Di Fabio Calabrese
Siamo arrivati a un anno dalla fine del mandato presidenziale di Barack Obama, quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti d’America e primo presidente di colore, primo presidente non bianco, primo presidente non WASP (bianco, anglosassone protestante), con la parziale eccezione di John Kennedy, cattolico di origine irlandese e, visto anche il rumore e l’entusiasmo assolutamente immotivato che la sua elezione destò a suo tempo fra l’intellighenzia “liberal” dall’altra, ma ancora di più da questa parte dell’Atlantico dove l’indipendenza di pensiero è rara come i denti di gallina soprattutto fra i presunti intellettuali, sarà forse il caso di fare un piccolo bilancio.
Giudicando la cosa in termini di politica razionale, essa non può essere definita altrimenti che come un totale fallimento che si inserisce con molta chiarezza in quello che si profila sempre di più come il declino della potenza americana.
Se c’è una cosa che questa presidenza ha dimostrato in maniera molto evidente, è che nella “più grande democrazia del mondo” il “popolo sovrano” non conta assolutamente nulla. Quando Obama si è provato a varare quella riforma sanitaria che era stata il suo cavallo di battaglia elettorale, si è trovato contro una resistenza insuperabile; in compenso, quando ha richiesto un aumento “temporaneo” della presenza militare in Afghanistan, si è trovato tutte le porte spalancate. In altre parole, la dimostrazione più chiara ed evidente che il potere reale in America è sempre nelle mani delle solite lobby, ed in modo del tutto indipendente dal voto popolare, qualunque sia il colore (politico e di pelle) dell’amministrazione in carica.
A questo aggiungiamo una crisi economica che appare sempre più senza vie d’uscita, il fallimento e la rinuncia a qualsiasi ipotesi credibile di “exit strategy” dai pantani iracheno e afgano, lo scoordinato, confuso e inefficace intervento in soccorso della popolazione haitiana dopo il terremoto, l’incertezza e l’indecisione dimostrate dalla NATO (e la NATO, è inutile che vengano a raccontarcela, è uno strumento degli Stati Uniti che non muove foglia che Washington non voglia) nella crisi nordafricana, soprattutto nel dramma nel dramma rappresentato dal caso libico. L’unico vero successo di questa amministrazione, è stato il trasferimento all’Europa degli effetti della crisi delle banche americane dovuta ai mutui subprime, un disastro che invece di essere pagato da chi l’ha creato con investimenti irresponsabili, è ricaduto e ricade sulle spalle dei risparmiatori europei, noi, che continueremo a pagarne le conseguenze ancora chissà per quanti anni. Probabilmente la ricaduta della politica americana sull’Europa non aveva conseguenze così distruttive dal 1945. Grazie, mister Obama!
Il fatto è però che per capire davvero il fenomeno Obama dobbiamo tenere presente il concetto che la politica si basa solo in parte modesta su elementi razionali, e grandissima parte ha tutto ciò che influisce sull’immaginario collettivo. Lo scrittore Norman Spinrad ha espresso l’opinione che a me sembra ineccepibile, che con l’elezione di Harry Truman (successore, ricordiamolo, di Franklin Delano Roosevelt, tanto per inquadrare correttamente il periodo storico), è stata l’ultima volta che l’elettorato americano ha votato per un uomo invece che per un’immagine televisiva.
Allora capiamo che il problema non è chiedersi come mai un uomo di colore ce l’abbia fatta a diventare presidente degli Stati Uniti (e magari congratularsi con lo stesso senza accorgersi di quanto fittizio sia il ruolo di quello che sulla carta è l’uomo più potente del mondo), ma capire le ragioni per le quali le lobby che esercitano il potere effettivo in America abbiano deciso di sostituire la maschera dello Zio Sam con quella dello Zio Tom.
Da un certo punto di vista, l’elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti è ben lontana dal rappresentare un inatteso trionfo per la comunità afro-americana ed è piuttosto uno smacco per la stessa, infatti, il primo presidente “di colore” degli Stati Uniti, un mulatto nato alle Hawaii da un padre africano (che gli ha lasciato in eredità un bel nome islamico e stranamente simile a quello della defunta “primula rossa” del terrorismo internazionale) e da una madre bianca, non ha proprio nulla a che fare con essa, una comunità che dopo aver raggiunto mezzo secolo fa per grazia di John Kennedy la piena integrazione, si è dimostrata buona soprattutto a campare di assistenza pubblica e micro e macro criminalità.
E’ uno di quei discorsi che si preferiscono evitare, ma è un fatto noto che se si disaggregano le statistiche relative alla comunità afro-americana da quella della popolazione USA in generale in termini di aspettativa di vita, scolarità/analfabetismo, criminalità, malattie a trasmissione sessuale, si ottiene un quadro che si distacca nettamente da quello della popolazione americana in generale e dalle medie occidentali, e rientra in quella di
uno stato dell’Africa sub-sahariana. Delle due l’una: o gli afro-americani sono ancora oggi emarginati, ma questo non sembra proprio essere il caso, oppure questa è la riprova più evidente dell’impotenza dell’ambiente nei confronti del destino tracciato dalla genetica. E’ un tipo di realtà su cui faremmo bene a riflettere, perché è quello che l’immigrazione porterà ogni giorno di più in casa anche a noi.
uno stato dell’Africa sub-sahariana. Delle due l’una: o gli afro-americani sono ancora oggi emarginati, ma questo non sembra proprio essere il caso, oppure questa è la riprova più evidente dell’impotenza dell’ambiente nei confronti del destino tracciato dalla genetica. E’ un tipo di realtà su cui faremmo bene a riflettere, perché è quello che l’immigrazione porterà ogni giorno di più in casa anche a noi.
In un bell’articolo apparso sul sito del Centro Studi La Runa, L’ignoranza americana, Silvio Waldner faceva notare che negli anni ’60, nel periodo kennedyano, il livello dell’istruzione pubblica negli Stati Uniti è stato drasticamente abbassato proprio per consentire l’integrazione della minoranza di colore. Non servirebbe nemmeno far notare che la scuola italiana post-sessantottina, dominata da docenti di sinistra, ansiosa di integrare a tutti i costi fino all’ultimo clandestino, si è avviata da un pezzo sulla medesima china.
Grazie al generale declassamento dell’istruzione e all’effetto Prentice di cui parleremo fra poco, non è però che non si sia formata una classe media di colore negli USA, non è che non vi siano persone di colore di successo in molti campi, dallo sport allo spettacolo, alla cosiddetta arte (sicuramente, la spazzatura, l’entartete Kunst che oggi ingombra le gallerie d’arte rendendole simili a vicoli di una suburra urbana ingombra di rifiuti non richiede alcuna genialità, e se la Farm di Andy Warhol ha deciso che gli scarabocchi infantili di un Basquiat, “l’artista” afro-americano più noto, sono arte, essi “sono” arte per quanto schifo facciano), alla politica (certamente vi sono noti, oltre a quello dello stesso Obama, i nomi di Colin Powell e Condoleeza Rice, ma fare carriera in politica non richiede né intelligenza né cultura, ma furbizia, ruffianeria, elasticità di principi morali) anche se nella ricerca scientifica, nella filosofia, in tutte le attività che richiedono intelligenza creativa, gli afro-americani sono presenti quanto i denti di gallina o i puffi rossi.
Si prova un senso di irritazione vedendo “mister Obama” insediato alla Casa Bianca quando si pensa che Mario Cuomo ha dovuto più volte rinunciare a concorrere alla stessa carica a motivo delle sue origini italiane, ma qui andiamo a toccare un’altra di quelle verità sgradevoli di cui ci si vorrebbe non rendere conto, di cui soprattutto non vorrebbero prendere atto gli adoratori nostrani dell’America. Gli Italiani sembrano essere esclusi dalla dottrina della Political Correctness che impone di prescindere dall’origine etnica di chiccessia. Ancora pochi anni fa uno sceneggiato televisivo andato in onda sulle principali reti televisive d’oltre Atlantico (e poi trasmesso con sciocco servilismo anche da noi), I Soprano ha provocato indignate quanto inutili proteste della comunità italo-americana per il modo in cui riproponeva tutti i più vieti stereotipi dell’italiano mandolinaro e mafioso.
Nel XIX secolo i fuorusciti italiani godevano ovunque di stima e considerazione, se ne ammirava la dura e coraggiosa lotta per l’indipendenza e l’unità nazionali, una stima che fino alla metà del secolo scorso i nostri emigranti non hanno fatto certo diminuire; c’era, è vero, una piccola minoranza di mafiosi, di delinquenti così come qualche mela marcia ci può essere in ogni sacco, ma erano perlopiù lavoratori onesti, seri, coscienziosi, capaci, che hanno fatto grandi le economie dell’America, dell’Australia, del nord-Europa, della Svizzera.
Diciamolo fuori dai denti una volta per tutte. Io mi indigno tutte le volte che a proposito dell’immigrazione sento il solito discorso buonista, ipocrita, pretesco, untuoso: “Anche noi fummo migranti”. Certo, ma i nostri emigranti andavano all’estero per lavorare e integrarsi nel rispetto delle leggi, sottoponendosi a calvari come le lunghe quarantene di Ellis Island, non per appiccare fuoco ai materassi nei centri di accoglienza e prendere a sassate le forze dell’ordine, per comportarsi come padroni cui tutto è dovuto con chi ti ha appena soccorso e accolto per carità.
Non è per rivoltare il coltello nella piaga, ma si può indicare un momento preciso in cui la stima di cui godevano l’Italia e gli Italiani a livello internazionale è miseramente crollata, la seconda guerra mondiale, e perfino una data esatta: l’otto settembre 1943.
Torniamo al nostro “mister Obama” “bello (de gustibus!), alto, abbronzato”. In un certo senso, possiamo dire, come abbiamo visto all’inizio, che John Kennedy l’ha preceduto come esempio di presidente non WASP, ed effettivamente il kennedysmo può servire come chiave interpretativa per comprendere il fenomeno Obama, ossia il motivo per cui le lobby statunitensi hanno deciso di mascherare lo Zio Sam da Zio Tom e di adottare una facciata apparentemente “liberal” (perché sia ben chiaro che non si tratta altro che di un’operazione propagandistica). Con tutte le differenze di un quadro internazionale profondamente mutato, le motivazioni sono in qualche modo simili. Negli anni ’60 gli Stati Uniti si trovavano nel pieno della Guerra Fredda ed avevano l’esigenza di mostrare agli “alleati” un volto “liberal” e buonista, persuaderli che conducevano la crociata antisovietica solo per amore della giustizia e della libertà, senza alcun disegno egemonico a livello planetario e facendo passare sotto silenzio, ad esempio le pesanti condizioni di colonia sfruttata in cui tenevano (tengono) il continente latino-americano. Oggi, con “mister Obama” si è trattato di far dimenticare l’eccesso di “grinta” senza cervello dell’era Bush e i disastri cui ha portato nonché il fatto che le sue conseguenze, l’impantanamento nel doppio Vietnam iracheno e afgano continuano, anche se se ne parla di meno.
E’ grottesco ricordarlo, ma la gigantesca operazione di make up di facciata che ha ruotato attorno al “presidente nero” ha portato pure all’assegnazione del premio nobel per la pace dato a Obama solo per la promessa, poi non mantenuta, di ritirare le truppe americane dall’Irak e dall’Afghanistan. Non è stato il Nobel per la pace più immeritato mai assegnato solo perché tale primato spetta ancora incontestabilmente a quello assegnato nel 1973 al negoziatore nordvietnamita Le Dhuc Tho assieme all’americano Henry Kissinger, per dei negoziati che erano solo un trucco dei nordvietnamiti per guadagnare tempo e cogliere di sorpresa gli Americani e i loro alleati nell’offensiva finale contro il Vietnam del sud; perché dopotutto bisogna riconoscerlo, gli yankee hanno ancora qualcosina da imparare dai comunisti in fatto di malafede.
Con tutto ciò non si può negare che John Kennedy abbia anche avuto delle qualità di uomo politico di cui finora “mister Obama” non ha mostrato la minima traccia. Tutti noi ricordiamo la crisi dei missili cubana, nella quale Kennedy si dimostro disposto a sfidare i rischi di un conflitto nucleare pur di impedire che Cuba fosse trasformata in una base missilistica al servizio dei Sovietici in grado di colpire direttamente il cuore degli Stati Uniti, o la difesa a oltranza della libertà di Berlino Ovest dalle pressioni sovietiche, quell’orgoglioso “Ich bin ein Berliner”, “Io sono un berlinese” in cui tutti noi ci siamo riconosciuti.
Sono gli aspetti del kennedysmo che i “liberal” nostrani, quasi tutti di sinistra, quasi tutti ex comunisti, si sforzano oggi di ignorare con una memoria molto selettiva. Esempio paradigmatico di incoerenza, Walter Veltroni, ex comunista e ostentatamente “kennedyano”, ma se si fosse trovato alla Baia dei Porci, da che parte avrebbe puntato il fucile?
Tuttavia è innegabile che Barack Obama sia un figlio del kennedysmo, nel senso quanto meno che sul piano interno John Kennedy è stato il presidente che ha spinto di più per l’integrazione, o forse si dovrebbe dire l’equiparazione forzata della minoranza di colore.
Tuttavia, perché fra i possibili eredi/cloni del kennedysmo il ruolo di Supremo Pupazzo alla Casa Bianca è stato assegnato proprio a un uomo di colore? Qui entra in ballo l’effetto Prentice.
L’effetto Prentice prende il nome dal dottor Prentice, il personaggio interpretato da Sidney Poitier nel film Indovina chi viene a cena di Stanley Kramer. Questi, un medico di colore che è diventato un pezzo grosso dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, confessa con estremo candore di essere stato molto avvantaggiato nella sua carriera, di essere sempre stato valutato al di sopra dei suoi meriti, per il fatto che quasi tutte le persone che avevano a che fare con lui avevano il timore di mostrarsi o di essere giudicate razziste se non lo avessero considerato in termini talvolta esageratamente positivi.
Possiamo definire l’effetto Prentice come la tendenza a sopravvalutare le capacità e/o i meriti delle persone di colore in quanto di colore, spesso a discapito di persone “bianche” altrettanto o più meritevoli e/o capaci, tendenza dettata appunto dal timore, spesso inconscio, di essere considerati razzisti; è, in poche parole, una forma estremamente diffusa di razzismo alla rovescia.
E’ forse un esempio lampante dell’ironia che è a volte insita nelle cose, ma Indovina chi viene a cena, la pellicola di Stanley Kramer del 1967 (e già il periodo in cui è stata girata dice tutto), che vorrebbe essere un classico dell’antirazzismo ed il più delle volte è letta come tale, è invece nei fatti per intero una drammatica esemplificazione dell’effetto Prentice.
Immaginatevi la situazione. Vostra figlia torna da una vacanza accompagnata da un uomo molto più grande di lei che ha conosciuto appena dieci giorni prima. Vuole sposarsi di corsa per partire subito con lui in un’altra parte del mondo. Non le imporreste o non le consigliereste almeno un po’ di prudenza prima di buttare la propria vita in questo modo nelle braccia di qualcuno che è a tutti gli effetti uno sconosciuto?
Ma se l’uomo è di colore, ecco che il miracolo si compie: qualsiasi remora, qualsiasi invito alla prudenza e alla riflessione sarà rapidamente superato perché potrebbe essere interpretato come razzismo!
Che l’effetto Prentice esista, sia assolutamente reale, gli Americani l’hanno capito benissimo anche se fanno finta di non accorgersene. Parlando sempre di pellicole hollywoodiane, nel film The Soul Man di Wim Wenders c’è un giovane bianco che si trucca e si fa passare per afroamericano per garantirsi l’ammissione al college.
L’effetto Prentice non solo è assolutamente reale: l’effetto Prentice uccide. Una riprova drammatica si è avuta a Stoccolma il 9 dicembre 2000. Quel giorno, una banda di immigrati multietnici era in caccia di vittime dopo che era circolata una notizia (falsa) di aggressioni razziste. Incappò in un ragazzo di 17 anni, Daniel Wretstrom, colpevole di nulla se non del fatto di essere noto come un militante di destra. Gli antirazzisti “democratici” infoiati attaccano il ragazzo, solo e disarmato, con coltelli e spranghe e lo massacrano, lo lasciano agonizzante sull’asfalto dopo aver anche intimidito una ragazza che cercava di prestargli soccorso. Riconosciuti, gli assassini sono denunciati e arrestati. In tribunale, i giudici li condannano a pochi mesi di affidamento ai servizi sociali.
Questa è la realtà assassina dell’effetto Prentice: “per non parere razzisti”, i giudici della civilissima Svezia hanno dato prova di un razzismo repellente, valutando la vita di Daniel Wretstrom meno di un’autoradio!
I delitti permessi, coperti, oscurati dall’effetto Prentice, però, hanno ben altra estensione che un caso isolato come questo, per quanto drammatico. Nello Zimbabwe (ex Rhodesia) e nell’Unione Sudafricana dove il potere è passato alla maggioranza di colore, è in corso da anni un genocidio dei coloni bianchi che i “media” occidentali sempre “per non parere razzisti” passano sotto silenzio.
Consideriamo una cosa: qualsiasi espressione meno che entusiasticamente favorevole da parte di chi ha la pelle chiara nei confronti di qualcuno dei “belli, alti abbronzati” viene subito etichettata come razzismo, ma “loro” sono assolutamente liberi di sfoggiare e propagandare l’odio nei nostri confronti, e ne fanno testo gli inviti alla violenza, l’odio anti-bianco di cui sono costellati, ad esempio i testi della “musica” rap afro-americana.
Con l’immigrazione, le conseguenze devastanti dell’effetto Prentice sono sbarcate anche da noi. E’ noto, ad esempio, che da diversi anni i “media” francesi sono invitati a non divulgare l’appartenenza etnica dei protagonisti di fatti di sangue quando questi sono extracomunitari. Da noi non risultano ufficialmente disposizioni del genere, ma certamente sono già state emanate. E’ perlomeno sospetto il modo in cui, visto che l’immigrazione non ha per ora fatto estinguere la criminalità indigena, il modo in cui di fronte a certi fatti di sangue i Tg insistono “Avevano aspetto italiano”, “parlavano con accento italiano”, come dire: “almeno questa volta non si tratta di extracomunitari”, cioè excusatio non petita, accusatio manifesta. Si evita di dire che l’immigrazione ha portato la sicurezza nelle nostre città, nelle nostre strade, nelle nostre case a livelli di degrado allarmanti.
Nella mia esperienza come insegnante – lo cito non perché si sia trattato di un caso di particolare allarme sociale, ma perché è qualcosa che ho potuto toccare con mano di persona – mi sono imbattuto anni fa in un caso davvero eclatante di effetto Prentice: si trattava di una ragazza mulatta di padre etiope. Questa ragazza era quotata tantissimo dai colleghi, sebbene a me non sembrasse né particolarmente intelligente né particolarmente studiosa, anzi! Un giorno fu organizzato nella classe un torneo di dama che prevedeva incontri fra tutti gli allievi della classe; rimase a zero punti, perdendo tutte le partite anche con i compagni ritenuti meno svegli. E’ chiaro, lì non c’era l’effetto Prentice, l’interpretazione dell’insegnante pronto a sovrastimarla per non parere razzista.
Aggiungo che questa ragazza, nonostante i colleghi la portassero, come si usa dire, in palmo di mano, aveva oltre tutto un carattere pessimo, che riusciva a nascondere dietro un velo di ruffianeria una natura rancorosa e vendicativa, che sfogava al momento opportuno sparlando dietro le spalle di coloro che erano pronti a giurare sulla sua natura di angelo color caffelatte. Ogni tanto, sebbene la cosa non abbia mai – chissà perché – influito sul suo voto di condotta, si lasciava andare a scoppi di collera improvvisi e immotivati anche verso gli insegnanti.
Una volta l’insegnante di cultura medico-sanitaria aveva proiettato agli allievi Super Size Me, il film documentario di Morgan Spurlock che è una gravissima denuncia contro i fast food, fra i responsabili dell’epidemia di obesità che si sta diffondendo negli Stati Uniti ma anche da noi. La ragazza, che aveva evidentemente capito tutto, accusò la docente di fare pubblicità occulta per la Mc Donald’s, quando il messaggio della pellicola era esattamente l’opposto. La violenta aggressione verbale della viperetta molto abbronzata provocò un Consiglio di Classe che ricordo ancora come un incubo dominato dal fantasma del dottor Prentice.
Ci accorgemmo che la ragazza, dopotutto, non aveva preso il suo carattere viperino dal padre, ma dalla madre, il membro “bianco” della coppia, una signora per nulla gentile in nessuno dei due sensi, che era venuta, più che a perorare la causa della figlia, ad aggiungere improperi sul capo della malcapitata insegnante. Immaginatevi la scena, con un Consiglio di Classe letteralmente ammutolito e umiliato a cui l’effetto Prentice e un’ “educazione” di sinistra insieme tappavano la bocca meglio di quanto avrebbe potuto fare la Maschera di Ferro. Andò a finire che il preside si scusò a nome della scuola per il comportamento villano della figlia.
Ho detto che questa signora non era per nulla gentile in nessuno dei due sensi, perché il suo cognome da nubile testimoniava chiaramente un’origine ebraica. Lei però, come il marito africano e la piccola vipera falascià,
era cristiana eccome, apprendemmo che erano membri di non so quale gruppo cristiano fondamentalista, forse catecumenali, ma non potrei giurarci, ammesso che la cosa abbia importanza.
era cristiana eccome, apprendemmo che erano membri di non so quale gruppo cristiano fondamentalista, forse catecumenali, ma non potrei giurarci, ammesso che la cosa abbia importanza.
Io mi scuso qui di dover accennare di sfuggita a un discorso che meriterebbe ben altra ampiezza, ma ho avuto ripetute prove che le persone più sensibili a un cristianesimo convinto e fondamentalista sono coloro in cui il sangue europeo è annacquato o assente e, a sua volta, un cristianesimo radicale sembra costituire un vero e proprio incentivo al meticciato; proprio ciò di cui in un’Europa oggi invasa dalla marea umana che si riversa dal sud del mondo, non abbiamo assolutamente bisogno se vogliamo preservare la nostra identità, dare un futuro ai nostri figli e discendenti. Al contrario, là dove il sangue e il carattere europei si sono mantenuti meno contaminati, come in Islanda e Lituania, due millenni di prevaricazioni dei discepoli del Discorso della Montagna non sono bastati a estirpare le religioni native, le nostre vere radici.
E’ questo che ci occorre realmente, un senso profondo della nostra identità europea, e in primo luogo dobbiamo essere consapevoli dell’effetto Prentice per potercene sbarazzare.
E a questo punto, che il potere di Washington si compiaccia di indossare la maschera dello Zio Sam o quella dello Zio Tom, non ci interesserà per nulla.