9 Ottobre 2024
Letteratura

A proposito di “338171 T. E.” di Victoria Ocampo: tra scrittura ontologica e “pensiero corrotto” – Sandro Giovannini

“…Si  può ottenere  dagli uomini in nome dell’uomo

quello che le religioni domandano in nome degli dei? 

Questo è il problema di  T. E. Lawrence”.  

Roger Caillois

E’ veramente una bella domanda quella che Caillois pone a chiave dell’enigma  Lawrence.  Vi è anche una sottile voluta d’acre incenso che rimane nel suo spazio esistenziale dopo aver cercato di figurarsi (a posteriori) l’avventura umana di chi sarebbe potuto essere persino un suo possibile rivale nel campo del sentimento.  Non inganni troppo la sua interrogazione secca apparentemente neutra, di quel taglio che riguarda gli strati alti del cielo sopra di noi: noi siamo fatti, all’origine, come direbbe Victoria, “del Alma y de la Sangre”…  (Victoria Ocampo, Supremacía del Alma y de la Sangre, in Sur 1935 e poi Testimonios, Sec. Serie, Bs. As,        Edizioni Sur, 1941).

Domandare agli uomini  ciò che solo condizioni estremamente  liminali possono consentire è tipico però di chi lavora sulla creta umana con maschere multiple ed intercambiabili di scena, facendo interrogare tutti, prossimi e lontani, sul vero volto celato oltre il dover essere ed il voler sembrare.  E’ lo stigma della “doppiavita”  che altri ed alti ingegni hanno saputo persino codificare, lungo un percorso di prova, “doppelleben” carico sempre di una responsabilità senza sconti. 

Il sangue di Victoria  “circola bene”  quando segue le parole e le immagini di T. E., ed avviene forse proprio  perché si trova  a scorrere in quel circuito  integrato – segnato da una correlazione  venosa ed arteriosa – che riuscì a  a far proferire a Keyserling, alla fine di un tormentato e malcrismato rapporto con Victoria, una frase che… sulle prime  – a leggerla –  mi mosse a sorriso, quasi cupo e pur smarcante: “…ero stato schiavizzato dalla donna più spirituale che avessi incontrato.”  La liquidazione che Evola fece di Keyserling,  scandaglia proprio in controluce la radiografia  interna di chi – oltre al resto –  rivela una confusa ed inefficace  strutturazione gerarchica dell’animico con lo spirituale (o l’ontologico).   Il lettore avvertito comprende immediatamente dalle prime pagine di Victoria su T. E. Lawrence, quanto in lei, certamente tra poche altre donne  in tutta la storia letteraria,  sia potente l’osmosi  tra il carnale e l’astratto, tra la sonda psicologica e la ferma cornice etico-personale,  tra la pulsionalità ineliminabile ma riconosciuta e persino messa a servizio della volontà di potenza,  tutte sempre in relazione ad un’innegabile anche se personalissima volontà di verità.  Qui, infatti, entra in gioco la doppia natura, doppiavita,  tra attore ed osservatore – sempre potenziati e depotenziabili nelle tre unità aristoteliche di tempo luogo ed azione – ovviamente della scena interiore, come focus di quella esteriore.  E potremmo trovarne infinite parafrasi dall’antico occidente all’oriente estremo… La  “vertigine orizzontale” di Drieu, giudizio geniale a parere di Borges – deserti e pampas – e quella “verticale”.   Dalla continua interazione delle due con il  “proprio tempo” nasce la dialettica interiore delle “grandi anime”, che Victoria investiga con il sostegno, mai lineare ma sempre sacer, di Caillois in un mentale ménage à trois, che porta a sintesi la stessa “bellezza convulsa” che non trova riposo nell’ordinario, ma in “…un delirante culto dell’eroe, e nel desiderio di provare a me stessa che l’idolo meriti l’idolatria...”.  Detective dell’io?  Sapientemente il curatore Bagatti scrive che… “…è sempre stata una sensibilissima interprete degli infiniti io incontrati nel corso della sua vita e di ciascuno ha dato ritratti di grande profondità, costruendo così, come per un contrasto di bassorilievo, il proprio stesso autoritratto”.  Se consideriamo che questa attenzione per gli altri  (10 volumi di Testimonios contro i 6 dell’Autobiografia), le è stata opposta, sovente e da troppi, come carenza autoriale, potremmo sorridere amaramente  considerando sino a che punto pregiudizio, invidia  e superficialità siano  sempre operanti sulla scena del secolo.   E questo, aldilà d’ogni legittima riserva di visione del mondo. Victoria sa investigare, comunque come pochi altri, le contraddizioni profonde dei suoi autori preferiti, “…nessuno infatti ha parlato con maggiore durezza di lui delle proprie debolezze…”  E’ nel I capitolo “Un critico in azione” e poi nel VI  “L’io odioso” e poi ancora nel XV “Contrasti”,  che Victoria dimostra come, “…nel momento di vivere l’azione, lo spettatore ha voluto, ad ogni costo, avere un ruolo altrettanto importante dell’attore… e l’attore… (…) …che lo sorveglia, lo disprezza accusandolo di pervertire cioè di alterare…” (pag.82),   facendolo poi con quella naturalezza ch’è imprescindibile  condizione della volontà di potenza del tutto legittimamente riottosa  alla volontà di verità, a sua volta inscindibilmente legata al “destino geniale”.   Entro queste due coordinate  interiori l’orizzonte di quelle tre esteriori, luogo tempo ed azione, marcano la qualità risultante (ma potremmo anche dire originaria) di certe “venute al mondo”.

L’interprete – a sua volta –  in tal modo s’immedesima totalmente – ed è cosa rara ma possibile – nel soggetto investigato pur mantenendo  inalterata – ma quanto? e come? – la differenza valoriale, soprattutto sulle coordinate etiche personali, per l’ineliminabile traccia del vissuto e la difficile reinterpretazione di capo in capo, come salienti diversamente stagliati  e mai completamente assimilabili.

Nel XVI  capitolo “Scrupoli ed ambizioni”  viene considerato  appieno  il centro contraddittorio quale motore immobile  dei “Sette Pilastri…”  (ovvero il CIII): “…chiave del libro e pieno  di queste contraddizioni, alcune apparenti, altre fondamentali.  Il suo desiderio di piacere ed il disprezzo di tale desiderio ne costituiscono  uno degli esempi più significativi…  ‘Il disprezzo per la mia ambizione – afferma – mi portava a rifiutare  qualsiasi offerta di onori’…  Lawrence  tiene alla sua indipendenza più di tutto, eppure ha bisogno degli altri  per vedersi, come Narciso ha bisogno della sua fonte.  Non è per ammirarsi, tuttavia, che desidera questo specchio,  ma per conoscersi, perché si conosce male.  Non conosce di sé che un fascio  di energie e di valori  il cui personaggio centrale gli sfugge.  Nelle ‘osservazioni oblique degli altri’, nei ritratti che si fanno di lui, perfino nelle fotografie, egli cerca con avidità ed inquietudine  lo straniero che lo abita e di cui ha paura. (…)  ‘Evitavo gli individui infimi, quasi fossero la prova dell’incapacità umana  di raggiungere una vera spiritualità.’   Ciò è spiegabile  in qualcuno che crede nella forza dell’esempio, come Lawrence.  Ma alcune righe più avanti, aggiunge, in modo a prima vista sconcertante: ‘Amavo le cose inferiori a me e coglievo fra esse i miei piaceri e le avventure. Nella degradazione  sembrava esserci una certezza, una salvezza finale. (…)  …L’uomo poteva salire a qualunque altezza, ma c’era sempre un livello animale al di sotto del quale  non poteva cadere.’  Ripeto lo straordinario aforisma.  Nessuna possibilità di trovare limiti verso l’alto.   Dunque impossibilità di conoscere la propria immagine  pretendendo di tracciare dei limiti  dalla parte in cui essi  indietreggiano  irrimediabilmente come l’orizzonte.  In questa definizione dell’uomo, in questa convinzione di non poter cadere al di sotto di un certo livello e di potersi al contrario elevare a qualsiasi altezza, Lawrence definisce se stesso…” (pagg. 83-85, il grassetto è mio.)

Al di là della splendida (…in quanto illuminante) immagine (della Ocampo) che non ponendosi limiti (Lawrence)… essi indietreggiano sempre rispetto all’orizzonte originariamente postosi… è proprio in questa paradossale dimensione interna di Lawrence, quella che lo costringe a misurarsi con i confini più bassi (i limiti… più facili) ove, “…se ne esaminiamo le radici… affondiamo in un oceano impalpabile...”  …e da cui quindi emergiamo solo in forza di una volontà  potente e mai arresa (e direi addirittura di più, ovvero di potersi permettere che i limiti/confini, conseguentemente, si possano spostare ancora più in là), che il giudizio di Victoria si discosta da quello di Lawrence. Diviene un giudizio altamente critico persino considerando la dimensione convintamente faustiana di Lawrence come eccezionale autoconsapevolezza, sofferente e produttiva  di grandezza (…di rara ventura nel suo caso),  ma  per nulla adatta a chi non sia in grado di sostenerne la sfida mortale.  A chi è sempre pronto, non per difetto di valore ma il più spesso obnubilato da una prosopopea insuperabile e da una sostanziale carenza di dubbi sulla propria più intima natura, – ovvero la gran parte dei capi e dei trascinatori di uomini – ad addossare ad altro od ad altri il proprio ineliminabile  carico pendente.  Tale “errore  o follia” di Lawrence è la quasi (persino per lui) inattingibile (ma poi attinta) consapevolezza che la supremazia della volontà può “…essere distrutta con facilità irrisoria dalla sofferenza fisica”, come – sulla pelle stessa di Lawrence martoriata dai Turchi –  evidenziò poi l’esperienza, portandolo alla rottura del, più che esercitato, meccanismo faustiano della volontà.  Victoria prende in carico questo “differenziale”, che è poi forse – tutto sommato e detratto – la cifra più intima e smarcante di Lawrence.  Nell’evidenziarlo è capace di parole tra le più potenti del libro proprio perché… “…In Lawrence la coscienza dominava l’istinto e l’intelligenza. Poteva tener testa alla volontà. E quando Lawrence, parlando dei “Sette pilastri…”, dice che nell’opera si trova la pelle rognosa della bestia che c’era in lui, che il libro è la bestia impagliata e rigidamente eretta perché la gente la contempli, egli si sbaglia; non forse su quanto crede di offrire, ma su ciò che il  lettore riceve”. (pag. 86).

Il lettore, in tal caso, sarebbe un giudice ammorbidito dal confronto di verità, che fa sì che l’investigatore – investigato faccia il contrario d’opporre orpelli o retorica, così prevedibilmente comuni, ma anzi, presenti il sé più duro da riconoscer(si)e e da farsi accettare… Dopo la lettura di questo aureo libro si sono ripetute alla  mia coscienza le stesse domande dettatemi dalla “Supremacía del alma y de la sangre” – conferenza veneziana del ‘34 – ove sotto una forma cortesemente cauta e retoricamente ben organizzata,  premono le stesse richieste d’indagine identitaria, sempre coraggiosamente  formulate ed a cui non si può dare risposta se non con una consapevolezza orientata dalla massima possibile ansia di verità.  Identità mai scontate ed a cui sono state date storicamente – sotto pressione degli eventi –  spesso risposte insufficienti o del tutto sbagliate.  Il “linguaggio ontologico” della Ocampo non è quindi una bella veste per tutte le sue (come sovente le è stato opposto… e le nostre) stagioni, quanto un attingere al massimo grado d’una autenticità  vocazionale, che lei infatti, come pochi, sa prima riconoscere e poi perseguire, in se stessa e negli altri, nelle prossimità e nelle differenze ineliminabili.  Ed è proprio questo processo, inverato nel concetto che preme, senza mai dare tregua alle problematiche che sempre più marcano l’ultimo uomo, abusato dalle mille rinnovate e sempre più dissimulate forme della  cedevolezza, tramite cui Victoria  procede nella scrittura  e noi con lei nella lettura… Si  svela  così uno stile alto ed ormai  del tutto desueto, per metodo e merito, al confronto, oggi, di troppe scritture perdutamente  falso-concettuali, ove magari con mille bagagli citazionali ed apparati esplicativi  presi qui e là d’ogni genere…  si è perso il rapporto diretto, sia pur drammatico, tra significato e significante. Si potrebbe anche affermare che la dimensione eticamente, se non  esistenzialmente, bipolare di Lawrence giustifichi un dionisismo di base inquieto e genialmente  fattivo con un apollinismo di copertura e di equalizzazione dell’uniforme e persino della caserma (la tanto provata sottomissione) che non potrebbe certo divenire paidetica per molti se non si ponesse (…come nel caso suo e di molte altre grandi anime) nella realizzazione mistico-eroica ove volontà, rinuncia, esaltazione e sobrietà epica stiano perennemente su crinali taglienti marcati, sia pur produttivamente, da dimensioni conflittuali.  Si comprende anche che la giustificazione – come risultante – di tale coacervo inscindibile si possa e forse si debba,  in Lawrence, risolvere in una serietà beffarda ed in un senso tutto… imperiale dell’umorismo (molto inglese o forse molto stoicamente romano), ad altri sicuramente inaccessibile.

Ostico (per il traviato umanesimo, ormai di ipocrita risulta) se non del tutto insopportabile.  Purtroppo spesso viene massivamente odiato, istintivamente, ciò che si avverte come assolutamente irraggiungibile. Ne abbiamo continui esempi.  Anche qui la corrispondenza interna con Victoria risolve qualche enigma di troppo e  coordina uno stile di scrittura investigativo chiuso a sensibilità ottuse o  del tutto normalizzate dalla spaventosa rozzezza della presente epoca. Non inganni l’astrattezza della cosiddetta filosofica fatica del concetto, il più delle volte poi applicata paludatamente a soggetti miserevoli… perché tale fatica è del tutto illusoria (ed improduttiva) a fronte della perdita progressiva della corrispondenza tra un pensiero pensabile (appunto solo astrattamente) ed un pensiero vivente (nel contesto della propria ventura secolare).  La considerazione della totale inattualità dell’auro libro  non è quindi peregrina,  andando  così a premiare la scelta della ‘Settecolori’ che ovviamente si augura legittimamente una lettura ben allargata a tutti i desiderosi di aria pura, sia pur bruciante perché certo non consolatoria ma anzi profondamente problematica…  pochi però temiamo… in una temperie – come quella attuale –  di bassi effluvi tra materialismo democratizzato, deviazionismo incoraggiato quando non istituzionalizzato e pensiero  beceramente appagante del “politicamente corrotto”.

L’interpretazione conseguentemente elitaria  di Victoria è sorprendentemente così  in linea con quella di Lawrence e non con quella del lettore che rifugga come la peste la domanda inesausta di verità,  d’altronde oggi perseguibile, per il grottesco dominante vuoto di senso,  davvero da pochi.   Ma può superare, proprio in funzione del suo essere ormai sostanzialmente aliena,  ogni barriera di tempo e persino ideologica,  per rifulgere come materiale sempre più raro e prezioso.

Sandro Giovannini

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