‘Ma dici a me? Ma dici a me? Ma dici… a me? Ehi, con chi stai parlando? Non ci sono che io qui… Dì, con chi credi di parlare, tu…’. E’ Travis, l’alienato (nei film USA diviene simbolo dei reduci dal Viet-Nam, come poi lo sarà Rambo) depresso prigioniero dell’ insonnia che lo fa lavorare di notte, chiuso in una squallida stanzetta in compagnia della televisione e tante pistole di svariato calibro, che si guarda allo specchio e si esercita con l’ignoto nemico con cui, di fatto, si appresta a condurre la sua personale battaglia. Scena famosissima tratta da Taxi driver (1976), regia di Martin Scorsese, che consacrerà definitivamente l’attore Robert De Niro stella di prima grandezza del cinema di Hollywood.
(Ci sono reduci e altri reduci. La prima vera sconfitta, un trauma, la ferita aperta e marcescente, del soldato americano. Ci vorranno film quali Il cacciatore, ancora con De Niro – magistrale la scena nei boschi e il cervo che viene risparmiato – o Apocalypse now con Marlon Brando nel ruolo del colonnello Kurtz – magistrale il monologo sullo sposare l’orrore, un cupo ‘cavalcare la tigre’. Reduci ed altri reduci, già. Quelli sconfitti della Germania 1918, descritti da Ernst von Salomon ne I proscritti, che prima nei Corpi Franchi e poi, die Fahne hoch! e la camicia bruna, si trasformeranno in ossatura delle S.A. oppure quelli della Vittoria mutilata, che e futuristi e arditi e fascisti daranno vita allo squadrismo, mettendo in fuga il corteo socialista e devastando la redazione dell’Avanti, a Milano, il 15 aprile del ’19 – sto leggendo in questi giorni la doverosa ristampa di Vecchia Guardia a cura della Eclettica Edizioni. Reduci e reduci, già, ma anche altra razza…).
Sono andato su Youtube e ho rivisto le sequenze – poco più di un minuto – dove, appunto, Robert De Niro dà vita ad una mimica stralunata e poliforme che l’ha reso famoso. Perché questo ritorno di memoria su un film ormai lontano nel tempo – sebbene ‘The Outsider’(titolo del libro che rese di una certa notorietà il suo autore, l’inglese Colin Wilson, 1958) mi è sempre stato familiare fra le mie onnivore letture giovanili, come Lo Straniero di Albert Camus o La Nausea di Jean-Paul Sartre, premesse per arrivare all’inimitabile Céline? Appagamento – e tardivo pagamento del debito – forse alle suggestioni confuse alle tentazioni iniziali di un inquieto e introverso adolescente, divenute consapevoli di quell’anarco-fascismo maturato in vicende di vita personale politica culturale di esperienze e di riflessioni nel corso del tempo? Ci vuole un pretesto, una sorta d’inizio (aborro usare il termine ‘incipit’), il caso fortuito o chissà quale diavoleria del contingente del quotidiano del provvisorio… Del resto ‘per Lo Straniero il mondo non è né razionale né ordinato’, concordo e prediligo il domandare, la sospensione d’ogni risposta, perché mi sono reso conto del caos e da esso, in solidarietà con Nietzsche, mi attendo veder brillare e ballare qualche stella.
Ho avuto la fortuna e l’onore di conoscere il dottor Mario Sannucci con cui trascorrevo un paio d’ore ogni mattina del martedì, giorno di permesso a scuola, andando a trovarlo nella sua tipografia nella zona di via XXI Aprile. Dal portamento austero, alto, con i capelli ancora folti e bianchi, gli occhi azzurri, elegante, dai modi garbati e decisi. In contrasto con il mio abbigliamento da retrò anni ’60, i capelli e la barba arruffati… Egli era privo del braccio destro, comandante di plotone nel btg. Lupo-XMAS, lasciato sulle rive del fiume Senio nel tentativo di snidare una postazione di soldati canadesi, all’inizi del ’45, estrema difesa del suolo patrio (di una patria che del suo sacrificio non ebbe sentore, ormai agonizzante nella viltà e vergogna di quell’8 di settembre, macigno, marchio d’infamia di tutta la nazione). Insieme si risaliva la rampa della tipografia ed egli mi offriva un cappuccino – il rito del martedì l’ho definito in Ritratti in piedi -, con cui si sanciva la fine della nostra conversazione, sovente un mio monologo. Gli portavo da leggere Briciole di cultura, i miei pezzi sulla Publicondor ed altro ed egli mi rimproverava, garbato e deciso, di trattenere il mio pensiero, dare per scontato un passaggio tanto da faticarne la comprensione…
Il suo rimprovero; le immagini di Taxi driver. E il rischio d’essere frainteso (aveva forse ragione il Platone del Timeo quando s’incazzava con il dio egizio della scrittura?). A proposito del mio ultimo ‘pezzo’ dal titolo Contestazione Ideale, un amico ‘virtuale’ ha commentato: ‘Domanda: hai combattuto, hai lottato, sei stato in prigione, hai creduto, per cosa? – Hai deposto le armi (ideologiche e virtuali)? – Non ci credo ti sia votato ad una esistenza borghese! – Vecchio sì ma mai domo! – Hai dimenticato la lezione di Junger? ‘Ribelli fino alla morte’! – Sono nato rivoluzionario e ci morirò! – Tu?’… I punti interrogativi lasciano aperto il dubbio – e di questo lo ringrazio -; i punti esclamativi sono indici puntati contro – amen! – ed anche di questo gli sono debitore per costringermi a guardare lo specchio (ecco svelato il riferimento a Robert De Niro) quanto sia oramai un piccolo borghese stizzito ed acido e sempre meno un Outsider (sempre che lo sia mai stato!) se mi esprimo o m’incarto con le parole…
Apologia (autodifesa) di me stesso? No, grazie. Testamento politico ed esistenziale? No, grazie. E’ da oltre quarant’anni che attraverso le vie del quotidiano, con annessi e connessi, il mormorio o lo stridio fatto di ingiurie insulti menzogne, scritte sui muri e manifesti con il pennarello, quel silenzio assordante nell’aula professori (brulicare di vermi, in effetti) e tutto l’armamentario per mettermi la corda al collo e appendermi al ramo ed io, io ‘la cosa mi lascia totalmente indifferente’ ebbi a rispondere ad un ragazzotto pallido magro e di poche speranze che pensava di rendermi il pomeriggio amaro… Però, come per la moglie di Cesare, mi risento se si insinua – così mi pare di capire – di essere uno sconfitto, soprattutto un rinunciatario… Io che amo Robert Brasillach, questo mio fratello il più caro, anche perché ci ha lasciato a testamento, davanti al plotone d’esecuzione, ‘la fierezza e la speranza’. Che, poi, non sempre della fierezza possa io dire d’essere stato amante fedele o che la mente ed il cuore, sovente, abbiano tentennato e avvertito la speranza inutile fardello, beh, questa è altra storia.
Quante volte mi sono soffermato sull’attaccamento, quasi filiale, verso la terra di Romagna, la costa dalla spiaggia ampia e sabbiosa, l’Adriatico color bottiglia, i primi baci a labbra strette e le mani a cercare le curve dei seni senza fare rumore, la discoteca di Alfredo e quella di Stefano dove portavo i miei alunni in viaggio di ‘istruzione’, la tomba del Duce a braccio teso là ai piedi dell’Appennino, con i ciliegi in fiore come antichi samurai, e il Tempio di Leon Battista Alberti con la cappella di Ixotta, Isotta degli Atti la donna tanto amata da Sigismondo Malatesta. E al poeta Ezra Pound piaceva l’iscrizione sul sarcofago, il cartiglio con la frase tratta dall’Ecclesiaste Tempus loquendi tempus tacendi’. Senza scomodare le interpretazioni e le valenze di sapienza ermetica, che pur sono lecite, ben più ci dice della constatazione della vita, ove domina la parola, e la morte, ove si leva la voce del silenzio. Chi non sa, parla; chi sa, tace. E, da qualche altra parte, un altro poeta, Charles Baudelaire, ammonisce come ‘hanno detto che i miei versi possono fare del bene, non me ne rallegro; hanno detto che i miei versi possono fare del male, non me ne dolgo. Chi sa, m’intende; per gli altri ammucchierei spiegazioni senza senso’… Così la nostra esistenza, il nostro agire.
Ho terminato di leggere in questi giorni l’ultimo romanzo dello scrittore spagnolo Arturo Perez-Reverte dal titolo Il cecchino paziente. Quanto pubblicato in Italia, credo, di aver letto tutto e mi dolgo che, nel trasloco, ho dovuto abbandonare anche una parte delle sue opere (insieme ad altre centinaia di volumi sulla filosofia e di storia e narrativa). A Madrid mi hanno riferito che gli si attribuisce una eco monarchica e che partecipa, spesso, a incontri della Destra nazionalista. ‘Sei giovane solo la vigilia della battaglia. Poi, vinci o perdi, sei invecchiato… Capisci cosa voglio dire?’, così Sniper, il writer (il graffitaro) protagonista in nero della vicenda. Cosa aggiungere se non che invecchiare è una malattia, una degenerazione della giovinezza ammantata di vile e stupida saggezza, là dove lo spirito si illude d’essere il vincitore sul corpo prostrato. E quando la vita si fa ricordo immagini filtrate dalle parole della memoria è essa stessa già finita. Non sei tu lo sconfitto, non tu il rinunciatario, tu sei soltanto il carnefice e soprattutto la vittima di ciò che chiami, ignaro, la ‘tua’ vita… E’ il valore, l’intensità, la durata dell’illusione, dell’inganno, che fa la differenza, poter dirti in quella circostanza, in quella occasione, io c’ero, non consola non gratifica non ti salva, eppure… sai d’essere altro.
Dai, smobilitiamo da atmosfere di facile romanticismo, di ornamenti ideali, di facezie metafisiche, zaino in spalla sacco a pelo arrotolato le maniche della camicia sopra i gomiti gli scarponi impolverati – faccia al sole e in culo al mondo! -, magari unendo ereticamente i canti della rivoluzione, delle bandiere al vento, rullo di tamburi, torce nella notte, del BL 18 ‘con le strade brulle e rosse’ bastoni e barricate, con Francesco Guccini de L’avvelenata, ‘io tutto, io niente…’ o, ancora più in là, con i Litfiba di Eroi nel vento! (che, dedicata ai piloti suicidi, i kamikaze, del Giappone in armi, fu loro rimproverata dagli stolti e gli ignavi) ‘non sarò eroe – non sarei stato mai – tradire e fuggire – è il ricordo che resterà!’… Poi un grido libero e ribelle contro il cielo se fredde si fanno le stelle e contro la terra se aride si rendono le zolle. Basta per restare fedeli e impavidi fra le rovine e sentirsi, nonostante tutto, della razza dei vincitori? Chissà…