Come sapete, una delle cose che mi sono proposto, è di raccogliere almeno in parte gli scritti che in questi anni sono comparsi sulle pagine di “Ereticamente” in forma di libro. Un testo nel quale ho raccolto e riordinato gli articoli già apparsi sulle nostre pagine sul tema delle origini, e intitolato appunto Alla ricerca delle origini, è in attesa di pubblicazione presso l’editore Ritter, un’attesa – ve lo dico subito – che non terminerà in tempi brevi, a causa dell’attentato subito da questa casa editrice lo scorso aprile, come sempre, la violenza, assieme alla repressione poliziesca e le leggi liberticide, costituisce l’argomento principe dell’antifascismo.
Nell’attesa, ho messo in cantiere un secondo lavoro, forse più ambizioso del primo. Mettendo assieme gli articoli della serie Opus maxime rhetoricum con quelli di Una guerra sbagliata scritti in occasione del centenario del nostro intervento nella prima guerra mondiale e de La festa della vergogna dedicati ai settant’anni del 25 aprile, questa miserevole e ridicola festività con la quale l’Italia celebra la sconfitta nella seconda guerra mondiale come se si fosse trattato di una vittoria, attirandoci un ludibrio planetario, si poteva comporre un Manuale di storia alternativa, che non ha, beninteso, la pretesa di sostituirsi ai testi storici esistenti, ma vuole quanto meno invitare a rileggerli con occhio critico.
Detto e non fatto, mi sono subito accorto che alcuni pezzi da trasformare in capitoli andavano riveduti completamente, altri, per un minimo di completezza, andavano scritti ex novo.
Il pezzo che riporto qui di seguito, il capitolo dedicato al fascismo, ne è un esempio.
Se noi dessimo per buona l’interpretazione storica ufficiale, quella che trovate su tutti i libri di testo da settant’anni a questa parte, l’emergere dopo la prima guerra mondiale in Italia, in Germania, in tutta Europa dei movimenti fascisti sarebbe qualcosa di inspiegabile, una sorta di impossibilità logica. Attraverso le rivoluzioni del XIX secolo, il liberalismo e la democrazia avrebbero dato alla gente libertà e diritti; il socialismo (ovviamente quello marxista) aveva difeso le classi lavoratrici e lottato per il miglioramento delle loro condizioni di vita, ed ecco che ora milioni di uomini appartenenti in larghissima parte alle classi popolari, nonché una nutrita pattuglia di intellettuali fra le migliori teste pensanti della cultura europea, voltava le spalle all’una cosa e all’altra.
Davvero non occorrerebbe altro per sospettare che nella maniera in cui ci raccontano le cose, ci sia qualcosa di profondamente sbagliato.
Consideriamo la spiegazione marxista “classica”, il fascismo come “cane da guardia” della borghesia contro le rivendicazioni proletarie. Fosse vera, tutta la storia dal 1919 in poi, sarebbe un’inspiegabile stranezza. Innanzi tutto, bisognerebbe spiegare come mai essi non abbiano rappresentato in tutta Europa fra le due guerre delle ristrette pattuglie di mercenari, ma estesi movimenti di massa che hanno reclutato i loro appartenenti soprattutto fra le classi popolari, contrastando in maniera risoluta e per allora (fino a quando la situazione non fu stravolta dalla seconda guerra mondiale) nettamente vincente, l’influenza marxista fra le classi lavoratrici.
E’ innegabile che nella spiegazione marxista ci sia un barlume di verità, nel senso che a spingere tantissimi membri delle classi lavoratrici verso il fascismo fu precisamente la delusione rappresentata dalla rivoluzione bolscevica in Russia, che non portò alla realizzazione del “paradiso dei lavoratori” preconizzato da Marx, ma a una nuova, feroce autocrazia che distribuì al popolo russo soltanto abbondanti dosi di oppressione e miseria, ma si tratta precisamente del tipo di verità che “i compagni” non potevano guardare in faccia senza che ciò risultasse distruttivo per la loro visione del mondo.
Una scappatoia fu loro offerta da un’opera minore dello stesso Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte. Dopo la rivoluzione del 1848 che in Francia portò alla caduta della monarchia di Luigi Filippo, la repubblica allora instaurata subì una netta svolta a destra con l’elezione alla presidenza di Luigi Bonaparte, che nel 1851 si proclamò imperatore (Napoleone III) ricalcando le orme del suo illustre zio, dando vita al secondo impero napoleonico, destinato a durare fino alla sconfitta di Sedan del 1870. Per Marx si trattò semplicemente di un golpe opera di “soldataglie ubriache”.
Questo cliché delle “soldataglie ubriache” tornava ugualmente buono ora per “spiegare” i movimenti fascisti e, come nel caso del secondo impero napoleonico, era una spiegazione che non spiegava niente, e semmai evidenziava tutta l’incapacità di Marx e del marxismo di comprendere tutto ciò che non rientra nel suo schema ideologico. A Marx sfuggiva il semplice fatto che Napoleone III godeva di un forte appoggio popolare. Alla metà dell’ottocento, i Francesi avevano ancora un ricordo piuttosto vivo degli orrori della rivoluzione giacobina del 1789 e della scia di sangue e atrocità che essa aveva lasciato dietro di sé. Allo stesso modo “i compagni” rifiutavano ora di comprendere i reali motivi per i quali milioni di uomini appartenenti alle classi lavoratrici avevano voltato loro le spalle passando nel “campo avverso”.
Occorre ricordare, per quanto riguarda l’Italia, che la marcia su Roma del 28 ottobre 1922 non fu affatto un golpe come talvolta si dà a intendere, ma semplicemente un’imponente manifestazione i cui effetti furono soprattutto di pressione psicologica, e che Mussolini ebbe per il suo governo una normale investitura parlamentare. Ancora di più, va evidenziato che quando il 30 gennaio 1933 in Germania il presidente Hindenburg conferì il cancellierato ad Adolf Hitler, il partito nazionalsocialista era il partito di maggioranza nel Reichstag e nel Paese.
Certamente i fascismi ricorsero spesso alla violenza, violenza che però fu molto più e molto più spesso di quanto non si dica, risposta alla violenza “rossa” e difesa da quest’ultima, ma non si può nemmeno negare che intorno ad essi esistesse un forte elemento di consenso, che fu assolutamente determinante nella loro ascesa, un consenso che se prendessimo per buone le spiegazioni di parte marxista, rimane incomprensibile.
In mancanza di meglio, per dare una risposta a questo insondabile mistero, si ricorse a “spiegazioni” di tipo psicanalitico e psicopatologico, di cui sono esempi Psicologia di massa del fascismo di Wilhelm Reich e La mentalità autoritaria di Theodor Adorno, spiegazioni grottesche che sfiorano il ridicolo o, come nel caso del libraccio di Reich, lo raggiungono senz’altro.
Psicologia di massa del fascismo è oggi un testo ricordato con imbarazzo dagli stessi antifascisti democratici e marxisti, nonché dagli psicologi e psicanalisti di professione.
Per prima cosa, è un’evidente assurdità pretendere di spiegare movimenti politici di massa con un’importante rilevanza storica con fattori di psicopatologia personale.
Questo tuttavia è ancora il meno, se pensiamo che questi elementi psicopatologici Reich li identifica secondo il cattivo e semplicistico insegnamento freudiano in fattori di patologia sessuale e ci parla di impotenza orgasmica, solo pensare di applicare questo concetto a uomini dalla vita sessuale certamente esuberante come Benito Mussolini e Gabriele D’Annunzio, si cade francamente nel ridicolo.
Theodor Adorno usa un linguaggio più cauto e apparentemente più “tecnico”, tuttavia il vizio di fondo, quello di cercare di spiegare un movimento politico con un tratto caratteriale, rimane assolutamente lo stesso.
Adorno è stato un esponente della scuola di Francoforte, e Il “pensiero” della cosiddetta scuola di Francoforte non è, sinceramente, la cosa che io ami di più. Per un autentico marxismo si può provare almeno il rispetto che merita un avversario valente, ma prendere un po’ di marxismo, un po’ di psicanalisi, un po’ di fenomenologia, un po’ di esistenzialismo, mescolare il tutto fino a farne una pappa immangiabile ed illeggibile, una pappa che probabilmente avrebbe schifato lo stesso Marx, è una cosa che nel contempo desta compatimento e irritazione.
Nel suo libro, Adorno identifica il fascismo con La mentalità autoritaria, senza considerare il fatto ovvio che “autoritari” intesi caratterialmente, come del resto fanatici, imbecilli, corrotti, ma anche galantuomini, intelligenti, tolleranti, possono trovarsi in ogni punto dello schieramento politico.
In questo libro per la prima volta sarebbe stata attuata una sintesi del metodo psicanalitico con quello sociologico proprio della scuola di Francoforte, e mi è venuto da sorridere, perché tanta scienza, o tanta presunzione di scienza, mi è sembrata davvero sprecata.
Io credo e spero di non rappresentare un caso assolutamente atipico, ma le ragioni della mia scelta di campo politica mi pare di averle spiegate più di una volta: il fatto di essere nato a Trieste, su di un confine difficile, dove l’italianità è sempre minacciata, con alle spalle una nazione in cui la “democrazia antifascista” affermatasi (impostaci!) nel dopoguerra ha grandemente indebolito il senso di appartenenza nazionale; il fatto di essere nato negli anni ’50 e di essere approdato alla scuola superiore durante il periodo del ’68, quando i “compagni”, tutti di estrazione sociale elevata stavano distruggendo con la scuola tradizionale un importante strumento di promozione sociale, che mi ha messo d’emblee di fronte a tutta l’ipocrisia del movimento “rosso” ed alla falsità della sua presunzione di stare con le classi lavoratrici; infine, più avanti, dopo il declino della mostruosità “rossa”, l’emergere di nuove minacce alla nostra identità nazionale: la globalizzazione e l’americanizzazione sempre più spinte da un lato, dall’altro l’immigrazione che, in una nazione in ristagno demografico, rischia di cancellarne l’identità etnico-biologica.
Forse mi sbaglio, ma in tutto ciò non vedo altro che la tendenza molto umana e molto naturale a cercare di difendere se stessi, i propri diritti, il proprio futuro, quello dei propri figli, nulla che richieda per essere compreso, le elucubrazioni pseudo-psicanalitiche di Reich o quelle pseudo-sociologiche di Adorno.
Semmai, considerando sia l’assoluta delusione rappresentata dai regimi comunisti che non solo non hanno mai migliorato le condizioni di vita delle classi lavoratrici, non solo si sono rivelati incapaci di distribuire ai loro sudditi altro che oppressione e miseria, ma – caso unico nella storia umana – sono crollati per implosione, sotto il loro stesso peso come dinosauri deformi, sia le mille ipocrisie del sistema democratico dove, nonostante tutti i proclami teorici di libertà, crescono continuamente le fattispecie di reati d’opinione, cioè le idee che è proibito pensare, è piuttosto La mentalità democratica che richiederebbe di essere spiegata in termini di psicopatologia. E’ quello che tempo addietro mi sono provato a fare con un ampio articolo dallo stesso titolo pubblicato su “Ereticamente”, che faceva scopertamente il verso al libro di Adorno.
E’ forse il caso di ricordare che la più recente polemistica antifascista ha preso di mira persino due fra i più reputati storici del periodo fascista, Ernst Nolte e Luigi Salvatorelli. Gli autori de I tre volti del fascismo e di Interpretazioni del fascismo sono colpevoli non solo di aver riconosciuto ai fascismi stessi qualche positività, ma di aver affrontato la tematica con gli strumenti dell’indagine storica e della sociologia piuttosto che con quelli della demonologia e dell’esorcismo. Soprattutto oggi, man mano che il tempo ci allontana da quei fatti e i testimoni diretti dell’epoca inevitabilmente scompaiono, IL POTERE dietro la maschera della democrazia vorrebbe fissare per sempre la definizione del fascismo come male assoluto, che alla conoscenza storica e al ragionamento si sostituisse la reazione fobica.
Ovviamente, confrontarsi con il lato demonologico e stregonesco dell’antifascismo non ha senso, non più di quanto ne avrebbe discutere con un pazzo. Se invece ci confrontiamo con il barlume di razionalità che in qualche modo traspare nella “spiegazione” marxista, dobbiamo concludere che essa in definitiva non è meno ridicola, se si esaminano i fatti da vicino, delle elucubrazioni psicanalitiche di Wilhelm Reich.
Se davvero il fascismo fosse stato/fosse “il cane da guardia delle borghesia”, non si spiegherebbe come mai questo povero “cane” sia stato preso sistematicamente a calci, mentre “il lupo” bolscevico e marxista sia sempre stato regolarmente accolto nell’ovile con tutti gli onori.
Pensiamo alle vicende storiche tra le due guerre mondiali: mentre la stampa americana (ma anche inglese e francese) dipingeva a tinte fosche l’Italia e la Germania, preparando le rispettive opinioni pubbliche allo scontro che si sarebbe di lì a poco verificato (e intensamente voluto dalle leadership della parte “occidentale”), gli articoli di Walter Duranty sul “New York Times” (il “New York Times”, mica un giornaletto di provincia) dipingevano l’Unione Sovietica di Stalin nella maniera più idilliaca possibile. Pensiamo (ed è un argomento che dovremo riprendere ampiamente più avanti) alla guerra civile spagnola: tutte le simpatie e tutti gli aiuti “occidentali” andarono alla parte “repubblicana” cioè comunista, come se ritrovarsi due stalinismi convergenti verso il cuore del Vecchio Continente dal lato est e dall’angolo sud-occidentale dell’Europa fosse una prospettiva da poco.
Pensiamo alle modalità stesse dello scoppio della seconda guerra mondiale. Che Hitler fosse esasperato dalle persecuzioni subite dai tedeschi finiti sotto il dominio polacco in seguito agli innaturali confini tracciati dal trattato di Versailles, che la Polonia avesse rifiutato qualsiasi trattativa sulla questione di Danzica, sulla situazione innaturale che separava la Prussia orientale dal resto della Germania, per gli “occidentali” era una riprova della volontà tedesca di espandersi a livello planetario, e provocò l’intervento franco-inglese, ma che l’Unione Sovietica quindici giorni dopo aggredisse a sua volta la Polonia alle spalle, non procurò a Stalin nemmeno un benevolo rabbuffo delle diplomazie occidentali.
D’altronde, l’Unione Sovietica aveva stipulato con la Germania il patto Ribbentropp-Molotov per scopi esclusivamente difensivi. Che avesse aggredito la Romania togliendole la Bessarabia, tolto la Rutenia Subcarpatica alla Cecoslovacchia, che avesse invaso le tre repubbliche baltiche: Estonia, Lettonia, Lituania, che avesse aggredito la Polonia e si apprestasse a fare altrettanto con la Finlandia, erano tutte manifestazioni di pacifismo.
Pensiamo anche a quanto è accaduto dopo la caduta del muro di Berlino: la conversione dei cosiddetti ex comunisti ai (supposti) valori della democrazia occidentale è stata data per buona nel giro di una notte, e sugli orrori del comunismo è stato steso non tanto un velo pietoso, quanto un vello peloso e ipocrita, mentre verso di noi perdura un ostracismo giunto ormai alla terza generazione. Davvero occorre altro per dimostrare a dispetto della presunta analisi sociologica marxista, la piena CONSANGUINEITA’ fra capitalismo “occidentale” e comunismo, e la radicale contrapposizione DI ENTRAMBI a ciò che noi siamo?
Tutto ciò va soltanto nella direzione della conferma dell’interpretazione della storia europea degli ultimi secoli come complotto, la cospirazione che ha portato alla sostituzione delle tradizionali élite europee con l’oligarchia del denaro, e nel contempo la decadenza del nostro continente dalla posizione egemone a livello planetario che aveva fino a un secolo fa, e oggi prospetta la scomparsa dell’uomo europeo per effetto dell’immigrazione e del meticciato.
In questa prospettiva, il fascismo appare, SI SCOPRE come una fisiologica reazione immunitaria ai germi di decadenza che la cospirazione demo-marxista ha iniettato nel tessuto del nostro continente, tuttavia capiamo facilmente che non può essere definito in termini soltanto negativi, cioè considerando soltanto ciò a cui si è contrapposto/ci contrapponiamo.
In un’intervista rilasciata al giornalista Maurizio Blondet e da lui riportata nel libro Gli adelphi della dissoluzione, il filosofo Massimo Cacciari, considerato uno dei più importanti pensatori italiani viventi, ha definito il fascismo e il nazionalsocialismo “forme di neopaganesimo che cercavano di ricollegare la società a un Ethos”. Bisogna notare, e non è certo un particolare secondario, che Cacciari non è certo “dei nostri”, e questo rende ancora più importante una simile ammissione da parte di un pensatore di sinistra, un uomo che è stato portato dal PD alla carica di sindaco di Venezia.
Per comprendere il reale significato dell’affermazione di Cacciari, è necessario capire che cosa egli intende per ethos. Non si tratta come si potrebbe pensare, di una questione di morale o moralismo. Nelle antiche culture europee, soprattutto nel mondo greco-romano, l’ethos era l’insieme di usi e leggi che identificava l’appartenenza del singolo a una comunità.
“Ethos, o per i latini Mos, non è affatto ciò che noi oggi intendiamo per “etico” o “morale”. Ethos non indicava comportamenti soggettivi; indicava la “dimora”, l’abitare in cui ogni uomo si trova alla nascita, la radice a cui ogni uomo appartiene. In questo senso, un greco non era più o meno “etico” per sua scelta o volontà. Egli apparteneva a un ethos. A una stirpe, a un linguaggio, a una polis. Che non era stato lui a scegliere”.
Il concetto della morale come insieme di comportamenti soggettivi, introdotto dalla crisi dell’ethos antico portata dal cosmopolitismo ellenistico, e la distruzione definitiva di quest’ultimo, sono stati diffusi in Europa dalla cristianizzazione, che significa la fine di quell’unità di cultura, valori ed eredità di sangue che costituiva la comunità antica. Ripristinarla, rigenerarla come rimedio alla decadenza dell’Europa, è l’obiettivo di fondo che si sono proposti i fascismi “forme di neopaganesimo” a livello etico, e spesso inconsapevoli della loro implicita contrapposizione alla religione divenuta dominante in Europa negli ultimi due millenni.
Il fascismo italiano ha cercato una convivenza con il cattolicesimo e la Chiesa, con cui stipulò il concordato cercando di superare l’anticlericalismo risorgimentale, ma non si può negare che la Chiesa cattolica abbia sempre visto nel fascismo un nemico da combattere in ogni modo e con ogni mezzo. Il nazionalsocialismo era meno impacciato da remore e meno incline a compromessi del fascismo italiano. E’ noto che Adolf Hitler ebbe a dire che se il destino gli avesse concesso di vincere la guerra contro il bolscevismo, il resto della sua vita sarebbe stato dedicato alla lotta contro il “giudaismo culturale”.
A questi concetti andrebbe aggiunta una rilettura della Fenomenologia dello spirito di Hegel. Il grande pensatore tedesco ha avuto delle intuizioni geniali spesso stravolte però dalla sua tendenza all’astrattezza.
Nella Fenomenologia, Hegel ha individuato i tre momenti (tesi, antitesi, sintesi) dello spirito oggettivo come diritto, morale, eticità. Un’intuizione preziosa sprecata per l’esigenza di farla quadrare col suo sistema filosofico che descrive il processo “dello spirito” come sviluppo ascendente; infatti, è chiaro che egli legge lo sviluppo storico esattamente in maniera capovolta; infatti nella realtà noi passiamo dall’eticità antica alla morale cristiana, al diritto moderno: esteriore, formale, contrattualistico, la riduzione dei rapporti fra gli uomini a rapporti fra cose mediati dal denaro, cioè esattamente lo spirito, la mentalità del capitalismo. “La svolta” ha coinciso verosimilmente con la riforma protestante. Diversi pensatori hanno messo in luce la connessione fra riforma protestante e capitalismo. Per tutti, si può citare Max Weber con il celebre saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo.
Ci sono due osservazioni che occorre fare: se noi capiamo che Hegel ha dovuto capovolgere lo sviluppo storico per interpretarlo come ascendente, allora noi possiamo riconoscerlo come decadenza indipendentemente dal fatto di fare nostra o meno la concezione spiritualistica di Evola e Guenon; e poi che da questo punto di vista tra capitalismo e “socialismo” marxista non c’è alcuna differenza: per entrambi la politica, l’etica, la cultura sono solo strumenti dell’economia.
A questo punto, noi siamo in grado di capire che la decadenza dell’Europa è una conseguenza necessaria dell’ascesa del capitalismo. La sua visione esteriore e formalistica non ha conseguenze solo in campo strettamente economico, ma coinvolge l’etica, la cultura, la visione del mondo, riducendo la società a un insieme atomizzato di individui, negando e annientando ogni vincolo di ethos (nel senso definito da Cacciari), di etnos, di ghenos, mirando necessariamente al cosmopolitismo mondialista in cui tutti gli uomini sono intercambiabili.
Sebbene questi termini non abbiamo molto significato quando si esca da un contesto democratico-parlamentare, il fascismo ha avuto indubbiamente radici “a sinistra”, anche se l’esigenza di contrapporre la sua rivoluzione a quella concorrente comunista “di sinistra” l’ha costretto a ricollocarsi “a destra”, una collocazione che peraltro risulta innaturale se non si scordano le parole, molto chiare, di Benito Mussolini: “Joseph De Maistre non fa parte del nostro albero genealogico”.
Mussolini proveniva dal partito socialista, Hitler ha chiamato il suo movimento nazionalsocialista ed esso, prima che egli lo prendesse in mano, era stato fondato da un fabbro, Anton Drexler, e si era chiamato DAP, “Deutsches Arbeits Partei”, “Partito tedesco dei lavoratori”. Nel Mein Kampf, a proposito della bandiera del partito, Hitler ha scritto: “Il campo rosso simboleggia l’idea sociale del movimento”.
La conclusione che se ne potrebbe trarre circa il fascismo come socialismo con l’aggiunta o la correzione di una forte componente nazionale rispetto al socialismo internazionalista di Marx, non è tuttavia probabilmente esatta, nel senso che la formulazione del socialismo nazionale è quella originaria e rispetto ad essa, è quella marxista ad apparire come una sorta di deviazione o contraffazione.
Ci possiamo rifare a un pensatore che è stato forse il grande sottovalutato della cultura europea: J. G. Fichte. I Discorsi alla nazione tedesca, è noto, non furono soltanto l’appello ai Tedeschi per la resistenza contro Napoleone, costituirono il modello di quell’idea di nazione, di popolo, intesa come comunità di storia, di cultura, di tradizioni e soprattutto di sangue che doveva essere una delle idee portanti del romanticismo, la base di quella riscoperta delle nazionalità che doveva attraversare tutto il XIX secolo.
Fichte ha elaborato quella che è stata chiamata la concezione organicistica o semplicemente organica dello stato, in cui ciascuno ha il suo posto, il suo status riconosciuto, in contrapposizione alla concezione meccanicistica propria di illuminismo-liberalismo-democrazia dello stato basato su rapporti formali e contrattualistici, lo stato che che è la versione in grande piuttosto di una famiglia che non di una società commerciale, che è un organismo non una macchina perché si basa sulla nazione che è una comunità essenzialmente biologica, di storia, di cultura, di tradizioni ma soprattutto di sangue.
Al suo interno non sono ammissibili grosse differenze di classe che distruggerebbero o renderebbero impossibile quella solidarietà che deve esistere fra i suoi membri. E’ una concezione naturalmente anti-capitalista. Il capitalismo, soprattutto quello alto, bancario e finanziario, tende a formare una classe di apolidi di lusso che hanno ben poco a che fare con la grande massa dei propri concittadini e moltissimo con i rispettivi omologhi stranieri, il grande capitalismo bancario e finanziario puramente parassitario, che non crea ricchezza, ma la sposta soltanto, trasformando il lavoro di molti nei patrimoni di pochi, tendenzialmente apolide e indirizzato nella direzione del cosmopolitismo mondialista, che oggi consuma la sua vendetta contro i popoli condannandoli a dissolversi nella pappa multietnica e, guarda caso, a sorpresa ha trovato nella sinistra, nello pseudo-socialismo di origine marxista il suo complice più entusiasta.
La concezione fichtiana si può considerare un’eco del progetto già disegnato da Platone nella Repubblica. Forse di nuovo e di radicalmente rivoluzionario non c’è che ciò che ha una solida tradizione alle spalle, ed è senz’altro in questo spirito che il fascismo esplicitamente o implicitamente, in modo meditato o istintivo, si è mosso.
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