di Enrico Desii
Dopo l’accorato intervento via Twitter del ministro per l’integrazione Cécile Kyenge («Il mio pensiero è per la tragedia di Prato. Grave la violazione della dignità umana dei lavoratori») e la perspicace dichiarazione del Presidente della Camera Laura Boldrini («se non si fa qualcosa di risolutivo, rischiamo di importare il peggio della globalizzazione») siamo davvero a posto. Dopo quanto è avvenuto domenica mattina a Prato, il rogo del capannone dove sono morti sette operai cinesi, si può dire concluso il giro di dichiarazioni ipocrite delle autorità. Ma chi ha un minimo di consapevolezza delle condizioni che caratterizzano vita e lavoro di migliaia di cinesi in una delle città da sempre più rosse della rossa toscana, salvo l’ultima parentesi municipale, il bilancio finale delle vittime può essere ritenuto addirittura tenue.
Intendiamoci. I cinesi a Prato non hanno di certo inventato nulla. Il lavoro sommerso, il lavoro nero, il vivere e lavorare nello stesso luogo per un numero di ore indefinibile, è stato quello che ha consentito a noi pratesi di prosperare per decenni, a partire dal dopoguerra. E di assorbire, senza sostanziali problemi sociali, diverse ed importanti immigrazioni provenienti dal sud Italia.
Quello che sorprende, però, è che un sistema nato sulla base di una libera accettazione da parte di operai divenuti artigiani, e quindi autonomi, che nel garage o nella cantina di casa lavoravano anche la notte o vi facevano lavorare i primi dipendenti, sia stato appaltato, negli ultimi venticinque anni, senza minimamente tutelarlo, a questa ondata migratoria proveniente dall’oriente. La quale, da parte sua, vi ha aggiunto il sostanziale disprezzo delle condizioni del lavoratore e della persona in generale.
Siccome tutti (istituzioni, sindacati, chiesa, artigiani diventati nel frattempo industriali che potevano così affittare gli immobili che la crisi faceva diventare sempre meno appetibili) vi hanno trovato il loro piccolo e squallido tornaconto, l’economia di un distretto che, con i limiti ai quali si è accennato, comunque non aveva uguali nel mondo, almeno per dinamismo, è stata volutamente suicidata. Semplicemente non imponendo, a chi ha preso il posto dei protagonisti di una storia durata più di cinquanta anni, il rispetto di regole minime, non solo quelle tributarie, ma anche quelle relative alle condizioni di lavoro degli operai. Le quali, in un paese a così elevato tasso di sindacalizzazione, dovrebbero essere date per scontate.
I due mondi, al di là delle occasioni di circostanza, non si sono mai parlati. Anche le vere ragioni di questa immigrazione (diversa, ad esempio, da quelle africana indiscriminata e dettata da motivi veri o presunti di sopravvivenza), non sono mai state effettivamente indagate. Nel caso pratese, in una zona sostanzialmente libera da condizionamenti della malavita e, quindi, dalla regia di quella, è stata impiantata una sezione di Cina proveniente tra l’altro da precise regioni della madrepatria. Questa ha velocemente surrogato la produzione delle ditte locali, a costi ovviamente nemmeno paragonabili, importando, però, anche i loro sistemi e le loro regole di vita. Con la conseguenza che migliaia di clandestini sono stati resi schiavi dai loro stessi connazionali senza scrupoli, gli unici che vedi girare per la città e che hanno assorbito tutti i peggiori atteggiamenti di ostentazione della società occidentale degenerata: la fuoriserie, l’orologio d’oro, i vistosi indumenti firmati, le sigarette americane fumate una dietro l’altra. Si tratta, tra l’altro, di una evidente dimostrazione di come comunismo e capitalismo siano effettivamente le due facce della stessa medaglia e di come, in concreto, le loro diversità sfumino rapidamente, fino a scomparire.
Ed allora sarebbe bene chiedersi se a Prato sia successo tutto per caso oppure se è ipotizzabile che la vicenda sia stata manovrata ad un livello superiore, con molte e diffuse connivenze da parte nostra.
E adesso? Tutti allineati a piangere sui cadaveri delle povere vittime ma nessuno che si renda conto che forse qualcosa bisognerebbe fare e che una soluzione di compromesso non esiste. O si continua così e si abdica anche in questo settore all’esercizio della sovranità (per ragioni umanitarie e di accoglienza e per far contento Papa Francesco, naturalmente…) oppure ci vogliono delle misure drastiche, per far cessare questo scempio. Mica per tutelare noi e la nostra economia, questi sono atteggiamenti protezionisti che vanno repressi ma, se non altro, per rispetto di quei disgraziati che, dopo essere stati strappati dalla loro terra e portati dall’altra parte del mondo, sono diventati solo un fattore della produzione nella contabilità dei nuovi capitalisti.
Ma questi, se cominciano a morire in quella maniera, non possono più essere nascosti facilmente.
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