7 Ottobre 2024
Controstoria

Filippo Corridoni Sindacalista Rivoluzionario, 1^ parte − Giovanni Facchini

Settembre 2015

La figura e l’opera di Filippo Corridoni non possono non stupire il lettore contemporaneo, racchiuso negli angusti confini politicamente corretti di una società ormai sfaldata, per l’entusiasmo, l’intensità e lo slancio di una lotta sindacalista lontani anni luce dall’accezione stessa che il termine e il suo significato hanno acquisito in questi decenni.

Corridoni sbarcò a Milano, dal piccolo paese in provincia di Macerata in cui era cresciuto, nel 1905, appena diciottenne, con un diploma di disegnatore meccanico in tasca, guadagnato grazie a una borsa di studio, e, come si usa dire, tante belle speranze. Venne subito assunto presso l’ufficio tecnico della Miani e Silvestri, importante azienda meccanica fondata a fine ‘800 dal futuro senatore Giovanni Silvestri[I]. L’azienda si occupava di costruzioni meccaniche pesanti come rotabili tramviarie e locomotive e arrivò ad occupare più di 4000 operai. In Corridoni, scrivono le agiografie[II], era sempre stato vivissimo un sentimento acuto e disinteressato per le ingiustizie sociali, e lo spettacolo disastroso delle masse operaie della Milano di inizio ‘900, in piena rivoluzione industriale, lo avvicinò ben presto alle idee più radicali che allora emergevano nel movimento socialista, vale a dire a quel sindacalismo rivoluzionario da poco teorizzato oltralpe da Georges Sorel e portato in Italia da intellettuali come Arturo Labriola ed Enrico Leone[III].

Filippo Corridoni divenne, nei suoi intensi anni di militanza, l’archetipo stesso degli ideali e della prassi sindacaliste rivoluzionarie, divenendone a mio parere l’espressione più compiuta, l’esempio migliore di questo movimento “eretico” per antonomasia.

Sorto agli inizi del ‘900 in Francia dalle frange più estreme del socialismo marxista, sulla scorta delle nuove correnti culturali ed artistiche dell’esistenzialismo e delle avanguardie, del pensiero di Sorel e di Nietzsche, della nuova sociologia di Mosca e Pareto, il sindacalismo rivoluzionario in Italia si sviluppò rapidamente sia sul piano intellettuale quanto su quello operativo.

Pagine Libere

A livello culturale il punto di riferimento fu la rivista “Pagine Libere”[IV], edita a Lugano dal 1906, fondata e diretta da Angelo Oliviero Olivetti, che vide la collaborazione dei maggiori teorici del movimento (Sergio Panunzio, Enrico Leone, Paolo Orano, Arturo Labriola, Agostino Lanzillo), ma che ospiterà anche articoli di uomini d’azione come Benito Mussolini e Filippo Corridoni. In copertina comparirà sempre un possente cavallo imbizzarrito, nell’atto di spezzare le catene dell’oppressione, con alle spalle i raggi del sole dell’avvenire rivoluzionario: espressione plastica questa, di quelle forze barbare e primigenie che ancora si presentavano, secondo i sindacalisti, allo stato latente, nella parte più genuina del popolo, ancora non imbrigliato e corrotto dalle catene e dalle convenzioni della ipocrita società borghese della disprezzatissima belle epoque.

A livello operativo il movimento ebbe una larga diffusione nelle camere del lavoro delle zone agricole più povere della pianura padana (e al Sud in Puglia, per iniziativa di Giuseppe Di Vittorio), dove dominava il latifondo e migliaia di braccianti vivevano e lavoravano in condizioni difficilissime: protagonisti di queste lotte saranno i fratelli Alceste e Amilcare De Ambris, Edmondo Rossoni, Ottavio Dinale, Michele Bianchi, Attilio Deffenu e naturalmente il giovane Filippo Corridoni. Anche a Milano, fra i metalmeccanici e i ferrovieri della grande città industriale, il movimento si diffuse rapidamente.

In sostanza i seguaci di Sorel vedevano nel sindacato di mestiere, e non nel partito politico, fosse pure quello socialista, lo strumento primario che dal basso doveva spingere le masse proletarie ad autogestirsi e ad autoaffermarsi, attraverso la durissima pedagogia di lotta dello sciopero, del sabotaggio, del boicottaggio, fino ad arrivare a costituire un vero e proprio contropotere alternativo, autoregolantesi attraverso i principi della più genuina democrazia diretta, che avrebbe eroso e infine sostituito, arrivato il momento mitico dello sciopero generale, le vecchie e decrepite istituzioni borghesi.

Per questo i sindacalisti rivoluzionari entreranno ben presto in collisione con il “partitone” socialista italiano (saranno espulsi ufficialmente già durante il congresso di Ferrara, nel 1907), che, sul modello quasi perfetto dei compagni tedeschi[V], vedeva nel sindacato niente di più che la classica “cinghia di trasmissione” con la società civile, uno strumento fiancheggiatore dell’azione politica del partito. Ma il partito socialista, per Corridoni e per i sindacalisti, per quanto si dichiarasse “rivoluzionario”, rifletteva sempre la mentalità, le istituzioni, le prassi organizzative democratiche e borghesi, sempre in attesa e, con la certezza scientifica della dottrina marxista, di arrivare prima o poi, attraverso l’ennesima crisi economica o col successo elettorale, all’instaurazione dell’agognato sistema economico comunista. Così infatti termina Sindacalismo e Repubblica, il saggio teorico più importante scritto da Filippo Corridoni:

Diranno che è inutile sprecare tante energie e tanti sacrifici in scioperi , boicottaggi, sabotaggi ecc. quando basta conquistare con la propaganda la metà più uno dei cittadini “attivi”, per proporre una legge di socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, legge che risolverà definitivamente la questione sociale. E i ceti medi, fra i quali il partito ha reclutato sempre il nerbo maggiore delle sue truppe, si lasceranno corteggiare e faranno gli oci teneri; e la borghesia dirà che quello è il modo di ragionare, e che così si procede in una società civile ove sono state realizzate le più solide conquiste democratiche. E, chissà forse i proletari si lasceranno prendere nuovamente nella rete e conteranno, elezione per elezione, l’aumento dei voti, come ora contano i collegi conquistati e in base a ciò calcolano fra quanti anni si avranno duecentocinquantacinque deputati socialisti. Ma poi? Quando tornerà la nuova ubriacatura? Non facciamo calcoli inutili. Quel che sappiamo è che di pari passo a quest’ultimo disperato tentativo del socialismo elettorale, per non lasciarsi sfuggire il gregge, e della borghesia, per non essere obbligata a battaglie disperate, procederà inesorabile la violenza proletaria per opera di coloro che amano combattere[VI].

E così sintetizzava nel 1912 a Parma Amilcare De Ambris, in una relazione del comitato di azione diretta della CGdL:

Noi vogliamo lo sviluppo integrale, completo, autonomo del sindacato operaio, fino a farne l’elemento costitutivo principale e l’organo direttivo della nuova società dei produttori liberi ed uguali per la quale combattiamo. Essi [i socialisti] intendono che il sindacato non abbia da essere che uno strumento per i miglioramenti parziali ed illusori, che la classe operaia può ottenere più dalla benevolenza della classe padronale e dall’intervento statale che dalla propria forza, rivolta ad un’audace conquista. La vera trasformazione sociale essi intendono che debba essere compiuta nello stato e dallo stato, con una serie di misure legislative e con una estensione sempre cosciente dei poteri dello stato che dovrebbe arrivare a sostituirsi al capitalismo privato, evocando a sé la dirigenza di tutta la produzione e di tutto lo scambio, nonché la distribuzione della ricchezza. Quale punto di contatto vi è fra questa concezione statolatrica e autoritaria del divenire sociale, e la concezione sindacalista, antistatale e libertaria? Nessuno. Noi andiamo dunque per opposta via, ad una meta opposta a quella dei [socialisti] riformisti. Noi vogliamo annullare il potere oppressivo dello stato; essi vogliono moltiplicarlo ed aumentarlo fino a farne il regolatore supremo di tutta la vita sociale. Noi miriamo alla conquista dell’autonomia e della libertà integrale dei gruppi produttori, e dell’individuo in seno a questi gruppi; essi mirano ad instaurare la più terribile tirannia che abbia mai visto il mondo[VII].

Parole quasi profetiche se consideriamo i drammatici sviluppi del primo dopoguerra, con la rivoluzione bolscevica e la nascita della statolatria burocratico-totalitaria comunista.

Organizzare la Città al di fuori delle idee democratiche, e le classi AL DI FUORI della democrazia, NONOSTANTE la democrazia, CONTRO la democrazia, scriveva George Sorel nel 1908 in Riflessioni sulla violenza. Per i sindacalisti la democrazia parlamentare borghese, sia nella variante liberale quanto in quella social-riformista, con il suo corollario di clientelismi e compromessi, era considerata quasi come una malattia da cui le forze ancora genuine e sane del proletariato andavano tenute alla larga da ogni contagio.

Nessun partito rappresenta genuinamente la classe operaia e quindi nessun partito può arrogarsi il diritto di parlare a nome di essa e di dichiarare di essere il difensore dei suoi interessi – in quanto il sindacato – espressione pura della classe operaia organizzata per la lotta, è l’unico elemento che possa operare, con i suoi mezzi, la trasformazione radicale della attuale società […]

Per noi coloro che reggono il comune saran sempre nostri nemici, tanto più temibili e pericolosi se potranno fra l’altro ammantarsi di un preteso suffragio popolare e se potranno governare con in bocca la menzogna di farlo nell’interesse del popolo[VIII].

Contro la forma-partito e la mediazione del sistema di rappresentanza indiretta Corridoni e i sindacalisti opponevano la pratica costante e genuina della democrazia diretta, ovviamente applicabile a partire da comunità omogenee disciplinate e responsabili, come potevano e dovevano diventare i sindacati di mestiere forgiati dalla lotta:

Con la pratica della democrazia diretta anche i partiti perdono gran parte della loro onnipotenza. Fino a che la politica è per l’umile cittadino una cosa misteriosa, complicata e lontana esso subisce facilmente l’ascendente dei suoi rappresentanti, di coloro che hanno “le mani in pasta” e che il cui giudizio è accettato come il responso di un oracolo; ma quando con l’uso de referendum, del diritto all’iniziativa ecc. diventa indispensabile far conoscere ad ogni cittadino gli ingranaggi del meccanismo misterioso, che serve alla fabbricazione delle leggi, esso comincerà a famigliarizzarvisi, ne vedrà la banalità e comincerà a giudicare con la propria testa senza contentarsi più di delegare un dato individuo a pensare per lui[IX].

La concezione sindacalista rivoluzionaria aspirava quindi ad andare oltre tanto alla democrazia parlamentare partitocratica, quanto alla presunta alternativa della democrazia popolare di stampo socialista (poi comunista). Scriverà anni dopo Silvano Panunzio[X]:

Il socialismo si presenta come un individualismo materialistico elevato a potenza: proprio esso è il più lontano di tutti dal “sociale” perché una società livellata è la negazione del concetto stesso di società. La democrazia trasformerebbe gli uomini da biondi o bruni (non importa) animali da preda belluina, in animali da preda mercantile e “capitalistica”. Il socialismo non farebbe che concludere questo processo. In pratica, non più solo formalmente “uguagliando davanti alla legge (democrazia), ma “socializzando le sostanze (socialismo), gli uomini verrebbero a cessare del tutto d’essere animali da preda in qualsiasi campo, vuoi politico, vuoi economico. Ed è certo un bel risultato, non possiamo negarlo a Marx e al socialismo. Ma che se n’è fatto, però, di questi uomini? Da animali da preda li si è trasformati in “animali da lavoro”[XI].

Opposta a tale distorsione stava la forma aristocratica sindacalista, il “governo dei migliori”, come concezione generale del mondo, atteggiamento verso la vita, come sentimento spirituale, che, nel lessico attuale, potremmo tradurre come “meritocrazia”. Non aristocrazia chiusa del sangue o della ricchezza, ma del valore personale; non autoritaria, ma semmai autorevole. L’aristocrazia in quanto principio del meglio era per sua stessa natura aperta, e, infine, sociale, come già evidenziato da Pareto, il quale aveva parlato dei sindacati operai come delle “nuove aristocrazie sociali della nostra età”. Nel mondo moderno in decadenza, ripresa in forme nuove dello spirito delle società organiche tradizionali, opposta all’equazione democrazia-socialismo, stava allora l’equazione sindacalismo-aristocrazia:

Il sindacalismo vuole instaurare, nel campo sociale-economico e quindi politico, un principio di competenza tecnica. Il socialismo vuole soltanto far massa per scopi elettorali e per questo, è ottimo il criterio delle rappresentanza proprio della democrazia. La competenza non è infatti principio democratico ma aristocratico: essa implica una selezione, laddove la democrazia (e per essa il socialismo) si contenta della elezione come mera nomina. Il concetto della rappresentanza è tutto numerico perché la democrazia consiste appunto ed esclusivamente nel maggior numero di voti che si possano dare e raccogliere. Ma il sindacalismo vuole che la società si organizzi secondo sue leggi immanenti e che gli organi rappresentativi dello Stato esprimano fedelmente la struttura e la vita reali della medesima società. Né esso, come è proprio dei socialismi, si presenta quale una concezione panteistica del cosmo sociale, politico e umano.

E’ noto invece che la più matura dottrina sindacalista postula al vertice delle aspirazioni una Camera delle professioni: quanto è dire una Camera di competenti per tutti i rami concreti dell’attività umana. Ma, nell’aspirare a questo, il sindacalismo non mette tutto sotto i piedi, così come vorrebbero fare quelle nette tendenze antisociali che, per uno strano e secolare equivoco, prendono il nome di socialismi. Questi ultimi, per il loro monismo angusto ed esclusivo, trovano la loro espressione più fedele nel sistema unicamerale del Parlamento, appunto perché essi, muovendo da una parte (il proletariato) della società, e, nel migliore dei casi, da un unico aspetto (il lavoro) dell’attività della stessa pretendono che tutta la società si riduca a questa parte e a questo aspetto con esclusione di qualunque altro[XII].

Per i sindacalisti come Corridoni la rivoluzione era quindi innanzitutto un fatto di volontà, e la lotta di classe doveva riflettere prima di tutto un cambiamento interiore, un salto di qualità e di mentalità delle masse proletarie: attraverso la nuova morale eroica dei produttori sarebbe sorta la nuova aristocrazia sociale.

L’antica nobiltà feudale aveva vissuto la sua epica attraverso il Medioevo e le Crociate; la borghesia aveva ottenuto la sua epopea con la rivoluzione francese, le guerre napoleoniche e il ’48; ora toccava al proletariato costruire il proprio mito attraverso la lotta e il sacrificio. Per i sindacalisti come Corridoni la lotta di classe si trasfigurava in senso quasi eracliteo: soltanto dalla “guerra sociale” sarebbero nate l’uomo e la società nuove.

Per il giovane Corridoni questo compito era sentito come una missione, un impegno totalizzante che non ammetteva deroghe o tentennamenti:

F_corridoni_CoverPer guidare il proletariato alla rivoluzione, sono necessari una eccezionale forza di volontà, una fede assoluta senza ombra di dubbio e senza inquinazioni pessimistiche, ed anche e soprattutto un elevato spirito di sacrificio. Il sindacalismo non è morale di rinuncia, ed io non pretendo che si sia degli asceti o degli anacoreti – amo anch’io la vita nella sua complessità – ma sono persuaso che un gaudente non sarà mai un condottiero[XIII].

Una lotta e una violenza intese e condotte da Corridoni e dai sindacalisti, nella teoria come nella prassi, sempre in modo leale, a viso aperto, come pedagogia per un popolo che doveva saper crescere prima di tutto spiritualmente, una massa amorfa che attraverso il sindacato da gregge doveva diventare branco e passare da un’atteggiamento bassamente egoistico a una morale autenticamente eroica. Una concezione quindi completamente diversa da quella che sarà la violenza terroristica e amorale tipica dei movimenti social-comunisti degli anni a venire: una violenza asettica e scientifica pianificata dall’alto, quanto brutale perché capace di sfruttare dal basso gli istinti più primitivi e “di pancia” di masse isteriche e fanatizzate.

Scriveva Corridoni, con grande lucidità:

E pur noi non vorremmo la ribellione della fame. A chi gioverebbe? Un uomo che impugna un coltello o un fucile per satollarsi è una forza puramente negativa: ficcategli nello stomaco una pallottola ed egli ritornerà nella cuccia. La rivoluzione non deve essere fatta da cani arrabbiati. La rivoluzione non deve essere opera di un ventre vuoto o di uno stomaco stiracchiato, ma bensì di un cervello sano e fresco, che medita una vita di giustizia e di equità e che vi vuol giungere a tutti i costi, anche attraverso alla violenza, ma organizzata e intelligente[XIV].

Lo sciopero doveva essere politico, non economico: logicamente occorreva partire dalle rivendicazioni pratiche e materiali immediate dei lavoratori, ma con lo scopo ultimo di forgiare la solidarietà e la coesione di un sindacato che doveva farsi comunità, contropotere sociale e morale alternativo al decadente stato borghese moderno.

Perchè, che cos’è la rivoluzione sindacalista? Crediamo di averlo notato: è il proletariato battagliante contro la borghesia e che esce dal terreno dell’economico per invadere quello extraeconomico, conscio delle sue forze ed intuente la finalità della sua azione. Fino a che le organizzazioni proletarie combattono la propria battaglia con la mira precisa e specifica di assottigliare il margine del profitto borghese, tutte comprese dalla responsabilità di non essere al di là del profitto stesso, allora la loro azione è legalitaria e cioè economica; quando invece i sindacalisti saltano risolutamente il fosso del profitto per attentare alla vita stessa del capitale, allora esse compiono opera extraeconomica e cioè rivoluzionaria[XV]

Per questo i sindacalisti erano antiprotezionisti e liberisti in campo economico: occorreva eliminare ogni legaccio, ogni pastoia in grado di impedire il dispiegarsi totale e completo della più sana lotta di classe[XVI]. In Italia esisteva una troppo debole classe imprenditoriale, spesso troppo legata alle commesse statali, e quindi imbevuta di assistenzialismo e clientelismo, priva di quelle virtù “eroiche” fatte di ambizione e spirito di avventura che avevano fatto altrove la fortuna del capitalismo e della borghesia. Di questo ne faceva le spese anche il proletariato che, mal gestito e organizzato dal partito socialista, vedeva nello sciopero soltanto un mezzo per ottenere piccoli vantaggi materiali momentanei e restava irretito dai compromessi, incapace di svilupparsi e di crescere in modo autonomo.

Occorreva spazzare via tutte lo sovrastrutture ancora sussistenti dello stato reazionario che impedivano lo sviluppo tanto di una borghesia che di un proletariato autonomi, posti in sana competizione fra loro: le burocrazie inadempienti, vera e propria casta di privilegiati, e poi lo stato di polizia, l’influenza clericale, le istituzioni monarchiche, le varie massonerie[XVII] e lobbies.

Per questo i sindacalisti erano anche federalisti, per le autonomie municipali e locali, la democrazia diretta da attuarsi attraverso l’uso frequente dello strumento referendario, contro il centralismo autoritario dello stato sabaudo. Alceste De Ambris arrivò a teorizzare un vero e proprio progetto comunalista che, ispirandosi all’esperienza dei liberi comuni medievali, mirava ad un nuovo ordinamento statale federale che avrebbe affiancato e favorito lo sviluppo dei sindacati di base come nuove cellule dell’organismo sociale[XVIII].

Infine i sindacalisti come Corridoni erano fortemente antimilitaristi, ma di certo non in quanto legati a un astratto pacifismo, ma perchè la struttura centralizzata e oppressiva dell’esercito di leva costituiva un grave contrappeso a cui le forze borghesi si appoggiavano ogniqualvolta si trovavano in difficoltà di fronte alla marea montante di uno sciopero ben riuscito e organizzato. Anziché accettare fino in fondo la lotta, dando slancio ad una leale competizione, che avrebbe nel tempo prodotto un progressivo sviluppo economico, la borghesia italiana preferiva sempre rifugiarsi sotto le ali protettrici delle strutture dello stato reazionario, in primis polizie ed esercito. Per questo per Corrdoni era estremamente importante la propaganda fra i “proletari in divisa” e sua sarà questa frase: la rivoluzione si farà non contro l’esercito ma con l’esercito. Sostituire l’esercito della leva obbligatoria di massa dello stato accentratore con una polizia e una milizia su base territoriale e popolare, sul modello svizzero, costituiva lo scopo finale del programma sindacalista.

La prima di una incredibile serie (circa 30) di condanne e arresti arrivò nel 1907 per il ventenne Corridoni proprio per la propaganda antimilitarista che conduceva dal periodico “Rompete le file” insieme all’anarchica Maria Rygier. Fu quindi costretto a un periodo molto duro di esilio forzato a Nizza, dal quale rientrò nel maggio 1908 per unirsi, con lo pseudonimo di Leo Celvisio[XIX], ai braccianti agricoli che avevano appena ingaggiato una lotta durissima a Parma e provincia.

Fu questo forse l’evento fondante dell’epopea del movimento sindacalista rivoluzionario in Italia, uno sciopero generale durato due mesi organizzato nella città emiliana dalle leghe bracciantili guidate da Alceste De Ambris contro gli agrari, che assunse toni epici e drammatici da entrambe le parti. Corridoni, alias Leo Celvisio, si distinse per la prima volta nell’organizzare la protesta, coinvolgendo gli studenti universitari, convincendo addirittura i crumiri reclutati dagli agrari a desistere, mentre in tutta italia venivano ospitati nelle famiglie operaie i figli degli scioperanti, dando vita alle prime forme di solidarietà proletaria tanto auspicate dai sindacalisti. Alla fine la stanchezza delle parti in lotta e l’intervento della forza pubblica decretò il sostanziale fallimento dello sciopero, ma per il movimento sindacalista fu comunque un successo, perché aveva aumentato enormemente il grado di maturazione e di consapevolezza del proletariato padano.

Corridoni aveva dimostrato tutto il suo valore ed anche una certa dose di coraggio fisico:

a difendere una barricata proprio di fronte alla camera del lavoro stava Corridoni con alcuni amici. Ad un tratto, quando la difesa di quell’avamposto aveva il suo limite estremo, un ufficiale di cavalleria gli puntò contro la rivoltella gridandogli: “Vai via o sparo!” Leo Celvisio non si mosse… Rispose offrendo il petto: “Spara dunque, vigliacco”[XX].

Di nuovo esule, stavolta in Svizzera, nel 1908 Corridoni visse momenti di estrema povertà, nonostante la salute cagionevole lavorò anche come manovale ma non mancò di dimostrare la sua generosità prodigandosi nel raccogliere fra gli emigranti fondi e aiuti per i terremotati di Messina[XXI].

Rientrato in Italia a seguito di un’amnistia, nel 1909-10 Filippo Corridoni fu segretario della Camera del Lavoro di San Felice sul Panaro, nella bassa modenese, vicino a Mirandola dove aveva operato con successo il sindacalista rivoluzionario Ottavio Dinale[XXII].

Fra i braccianti e i contadini di queste zone poverissime, contigue al ferrarese, dominio incontrastato della malaria e del latifondo, Corridoni portò il suo entusiasmo e la sua determinazione, pur fra mille difficoltà dovute a una realtà locale comunque troppo angusta e provinciale. L’azione di Corridoni fu fortemente condizionata suo malgrado da una polemica anticlericale che assunse toni sempre più aspri. A Mirandola l’energico parroco don Roberto Maletti[XXIII] aveva dato vita alle prime forme di associazionismo politico e sociale di stampo cattolico in risposta allo strapotere delle leghe rosse e questo era visto ovviamente come un grave pericolo dai sindacalisti. Il culmine fu raggiunto alla notizia della condanna a morte per alto tradimento, nella Spagna reazionaria e ultracattolica, del pedagogista e anarchico Francisco Ferrer[XXIV], noto per le sue posizioni anticlericali e a favore della scuola laica: Corridoni con alcuni militanti domenica 17 ottobre 1909 inscenò una violenta dimostrazione davanti al Duomo di Mirandola, con annessa irruzione in Chiesa durante la funzione religiosa e conseguente rissa generale[XXV].

Nel 1911 Corridoni rientrò a Milano ed è nella grande metropoli lombarda che si affermarono definitivamente il suo talento e la sua capacità, non tanto e non solo come agitatore e polemista, facilmente etichettabili come tipiche di un giovane irruente ed esaltato, ma soprattutto come organizzatore capace, serio ed instancabile.

In particolare si distinse in giugno nel guidare e sostenere lo sciopero dei gasisti milanesi, gli operai del gas allora dipendenti di un’unica azienda privata, la francese Union des Gaz[XXVI], in lotta contro una serie di licenziamenti immotivati. Lo sciopero assunse anche stavolta toni epici, con cortei e comizi in tutta la città, mentre la forte personalità di Corridini trovò un degno avversario nell’ing. Giuseppe Gruss, direttore generale della Union a Milano e simbolo della reazione padronale.

Dopo diversi tentativi e nonostante l’ostilità della CGdL milanese, a guida riformista, Corridoni riuscì a far proclamare per il 1 luglio lo sciopero generale di solidarietà da parte di tutte le categorie. Di fronte alla minaccia di una paralisi totale, il Prefetto di Milano consigliò la società del gas a scendere a più miti consigli e si giunse quindi a un compromesso soddisfacente per i lavoratori.

La vicenda della Union des Gaz fu emblematica per le concezioni sindacaliste, in quanto già allora si parlava di municipalizzare servizi di pubblica utilità, come gas ed energia elettrica, allora in mano a società private. Corridoni era estremamente contrario in quanto pensava che la statalizzazione del servizio avrebbe fossilizzato e imbavagliato ogni forma di libera e genuina lotta di classe, penalizzando l’efficienza e lo sviluppo del servizio stesso, in coerenza con la concezione libertaria e antiprotezionista del movimento sindacalista. La gestione diretta dello stato, se in un primo tempo avrebbe potuto portare piccoli benefici diretti ai lavoratori, a lungo termine avrebbe inficiato ogni libero e naturale sviluppo autonomo del sindacato e avrebbe “corrotto” lo spirito dei lavoratori abituandoli alle logiche clientelari e parassitarie del pubblico impiego, anziché a una dura, “meritocratica” competizione con il capitale privato. Concetti incredibilmente attuali anche nel dibattito politico odierno e ribaditi in uno scritto del 1914 rimasto allora inedito, Municipalizzazione, pubblicato di recente nella raccolta di Andrea Benzi, in cui Corridoni si diceva contrario anche alla statalizzazione del servizio tramviario milanese.

segue con la seconda parte

NOTE

[I] Nel 1918 l’azienda si trasformò in OM – Officine Meccaniche già Miani e Silvestri & C-A. Grondona Comi & C. e passò al gruppo Fiat, collegata in particolare all’Iveco, producendo negli anni numerosi modelli di trattori e camion; oggi il marchio sussiste ancora nella OM Carrelli Elevatori Spa. Gli operai della Miani e Silvestri saranno protagonisti in tutte le battaglie sindacaliste condotte da Corridoni negli anni successivi.

[II] Su tutte la ponderosa biografia di Yvon De Begnac, L’arcangelo sindacalista. Filippo Corridoni, Milano, A. Mondadori, 1943.

[III] Per un inquadramento generale del dibattito storiografico intorno ad un fenomeno complesso come il sindacalismo rivoluzionario italiano, cfr. G. B. Furiozzi, Il sindacalismo rivoluzionario italiano, Mursia, Milano, 1977; G. B. Furiozzi, Dal socialismo al fascismo. Studi sul sindacalismo rivoluzionario italiano, Esselibri-Simone, Napoli, 1998. A. Riosa, Il sindacalismo rivoluzionario in Italia e la lotta politica nel Partito socialista dell’età giolittiana, De Donato, Bari, 1976; A. Riosa, Momenti e figure del sindacalismo prefascista, Unicopli, Milano, 1996; Maddalena Carli, Nazione e rivoluzione – il socialismo nazionale in Italia: mitologia di un discorso rivoluzionario, Unicopli edizioni, Milano, 2001

[IV] Sulla rivista “Pagine Libere” esiste il recente e dettagliato studio monografico di W. Gianinazzi, Intellettuali in bilico. “Pagine libere” e i sindacalisti rivoluzionari prima del fascismo, Unicopli, Lugano-Milano, 1996; cfr. anche P. C. Masini, La rivista “Pagine Libere”, in “Ricerche storiche”, n. 1, gen.-apr. 1981, pp. 293-300; P. Favilli, Economia e politica del sindacalismo rivoluzionario. Due riviste di teoria e socialismo scientifico: “Pagine Libere” e “Divenire sociale”, in “Studi storici”, gennaio-marzo 1975. La rivista venne poi rifondata nel 1946 dai figli di Sergio Panunzio, Vito e Silvano, oggetto in particolare della mia tesi di laurea in Storia contemporanea: Sindacato, Nazione, Tradizione – L’esperienza di Pagine Libere nella cultura di destra dell’Italia repubblicana (1946-1968), Università degli studi di Bologna, Facoltà di lettere e filosofia, 2004

[V] Negli anni d’oro della Germania guglielmina, il partito socialista tedesco SPD, crebbe fino al raggiungimento della maggioranza relativa al Reichstag, divenendo un modello, con la sua imponente organizzazione burocratica, per i socialisti europei fino allo scoppio della Prima guerra mondiale.

[VI] Filippo Corridoni, Sindacalismo e Repubblica, Milano, 1915, (prima ed. Parma, 1921) ora in Andrea Benzi, a cura di “…Come per andare più avanti ancora – Filippo Corridoni, gli scritti”, SEB, Milano, 2001, pp. 198

[VII] Ora in L. Salsiccia, Filippo Corridoni, una vita per la rivoluzione, Corridonia, 1987 P. 50

[VIII] F. Corridoni, A lumi Spenti, in L’Avanguardia, 1 novembre 1913, ora in L. Salsiccia, op. cit., p. 88

[IX] F. Corridoni, Sindacalismo e Repubblica, ora in a cura di Andrea Benzi, op. cit., p. 197

[X] Silvano Panunzio (Ferrara 1918- Pescara 2010), figlio di Sergio Panunzio, uno dei massimi teorici del sindacalismo rivoluzionario prima, nazionale poi, riprenderà con il fratello Vito nel 1946 la pubblicazione di “Pagine Libere”, nel tentativo di riproporre nel difficile dopoguerra, attualizzandole, le tematiche sindacaliste.

[XI] Silvano Panunzio, Difesa dell’aristocrazia “Pagine Libere”, n. 8-10, agosto-ottobre 1948.

[XII] Silvano Panunzio, Difesa dell’aristocrazia, op. cit.

[XIII] F. Corridoni, Verità necessarie, in L’internazionale del 6 aprile 1912, ora in L. Salsiccia, op. cit., p. 38

[XIV] F. Corridoni, Le rovine del neoimperialismo italico, ora in Scritti, a cura Andrea Benzi, op. cit., p.50

[XV] F. Corridoni, L’internazionale, dicembre 1912, ora in L. Salsiccia, op. cit., p. 43

[XVI] Nel 1904 sindacalisti come Enrico Leone e Arturo Labriola avevano partecipato alla fondazione di una Lega Antiprotezionistica

[XVII] Si veda l’articolo di Corridoni Contro la massoneria, in Scritti, a cura Andrea Benzi, op. cit., pp. 23-27

[XVIII] Si veda G.B. Furiozzi, Il sindacalismo rivoluzionario italiano, op. cit., p. 57

[XIX] Pseudonimo che Corridoni adottò con evidente riferimento alla Rocca di San Leo, in provincia di Rimini, al confine con le sue Marche, famosa per aver ospitato nel ‘700 numerosi detenuti politici fra cui il conte di Cagliostro. Calvisio (scritto però con la A) è invece una località del comune di Finale Ligure, al confine quindi con la Francia e la città Nizza in cui Corridoni risiedette alcuni mesi durante la sua latitanza.

[XX] Tullio Masotti, Corridoni, Casa editrice Carnaro, Milano, 1932, p. 33; citato anche in Y. De Begnac, op. cit., p. 207

[XXI] Il 28 dicembre 1908 un violentissimo sisma rase al suolo le città di Messina e Reggio Calabria, provocando circa 100mila vittime

[XXII] Ottavio Dinale (Marostica 1871- Roma 1959) Trasferitosi a Mirandola nel 1897 come insegnante di ginnasio, nel novembre 1905 abbandonò definitivamente il partito socialista e costituì nella città dei Pico una Federazione sindacalista autonoma. Diventerà poi collaboratore di Mussolini e interventista allo scoppio della grande guerra. Sindacalista nazionale durante il Regime, aderirà con entusiasmo alla RSI.

[XXIII] Don Roberto Maletti (1878-1927) fu amico e seguace di don Romolo Murri, il fondatore della prima democrazia cristiana. Diresse L’Operaio cattolico, organo della Diocesi di Carpi, dal 1901 al 1904. Fu parroco di Mirandola dal 1907 al 1927

[XXIV] Francisco Ferrer (1859-1909), anarchico e massone, come pedagogista è rimasto celebre per aver fondato e organizzato nella sua Barcellona la “Escuela moderna” per insegnare i valori sociali radicali ai ragazzi della borghesia al di fuori da ogni condizionamento clericale. Coinvolto nei fatti la “Settimana Tragica”, una rivolta scoppiata il 26 luglio 1909 quando la popolazione si ribellò alla Guardia Civile che aveva il compito di far imbarcare i coscritti (per la quasi totalità appartenenti alle classi povere) mandati a combattere nelle guerra coloniali in Africa, venne condannato a morte e fucilato.

[XXV] Per questo e altri fatti Corridoni fu arrestato ben dieci volte durante la sua permanenza nel modenese, ospite fisso dell’allora carcere di Modena di Sant’Eufemia.

[XXVI] Una interessante storia del gas a Milano, monopolio della Union des Gaz fin dal 1859, è consultabile alla seguente pagina web http://www.storiadimilano.it/citta/milanotecnica/gas/gas.htm

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