8 Ottobre 2024
Punte di Freccia

Sognare ad occhi aperti – Mario Michele Merlino

‘il nostro sogno s’infrange al mattino… vi sarà altra aurora con cui dividere la luce e le ombre? 5 novembre…

Ad ogni giorno che si leva un sogno bello muore; in ogni notte che si prepara un nuovo sogno sorge. E per coloro che, al contrario, trovano al risveglio la forza di sognare ad occhi aperti – ‘esseri pericolosi’ venivano definiti da Lawrence d’Arabia nelle prime pagine del suo affascinante I sette pilastri della saggezza –, mentre la notte diviene il luogo oscuro e periglioso dove ci si arrovella nell’inquietudine e nell’incertezza – in quella reiterata ‘tempesta del dubbio’, come la definiva il Mazzini nell’esilio di Londra)? Narrano le cronache come il principe di Condè, a capo delle milizie francesi alla vigilia della decisiva battaglia di Rocroix contro i fanti di Spagna (Guerra dei Trent’Anni), dormisse profondamente. E che ciò fosse testimonianza di evento così raro e straordinario è il richiamarlo sovente come segno certo di serenità e fermezza di fronte a scelte difficili da prendere, a eventi nei quali mettiamo in gioco tutto noi stessi.

Fortunati coloro che soffrono d’insonnia, che si adeguano a dormire poche ore, verrebbe da dire e, nel mio caso, in modo fazioso visto che, come adesso, notte stelle silenzio mi fanno compagnia. Gli amici, i lettori di Ereticamente lo sanno bene perché, oramai, tendo a ripetere e ripetermi – in fondo, nonostante lo sfoggio impudico delle mie conoscenze (vizio da insegnante post ’68 a puntellare la propria micragna intellettuale), ruoto intorno ad alcuni concetti immagini visioni amori come fa l’asino alla corda intorno al pozzo… Se, poi, avvinto dalle catene robuste d’innata modestia, mi volessi confrontare, beh, è l’osservazione rispettosa che Pierpaolo Pasolini rivolge ad Ezra Pound nell’intervista televisiva di poco antecedente la morte di entrambi. Non oso, però…

Fin da adolescente, riottoso e curioso, ho amato Pedro Calderon de la Barca de La vita è sogno (la vida es sueno), considerato il miglior dramma del teatro barocco europeo. Un altro dei miei cavalli di battaglia, di un fedele Ronzinante, con cui – citando i più celebri versi in spagnolo – mi prefiggevo vanamente di veder cadere ai miei piedi e fanciulle prese da spasmi di libidine e folle in delirio. Vanamente, lo ammetto. Solo nel camerone di Regina Coeli, davanti a cinque o sei altri coabitanti forzati dalla mala sorte, in piedi sulla branda la bacinella in testa avvolto in colorato asciugamano brandendo lo scopettone ottenni effimero momento di distrazione e della gloria fugace presenza… Simile a Sigismondo, figlio del re di Polonia, tenuto ristretto perché astrologi fasulli ne avevano decretato un futuro feroce e crudele. Ecco: ‘Qué es la vida? Un frenesì. – Qué es la vida? Una ilusiòn, – una sombra, una ficciòn, – y el mayor bien es pequeno: que toda la vida es sueno, – y los suenos, suenos son!’.

Molti anni dopo, nel 1978, la casa editrice Adelphi pubblica il dramma La torre (der Turm), rielaborazione de La vita è sogno, del poeta austriaco Hugo von Hofmannsthal, opera sofferta e data alle stampe postuma nel 1934, dopo che il suo autore vi aveva lavorato per anni in continua gestazione e rivisitazioni. Sebbene le premesse e parte dello svolgimento siano in qualche misura fedeli all’originale spagnolo, la conclusione è ben altra e ad altro scopo venne composta. Hofmannsthal vive in quello ‘spazio di Vienna’ che avvertì per primo e in modo acuto e doloroso la crisi non soltanto dell’Impero asburgico, inteso quale armonia, ma del linguaggio della cultura della legittimità del Potere dell’ordine cosmico stesso. Si pensi a Stefan Zweig de Il mondo di ieri e a Robert Musil de L’uomo senza qualità. Alcuni hanno voluto accostare Hofmannstahl alla Rivoluzione Conservatrice, tenendo però, a mio parere, la distinzione sul concetto stesso di ‘rivoluzione’ che in lui ricorda la possibile valenza astronomica, il re-volvere di cui parlava lo stesso Julius Evola, non le barricate la disintegrazione la folla nelle piazze. Inoltre, ad esempio, ne La lettera a Lord Chandos la crisi trova il suo compimento nella perdita di significanza della parola non nelle tradizionali istituzioni che erano state capaci, in qualche modo, di imporre equilibrio geopolitico e sistemi valoriali. Da Platone a Shakespeare dall’arte alla filosofia l’uomo si trasforma in ‘ pallida ombra di sogno’ fino a, ogni corda alla lunga si spezza, divenire il luogo dove l’Io si frantuma ove dominano le pulsioni il soggiacere alla tristezza e il senso di colpa del maiale (quel ‘tutto sa di porco’ di Nietzsche, anticipando – visionario qual’è – il giudizio di Freud sulla menomazione della centralità dell’Essere Uomo dopo Copernico e Darwin). Non di una umanità più felice, ma nel gioco dei chiaroscuri sono le ombre, le più inquietanti, a dominare… Quelle ombre che vanno dissolvendosi con l’insorgere del primo mattino quando, animale abitudinario, preparo l’usuale tazza di tè aromatizzato e tendo a spengere il computer. Ora è il tempo del sognare, della morte delle parole, degli occhi e del rinnovato loro (divino) stupore.

La strada, protetta da alberi, stretta e ventosa, ove abito è dedicata ad Elea, la città conosciuta quale luogo natale del filosofo ‘venerando e terribile’, come lo definisce Platone, e cioè di Parmenide che lanciò, sasso nello stagno, la questione dell’Essere, di quella via del Giorno a contrapposizione di quell’altra, la via della Notte, equivalente alla nientità dell’esperire, di uomini che, frenetici ed inutili, agitano la testa tra l’uno e l’altro percorso. Così mi affaccio nel silenzio, non vi possono transitare automobili, e l’asfalto è un tappeto di foglie. Affascinante, penso, esse destinate a cambiare colore secondo stagione, immagine di fragilità e divenire (Le foglie morte), coabitano con colui che di questo divenire si fece critico severo e reso avversario ad Eraclito di Efeso in maldestro antagonismo da banali insegnanti di filosofia… Poi, dalla via di scorrimento il primo clacson lo stridio di freni i cassonetti dell’immondizia che vengono svuotati (sempre più raramente) i passanti frettolosi nello scalpitio dell’asfalto bagnato.

Dalla tesi di laurea di L.F. Céline dedicata a Il dottor Semmelweis, l’inizio della sua straordinaria avventura di scrittore, di Céline le Maudit, una delle tante sue geniali intuizioni: ‘Che si fa di solito per strada? Si sogna. Si sognano cose più o meno precise, ci si lascia trascinare dalle ambizioni, dai rancori, dal passato. E’ uno dei luoghi più meditativi della nostra epoca, è il nostro santuario moderno, la Strada’.

I sogni ad occhi aperti – come entrare nella morte per Adriano Imperatore – sono la nostra inconsapevole sfida d’ogni giorno al superfluo all’inutile all’inessenziale. Racconta Ernst Dwinger nel Diario di Siberia sulla esperienza dei prigionieri in Russia durante la Grande Guerra di un ufficiale che si era costruito una sorta di pianoforte e come, ogni giorno, egli vi suonasse sopra armonie a lui solo note, da lui solo udite. Qui i sogni sono sfida e, al contempo, fuga rasserenante, fragile trincea contro invasioni esterne di disturbo. Non è la natura, il contenuto del sogno a contare, ma il sogno in sé… E percorrere i marciapiedi scansare i pedoni e i bambini in carrozzina (peccato che, poi, crescono!) prendere il bus o inoltrarsi verso la metropolitana tutti i gesti del reiterato quotidiano – questa lotta per la sopravvivenza – sono i monti da travalicare i fiumi da guadare aprirsi il cammino nel fitto del bosco ruinare imperi ed altri edificarne e, sempre, accompagnati da armonie suonate nella mente su una nota sola…

Questi sogni, però, non bastano. Questi sogni non ‘mi’ bastano. Dallo scaffale prendo L’uomo a cavallo di Drieu la Rochelle: ‘La patria è amara per chi ha sognato un impero. Che cos’è per noi una patria se non una promessa d’impero?’. Jaime Torrijos sacrifica il suo cavallo, sulle Ande, sulle rive del lago Titicaca, quando si rende conto che il sogno di unificare ‘il sangue dei conquistatori incas e il sangue dei conquistatori spagnoli’ s’è infranto. Le ceneri di Dante nel cuore del Ridotto Alpino, simbolo di un’Italia che non muore, il sogno di Alessandro Pavolini che s’infrangerà lungo la spalletta del lago di Como. Qui il poeta si fa armato e le armi la penna l’inchiostro il verso… Beh, non esageriamo. Vanità sì, ma con qualche limite. E’ che, da vecchi, o ci si rende patetici, riducendosi ai bisogni primari, oppure ridicoli con l’esclusiva e smodata misura di grandezze infinite – ed io propendo verso il ridicolo. Eppure è stato bello sognare e ne conservo nostalgia. ‘ – Ho fatto il mio tempo. – Non volevo domandargli che cosa avrebbe fatto, aspettavo che me lo dicesse. – Andrò da solo verso il Nord, verso l’Amazzonia. – Entrerai nei deserti inesorabili. – E’ possibile. Da bambino sognavo queste regioni sconosciute. Sarò l’uomo che avrà provato tutti i suoi sogni. Dopotutto non ne avevo molti. – Si dice che gli Incas fuggendo si siano rifugiati là, quattro secoli fa. – Forse. – Nessuno può avvicinarli. – Chissà? – Non gli dissi più nulla lassù. Non ero meravigliato. Quell’uomo che mi aveva stupito non mi poteva più meravigliare. Senza dubbio accadeva perché se ne andava’, così si conclude il romanzo di Drieu. Senza rancori senza rimorsi senza rimpianti, ma ricordi tanti. Come il vagabondo cantato da I Nomadi che si rende consapevole come ‘lassù mi è rimasto Dio’ (Illusione, è probabile? Inganno, forse sì? Tremore e angoscia nello scoprire, simili ai Titani, un cielo vuoto, è possibile? ‘Gli Incas sapevano profondamente che Dio è dietro gli dei e che dietro il cavallo e dietro il sole vi è l’indicibile’, pubblicato nel 1943, alla vigilia del rovinio tragico dell’Europa, troppo tardi e a frantumatasi l’idea grandiosa di un Nuovo Ordine Europeo, che Drieu intuisce con la sensibilità acuta dello scrittore).

Eppure è stato bello sognare, come c’insegnava Léon Degrelle. Nella follia il sogno di Nietzsche abbracciato al collo di un ronzino e, su un pezzo di carta, ‘Arianna ti amo!’… magari, sostituendo al minestrone offerto dalla famiglia Fino, che lo ospita, una minestra di miso koreano…

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