasti d’interesse fra le due grandi potenze dell’area “rossa”, e questo poteva suggerire ai più sprovveduti l’idea di un comunismo diverso da quello sovietico che in fatto di inefficienza economica, miseria elargita al popolo, oppressione, mancanza di libertà, violazioni dei diritti umani, aveva da tempo mostrato la corda.
Poiché a causa della distanza, della differenza culturale, ma soprattutto della censura, di quel che avveniva nel grande Paese asiatico, non si sapeva praticamente nulla, ecco che la Cina diventava una sorta di gigantesca macchia rorschach dove chiunque poteva proiettare le sue illusioni, le sue utopie, e anche da noi in Europa si crearono correnti ed effimeri partiti maoisti. Noi oggi sappiamo che l’unica vera differenza fra il comunismo sovietico e quello cinese, almeno fino a che è vissuto il presidente Mao, è stata una maggiore brutalità, una maggiore spregiudicatezza nel violare i diritti umani da parte di quest’ultimo.
C’è un altro fattore che va considerato e che in definitiva è quello più importante. Ricordo una notizia passata quasi inosservata sui media di allora quasi fosse una notiziola di poco conto, si vede che erano già arrivati gli “eskimi in redazione”. Rudy Duscke, il leader dei contestatori della Germania occidentale (a quel tempo la Germania era divisa, e questo è un fatto d’importanza non secondaria), l’equivalente di Daniel Cohn-Bendit in Francia e di Mario Capanna in Italia, si era seriamente ammalato, e ai suoi genitori che vivevano nella DDR, nella Germania est, era stato dato il visto per potersi recare in Occidente a visitarlo, cosa che a quei tempi, almeno per i comuni cittadini della DDR, non era certo facile ottenere.
A questo punto, basta saper fare due più due: un uomo la cui famiglia viveva nella DDR era un uomo facilmente ricattabile e manovrabile. C’è un discorso che non è mai stato fatto, che si è evitato di fare. Quale peso hanno avuto nei movimenti contestatori l’Unione Sovietica e per sua procura i servizi segreti degli stati dell’Est europeo? Io credo, assolutamente determinante. E’ assolutamente verosimile che i contestatori fossero strumentalizzati e manovrati dal blocco sovietico: l’assalto ideologico al mondo non comunista era un sostituto di quell’aggressione militare che l’ “ombrello nucleare” americano sull’Europa occidentale rendeva impossibile.
Adesso è opportuno tornare a considerare da vicino le vicende di casa nostra, perché se quella che altrove fu solo una stagione, in Italia durò almeno un quindicennio con in più la sanguinosa “coda” del terrorismo brigatista, è perché le suggestioni che venivano dall’estero si saldavano su situazioni “nostre” di rilevanza tutt’altro che secondaria.
Cominciamo col notare che in Italia la contestazione ha avuto una radice marxista ma anche cattolica: don Mazzi con l’Isolotto, don Milani con la scuola di Barbiana alla quale si è formato anche Renato Curcio, il leader delle Brigate Rosse.
Se c’è un’arte che la Chiesa cattolica ha sviluppato nei secoli in maniera davvero ammirevole, è quella di fare due parti in commedia, di essere potere e contemporaneamente presentarsi come contestazione, opposizione, dissenso, e godere dei vantaggi di entrambe e situazioni passando dall’una all’altra con disinvolta ipocrisia.
Tuttavia questo non avrebbe avuto molto peso se non vi fossero stati dei motivi più profondi, strutturali. Negli anni ’60 la società italiana si è trasformata da una società a economia prevalentemente agricola a una a economia prevalentemente industriale, sono gli anni del miracolo economico. Cerchiamo di avere ben chiaro un concetto importante: trasformazioni come queste non sono come cambiare un governo, sono mutamenti di lungo periodo. In Italia il fascismo aveva dato un decisivo impulso alla modernizzazione del Paese, senza però arrivare a vederne i frutti a causa della guerra. Dopo e nonostante la gelata della guerra, i buoni semi piantati dal fascismo sono germogliati, l’eccellente sistema delle partecipazioni statali che ha contemperato fino agli anni ’80 economia pubblica e economia privata, gli istituti sociali e previdenziali volti alla tutela dei lavoratori, delle famiglie, dell’infanzia, e la democrazia antifascista ha semplicemente vissuto di rendita, o ne ha rovinato l’opera per dilettantismo, corruzione “finanza allegra” permeabilità alla criminalità mafiosa.
Un dato per tutti reso evidente dall’impietosa legge matematica delle statistiche: fino al 1970, le differenze di tutti gli indici economici fra nord e sud hanno teso a ridursi. Dopo di allora, “la forbice” ha preso ad allargarsi di nuovo. Qualche anno fa in un talk show televisivo, il nostro (penso che lo si possa chiamare così) Luca Barbareschi lasciò tutti di sasso affermando che se oggi la Spagna, un tempo molto a
rretrata rispetto a noi, oggi ci sta superando in ogni campo, è perché ha potuto beneficiare di un regime fascista fino agli anni ’70, e nessuno si azzardò a cercare di contraddirlo.
rretrata rispetto a noi, oggi ci sta superando in ogni campo, è perché ha potuto beneficiare di un regime fascista fino agli anni ’70, e nessuno si azzardò a cercare di contraddirlo.
Il mezzo attraverso il quale la società trasmette alle generazioni emergenti le conoscenze e le competenze necessarie a farla proseguire, valorizza il suo capitale più prezioso, cioè il capitale umano, è la scuola. Ora, anche a questo riguardo, c’è un concetto importante da capire. Una scuola selettiva come quella introdotta dal fascismo con la riforma Gentile del 1925, una scuola selettiva, era un importante strumento di promozione sociale per i ragazzi provenienti dai ceti subalterni. E’ chiaro che il rampollo di una famiglia alto-borghese che viene da un ambiente che in partenza ha una maggiore cultura, dove non mancano i soldi per ripetizioni e scuole private, sarà avvantaggiato rispetto a un figlio di lavoratori; lo strumento non è perfetto, ma si può dubitare che vi sia cosa umana che lo sia, tuttavia quest’ultimo avrà una strada più in salita, ma una possibilità che altrimenti non avrebbe.
Cosa succede invece con una scuola che non seleziona e non boccia? Una scuola che finisce per distribuire titoli di studio che sono dei pezzi di carta inflazionati? Poiché il vertice della piramide sociale non può essere allargato a piacere, la selezione cacciata dalla scuola ricompare al di fuori di essa, affidata a criteri molto più iniqui, che non saranno la conoscenza, la competenza e il merito, ma lo status sociale della famiglia di origine, le raccomandazioni, le tessere di partito, magari le affiliazioni a clan di criminalità organizzata. La scuola che non boccia, come la voleva don Milani, è una scuola che non promuove (socialmente).
Ora, guarda caso, la contestazione scoppiò da noi proprio nel momento in cui i giovani universitari, allora in massima parte di estrazione altolocata, erano premuti alle spalle dalla scolarità di massa prodotta dal miracolo economico. Essa, unita a una scuola selettiva che premiasse capacità e merito, avrebbe reso loro molto difficile riprodurre la collocazione professionale e sociale dei loro genitori. Distruggendo quest’ultima, trasformandola in un distributore di pezzi di carta svalutati, si sarebbero messi al sicuro, come difatti avvenne.
La contestazione fu un’operazione di conservazione sociale mascherata da fenomeno rivoluzionario: tanti piccoli Metternich travestiti da Robespierre. Io sono nato nei primi anni ’50 da una famiglia di estrazione in una zona di confine fra operaio e piccolo borghese. Quando arrivai alla scuola superiore, ero naturalmente avverso alla sinistra, prima di tutto per la questione nazionale, a Trieste sempre viva e spinosa, ma anche perché ebbi subito la sensazione che “i compagni” perlopiù fra i più benestanti, stessero distruggendo un importante strumento di promozione sociale, stavano cercando di fregare alla grande me, e milioni di ragazzi come me, e bisogna ammettere che ci sono riusciti.
Quello che in pratica si disegnò fu un pactum sceleris, un accordo delittuoso fra i nuovi “compagni” perlopiù di estrazione alto-borghese e i partiti della sinistra: un avallo, una “benedizione” di ortodossia marxista a un’operazione di immobilismo sociale che danneggiava prima di tutto i figli delle classi lavoratrici (e l’Italia nel suo insieme, privata della possibilità di avere una classe dirigente realmente all’altezza delle sfide della nostra epoca, e non a caso, abbiamo cominciato a perdere terreno da allora), in cambio di una futura classe di apparatcik, di posizioni chiave nel mondo degli affari, in quello della cultura, del giornalismo, dell’istruzione, della magistratura e di una robusta iniezione di ideologia marxista in ogni aspetto della nostra vita culturale.
Quelli sono anche gli anni in cui, propiziato dalle “culture” beat e hippy, il consumo di sostanze stupefacenti comincia a diventare un fenomeno di massa, e la criminalità organizzata che si inserisce subito nell’immenso affare di questo mercato illegale, compie un grosso salto di qualità. La mafia, ricordiamolo, grazie al lavoro del prefetto Cesare Mori che non aveva guardato troppo per il sottile circa i mezzi da impiegare, il fascismo l’aveva praticamente sradicata. Con la seconda guerra mondiale gli Alleati ce l’hanno riportata in casa. Ora essa e altre associazioni di criminalità organizzata prendevano di fatto il controllo di vaste aree dell’Italia, favorite dal business della droga, ma anche dal fatto che nel clima “sinistro” di quegli anni, qualsiasi iniziativa tesa a rafforzare il potere dello stato e della legalità era immediatamente vista come autoritarismo e cripto-fascismo.
Questo non lo dico io, l’ha riferito nel suo libro L’inferno Giorgio Bocca, un autore non certo sospettabile di essere “dei nostri”, riportando la confidenza di un magistrato.
Per chi come me ha i capelli grigi, per chi li ha vissuti, è difficile non ricordarsi di quegli anni come di un lungo, atroce incubo. Tanto per dimostrare quanto democratici fossero, i “compagni” avevano scatenato la caccia al fascista, una sorta di permanente guerra civile a bassa intensità: Vogliamo ricordare qualcuna delle vittime e qualche episodio? Li conosciamo tutti: Sergio Ramelli, Mikis Mantakas, la strage di via Acca Larenzia, il rogo di Primavalle, ma tutti noi sappiamo bene che era necessario stare molto attenti a quello che si diceva e a come ci si muoveva.
Uno degli slogan che i “compagni” salmodiavano lugubremente era: “uccidere i fascisti non è reato”, ed era vero nel senso che i delitti compiuti contro di noi sono tutti rimasti rigorosamente impuniti.
Dalla contestazione al terrorismo il passo è stato relativamente breve. Man mano che il movimento contestatore cominciava a mostrare segni di cedimento e le manifestazioni di massa si facevano meno oceaniche, tendeva a prevalere l’organizzazione militare di chi aveva già scelto la violenza, “la critica delle armi” come strumento di lotta politica, la nascita di vari gruppi armati fra i quali spiccano in maniera eclatante le Brigate Rosse.
Un punto che perlopiù ci si è guardati bene dal rilevare, è che se costoro erano convinti di poter fare la rivoluzione con metodi terroristici, era per una percezione distorta degli eventi storici del 1943-45. I metodi dei brigatisti erano gli stessi dei partigiani con cui costoro avvertivano una forte continuità, spesso carnale, in più di un caso erano figli di partigiani, ed erano cresciuti nella leggenda che i metodi dei loro padri avessero “liberato” l’Italia. Diciamo la verità: le Brigate Rosse sono state figlie carnali e legittime della cosiddetta resistenza assai più della repubblica democristiana instauratasi dal 1948.
Dagli anni ’70 agli ’80 la situazione italiana è dominata da quella che è stata chiamata la “strategia della tensione” e anche a questo proposito esistono grossi fraintendimenti voluti, una storia che viene raccontata in maniera del tutto falsata.
Forse non è secondario il fatto che quest’espressione sia nata da una deformazione giornalistica del termine “strategia dell’attenzione” inventato da Aldo Moro. Con esso, il leader democristiano intendeva il dialogo con il PCI in vista dell’inserimento dei comunisti nella maggioranza e nella compagine governativa, che egli vedeva come risposta alle “sinistre” convulsioni che allora percorrevano l’Italia. Si può dire che egli, quando fu rapito e poi ucciso dalle Brigate Rosse, fu vittima della propria cedevolezza a sinistra.
Un concetto che occorre ribadire, è che Aldo Moro fu una vittima del terrorismo rosso, ma un eroe certamente non lo fu, e che la mitologia che si è poi cercato di costruire attorno a questo personaggio è in assoluto contrasto coi fatti. Ci sono le lettere da lui scritte durante il periodo del suo sequestro che sono di un’evidenza solare: “Trattate coi brigatisti, trattate, ho famiglia, non importa quel che succede dello stato”, il loro succo è questo.
A qualsiasi servitore dello stato in divisa, militare, poliziotto, carabiniere si richiede di rischiare la pelle, di essere disposto a sacrificare all’occorrenza la vita in cambio di uno stipendio che non si può certo definire lussuoso. E un uomo che ha responsabilità di primissimo piano nei vertici delle istituzioni se ne deve ritenere esente? Queste famose lettere ci fanno vedere un uomo senza coraggio, senza orgoglio, senza dignità, un tipico esponente della nostra classe politica.
E’ sintomatica anche la reazione degli altri politici del tempo, e credo che quelli di oggi si comporterebbero allo stesso modo, sono nati da uova della stessa covata: si pretese che Aldo Moro fosse impazzito, piuttosto che ammettere che se la facesse semplicemente sotto. Perché questa presa di distanze che sa di excusatio non petita? Ma è chiaro, perché erano e sono uomini della stessa risma, avidi di godere dei privilegi del potere, ma non disposti ad assumersene e responsabilità e i rischi.
Le Brigate Rosse continuarono a imperversare fino a quando non osarono rapire un generale americano, il generale Dozier, allora furono stroncate da una ventata di arresti che ne provocò il declino. C’è da sospettare che allora entrarono in campo mezzi, soprattutto di intelligence, cui fin allora non si era fatto ricorso. Come dire che agli USA importava ben poco finché ci ammazzavamo fra noi servitori e ascari, ma guai a toccare uno dei padroni, uno dei superuomini a stelle e strisce!
Torniamo alla Strategia della Tensione, al suo capitolo più sanguinoso, la politica delle bombe. Quante volte l’abbiamo sentita raccontare, quante volte si racconta ancora la storiella che la fa risalire a “ambienti neofascisti con la complicità di pezzi deviati dei servizi segreti”! Andiamo! Nessuno stato, nemmeno una repubblica delle banane come quella di cui abbiamo la disgrazia di essere cittadini, può permettersi di avere in un ruolo delicato come i servizi segreti uomini meno che affidabili. Se partiamo dal presupposto che i servizi segreti “deviati”, deviati non o fossero affatto, ma agissero agli ordini della classe politica al potere, i conti finalmente tornano.
Ricordiamo che allora l’Italia era effettivamente sotto un attacco terroristico, quello brigatista. L’esperienza, soprattutto sudamericana di gruppi come i tupamaros e i montoneros, ha dimostrato soprattutto una cosa, che gli attacchi di questi gruppi hanno avuto soprattutto un effetto, quello di “spingere a destra” l’opinione pubblica di quei Paesi, cosa che ha reso poi possibili i golpe militari, che per avere successo hanno anch’essi bisogno di una base di consenso nella popolazione. Mettiamo che si voglia evitare un analogo “spostamento a destra” dell’opinione pubblica italiana. Cosa di meglio che inventare di sana pianta un “terrorismo nero” contrario e simmetrico?
Credete fosse tanto difficile per uomini dei servizi segreti infiltrarsi negli ambienti “nostri” e reclutare qualche elemento più sprovveduto e influenzabile, e indurlo a mettere una bomba persuadendolo che in tal modo avrebbe “fatto la rivoluzione”? Un esempio da manuale in questo senso è p
robabilmente quello della strage di Brescia, il cui autore materiale, Ermanno Buzzi, era addirittura un soggetto psicolabile, a ogni buon conto ucciso in carcere prima di poter fare i nomi dei mandanti.
robabilmente quello della strage di Brescia, il cui autore materiale, Ermanno Buzzi, era addirittura un soggetto psicolabile, a ogni buon conto ucciso in carcere prima di poter fare i nomi dei mandanti.
Meglio ancora e minor fatica, se si poteva fare in modo di attribuire “ai neofascisti” una strage di tutt’altra matrice, e l’esempio più chiaro è rappresentato proprio dalla “madre di tutte le stragi”, quella della Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano, dove si cercò di ottenere un doppio risultato “incastrando” senza uno straccio di prova di una minima consistenza (ma in Italia i processi possono essere eterni) l’editore “scomodo” Franco Freda, esponente di un neofascismo intellettuale che faceva molto più paura al sistema di tutti i bombaroli, dopo aver sottratto al carcere quello che era con ogni probabilità il vero responsabile, l’anarchico Pietro Valpreda.
Quante volte vi è capitato di imprecare contro la “giustizia” italiana quando venite a sapere che uno stupratore o un omicida era già stato condannato per un delitto analogo e ciò nonostante se ne andava tranquillamente a spasso pronto a delinquere di nuovo? Bene, questo è un effetto di una legge che fu introdotta allora appositamente per rimettere Pietro Valpreda in libertà, e che stabilisce che la carcerazione non possa scattare prima dell’esaurirsi dell’ultimo grado di un procedimento, la legge Valpreda, che non porta il nome del suo promotore ma quello del suo principale beneficiario, e che da allora è rimasta nel nostro ordinamento.
Un caso analogo è stato rappresentato dalla strage alla stazione ferroviaria di Bologna del 1980. Le indagini non hanno mai portato ad uno straccio di prova concreta di un qualsiasi coinvolgimento di ambienti “neofascisti” in questo attentato, anzi sembrerebbero indicare una pista del tutto diversa, si sarebbe trattato di un carico di esplosivo destinato alla guerriglia mediorientale, esploso accidentalmente mentre era in transito nella stazione del capoluogo emiliano, che è uno dei principali snodi ferroviari italiani, tuttavia poiché Bologna è notoriamente la città più “rossa” d’Italia, si cominciò a inveire alla “strage fascista” ben prima che iniziassero le indagini. In seguito, l’allora presidente della repubblica Francesco Cossiga, forse l’uomo meno indegno fra quanti abbiano seduto sullo scranno del Quirinale, chiese pubblicamente scusa al MSI per l’immotivata campagna di odio scatenata contro di noi. Naturalmente, però, furono parole gettate al vento.
Questo clima di veleno è sostanzialmente proseguito fino alla caduta del muro di Berlino e dell’Unione Sovietica, e se oggi esso è meno intossicato, non è perché “i compagni” si siano in qualche modo ravveduti, che anzi semmai, ora che la loro utopia è miseramente fallita, l’antifascismo è rimasto il loro unico argomento, e tendono a rincarare le dosi, ma perché da allora quelli che hanno la facciatosta di dichiararsi apertamente comunisti sono molti di meno.
Siamo arrivati al punto in cui mi ero prefisso di arrivare alla fine della settima parte, ma non si deve pensare che la storia più recente, la nostra percezione di essa, dopo la scomparsa del mastodonte sovietico, siano oggetto di minori falsificazioni rispetto ad allora, e dovremo ancora proseguire col nostro discorso.
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