7 Ottobre 2024
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A proposito di “L’eco della Germania Segreta” di Giovanni Sessa – Sandro Giovannini

C’è una strana intima coincidenza tra il lavoro, ormai di anni, di Giovanni Sessa sul mitologema della “Germania Segreta” ed il mio libro su “Borges et alii. Una diversa avventura dell’elitismo”, anche se i dati generativi, letterari e latamente contestuali dei due testi sembrano lontani anni luce.  Qui non siamo, lo diciamo immediatamente, nella sequela del rinvenimento archeologico del topos letterario, anche se molte delle eventuali coincidenze interne dei  prodotti di scavo  potrebbero rivelarci insospettate analogie, quanto proprio nel  lavoro di banco  posteriore, fatto intrecciando ipotesi interpretative, datazioni discutibili, primazie logiche, in definitiva il lavoro di tesi antitesi e sintesi che presiede ad ogni ricerca onorevole. 

L’immagine che sopra abbiamo evocato potrebbe essere deviativa se però la intendessimo del tutto come cosa salda, ovvero come una chiave omnibus, capace di spalancarci la porta del senso completo, attuato, vitale, complessivo e contestuale al posto invece – forse – del farci intuire, ma in modo potente, che dietro quella porta si potrebbero nascondere delle domande ancor più segrete, in quanto del tutto inaudite… (=mai ben comprese), quindi sostanzialmente mai o mal poste, su quell’andito, su quel sito, su quelle rovine… Ma per non svolazzare come Icaro dalle nuvole al sole riporterei la scia di condensa di alcuni passi dall’illuminante saggio introduttivo di Marino Freschi quando – ad esempio – cita l’allocuzione di Gottfried Benn “La gioventù chiama gli dei al risveglio”, o sviluppa la corale (ancora) impregiudicata dei Wolfskhehl, dei Gundolf, dei Kantorowicz, dei Borchardt, dei von Hellingrath, dei Kommerel tutti – con i tanti altri ancora ben più esposti – entro il “campo mitologico di forze” che può divenire – almeno epistemicamente – una storia sacra, anche per il giovane Benjamin intorno al maestro del Kreis…  Nel caso di Benjamin, poi, il più difficilmente riducibile all’apparentato raffronto, perché la redenzione ed il nuovo inizio, comprensibilmente, si articolano solo dalla soluzione messianica.  Comunque è indiscutibile che si tratti di una… storia sacra, quindi di un quid potenziato rispetto ad una storia… sul sacro.  Il che ci ricorda ancora apparentemente diversi contesti ed altri e sempre disgiuntamente declinati tentativi.  Comunque tutte parabole tangenziali di pensiero nate all’interno di una passione senza freni (del secolo), tramite quel diffuso eros della distanza (ormai proporzionalmente eclissatosi), unico a rapirci dal catafratto mondo delle cose, per quello che sono od appaiono e condurci all’“intangibile realtà dell’immagine”, la “polare reciprocità” di soggetto e proiezione, rappresentazione e creazione, di cui Damiano traccia – nella sua Appendice – un’acuta e coraggiosa (perché sorprendentemente smarcante) radiografia, ed approdate poi alle più evidenti (secolari) derive.

In un altro nostro testo avevamo più produttivamente accostato tale “intangibile realtà dell’immagine” come potestà di svelamento e ricomposizione, quindi agente a tutto campo nella prospettiva di azione e pensiero, ricollegandoci al miglior lavoro del “pensiero di tradizione”. “…Allora in una stessa linea postmetafìsica (ma non postontologica) residua potentemente l’obiezione contro l’autoreferenzialità assoluta dell’arte – sempre variamente declinata, in alto come in basso, idealista come materialista – essendo l’arte medesima comunque instauratrice sia di legittimi “orizzonti d’attesa” individuali od individuabili, oltre che sociali, sia – come minimo – d’innegabile riconoscimento culturale e civile ed epocale…  Anche per questa via, oltre che ovviamente per quella più diretta, potendo riconoscersi che l’avvolgente fantasmagoria della piena della manifestazione è per sua natura opera sacra (mâya in divinis), in quanto espressione necessitata della manifestazione stessa ad ogni livello di stato.  Ma individuarne la potenza (la fascinazione chimerica) e la sacertà significa anche rovesciarne l’apparente validità (od invalidità) spirituale assoluta e, relativizzandone le forme come potenziali gradini ad, ritrovare uno stato al di là di ogni “sottoposizione”, “caduta”, “délaissement”, “peccato originale”, “clinamen”, “entropia” etc., (a seconda della prospettiva ermeneutica) ed operare quella metánoia che (qualsiasi sia la dimensione precedente, creduta, sperata o subita) tutte le pratiche operative prevedono, come rovesciamento efficace e creazione di senso.  In più, di un senso non rettoricamente idealistico o passionalmente devozionale, ma legato persuasivamente all’essenza, oltre che alla personalità, e quindi in un modo anche ben fisiologico e sostanziale…”. L‘immaginale sarebbe, ed è, quindi cosa ben diversa dalla fantasmagoria incongrua e dalla fantasia eterodiretta.  Questo perché noi, nella nostra civiltà, abbiamo progressivamente ampliato il divario tra teoria e prassi creativa, allontanandoci in tal modo dall’antico occidente come dall’estremo oriente, nei quali la pratica del collegare ogni fattore creativo al rapporto – sia pur in modo sempre più spinto e sempre più raffinato – con l’esperienza personale e diretta, giustificava ed ampliava la sacrosanta diffidenza verso l’impulso (da noi, certamente dall’inizio) irrefrenabile alla concettualizzazione.  Operante tale diffidenza, tuttora, all’interno di nobilissime tradizioni come il tao e lo chan/zen, tramite assimilabili tecniche meditative.  Qui si aprirebbe – cosa fuori luogo – una dura diatriba sulle stesse potenzialità, offerte da una prassi meditativa e quindi creativa d’energie dal vuoto, all’espressività artistica allargata o non specializzata, (ma sempre comunque non oggetto di sola contemplazione narcisista o di mero ritualismo esteticista, ma attività catartica), elemento che all’esperienza (complessiva) occidentale – come minimo – provoca (potremmo persino dire, in corrispondenza colpevole), sospetto ed estraneità, sia pur ormai in un’ottica ben lontana da certe datate e superficiali traduzioni occidentaliste della supposta “naturalezza orientale”, tipo l’action painting, o prima ancora dei vari giapponesismi, cinesismi, egittismi ed orientalismi ed africanismi da Wunderkammer.  In tal senso il ricorso all’immagine (come sopra inteso) è un meccanismo di reintegrazione in una organicità (sia in termini spaziali che temporali), anche se non si può più praticarla con una postura di reazione integrale – che è, come ben sappiamo, inapplicabile e controproducente – ma in una logica inclusiva di risistemazioni topologiche.  In una sorta d’innocenza, non primaria ma derivata, al modo della “semplicità punto d’arrivo”, che, inglobando la conoscenza, pratichi il discrimine di valore sapendo però bene che l’apprensione concettualistica come unico strumento non è la soluzione consigliabile in base alla nostra vocazione più profonda.  In tal senso la riflessione tradizionale sulla potenza dell’immaginale, ancora non fantasticheria mentalista e non evasionismo delle pratiche, ma precisa concentrazione sulla potenza ricostitutoria e fondante dell’immagine, è del tutto centrale…  Ciò avviene a livello insuperabilmente individuale come tecnica operativa ma sappiamo bene che agisce induttivamente anche a livello massmediale in termini di ricezione attivante strati più ampi e coinvolgenti, a livello, appunto, sociale.  La tecnica singola avviene comunque indubitabilmente entro e contro la piena della manifestazione, che va sempre necessariamente nella direzione del velare e dello spegnere le potenzialità rimesse ad una scelta individuata, compito proprio adatto a svelare l’immobilità astratta dell’illusionismo cangiante.  Scegliamo quindi per noi questa operatività artistica, che infatti solo in tal modo spiega alcune fenomenologie di grande valore spirituale in artisti (e scienziati) moderni, altrimenti apparentemente sollecitati e crismati.  Individuare nella piena della manifestazione e quindi nella e contro la corrente, tutti i meccanismi di concrezione, contrazione, individuazione surrogatoria ed espropriante, che costituiscono lo scenario teatrale apparecchiato nella varietà per l’uomo è proprio del migliore spirito artistico, oltre che ovviamente di quello mistico-operativo.

Questo lo dissi già al proposito del richiamo che fa centralmente al suo lavoro Sessa riproponendo ancora ed ancora in evidenza l’eros cosmogonico non solo in termini etimologico-filologici ma trascritto (in sangue e carne) dai palinsesti di molte delle nostre grandi anime, come potenzialità percorribile.  Lo ripeto a gran forza e non certo per masochismo, sulla base del fallimento del mio stesso libro su Borges, tendenzialmente ben presuntuoso, ovvero sulla tesi che mi sarebbe piaciuto riuscire a sviluppare, con compiutezza almeno formale, onde chiarirmi del perché – essendoci in molti eminenti casi una linea di lancio (l’elitismo=immagine potenziata di sé) persino a posteriori appercepibile come sostanzialmente assimilabile per vocazioni, impulsi, formazioni e prime esperienze vitali – si sviluppino poi inaudite differenze, capaci di portare a del tutto diverse scelte, comunque con riscontri interiori ben registrabili, ovviamente sine ira et studio e quindi sostanzialmente innegabili. Questa istanza di principio, certo non richiesta e che potrebbe anche apparentarsi, nel mio caso, ad una volgare deriva narcisistica se non ne fosse evidente la consapevolezza dolente di un gravame eidetico e di una “fatica del concetto” ai limiti dell’irrilevanza logica, non mi pare affatto inutile proprio per chi legga il libro di Sessa realmente, quindi ormai dei non pochi che lo stimano come uno dei pensatori più vitali e arditi del pensiero di tradizione, a di là della stessa ragione strutturale ben portante del libro.

Quindi non prendere come cosa salda l’utopia della tradizione, che si rischierebbe di rimanere nell’eliodromo del puro concettuale, ma valorizzarne l’immagine come potente viatico… come…: “…flessibilità indicata dallo spazio occupato dalla potestas di Eros [che] rende possibile per ogni ente un numero indeterminato di qualitates.  Tanto più numerose saranno, tanto maggiore sarà l’apertura dell’ente all’altro da sé e tanto più Eros potrà garantire agli enti un’azione connettiva tendente al tutto: Per questo, ricorda Donà, Platone chiamò il bello in sé, “Uno”, a testimoniare un’origine indivisa che, ormai, non ci appartiene più.  La nostra esperienza del mondo, per tale ragione, si dà nella dimensione rappresentativa, i cui due momenti costitutivi sono il soggetto e l’oggetto: «ad-tendere al bello-in-sé vuol dire innanzitutto agognare il ristabilimento dell’indistinzione originaria»…” (pag. 42, con citazione interna di Donà). Tutto questo manifesta perché nel libro ci sia più di un tentativo di superare i confini del prevedibile, ricercando con estrema accortezza e per giunta con resa d’adatto linguaggio tutti i motivi germinali nati in una comprensibile contestualità sino ai loro esiti.  Senza poi farsi prendere troppo la mano dal discutere in assoluto solo un caso o l’altro, così rischiando di perdersi nell’autoreferenzialità che ogni autore di valore necessariamente riflette, ma andando a fondo della risultante tra il vettore vocazionale specifico, gli intrecci relazionali ed amicali e le smarcanti derive epocali.  Il libro ha una salda presa filosofica sul complesso processo visto come una visione esperienziale (persino ancora) praticabile, come una linea interpretabile senza paura della storiografia filosofica più accanitamente corretta ed, in sintesi, come una causa comune originaria nella differenza, non cancellata ma persino esaltata e recuperabile, verso una scelta sinceramente antidicotomica… Ma senza venir meno al suo dovere di proporre, con sintesi mai banale e sincerità di accenti, una determinata tesi interpretativa.  E’ questo che fa la vera forza del libro, agganciandolo sì ad una storia del passato sempre registrabile a futura memoria, ma con una capacità di enucleare il duraturo dal transeunte.  E questo vale per l’oggi e forse, ancor più, per domani.

Un libro quindi che non fallisce il suo proponimento più profondo, proprio perché resta sempre leggibile e condivisibile il motivo della lettura interpretativa che Sessa compie degli autori, basandosi su permanenze ben più radicali e stabili delle stesse contingenze contestuali e delle diverse derive effettuali.  Insomma, non sono solo pulsioni vocazionali da una parte e derive contestuali dall’altra, ma assieme repertabili perlopiù quasi unicamente sul piano mondano, letterario, creativo o latamente intellettuale (come ad esempio avviene – tanto per essere ancora più chiari – nel mio Borges et Alii), sia pur tra geniali propositi e suadenti allegorie, quanto, nel caso degli autori esaminati e presi a paragone da Sessa per la sua autonoma ma correlata proposta filosofica, delle vere potestà ideo-logiche, di quelle poche in grado, cioè, d’interpretare – nel nostro specchio referenziale dove spazio e tempo si possono anche spartire senza necessariamente mutilarsi (…come direbbe Noica), progetto ed egemonia, nel e sul mondo, seppur sempre proiettivamente.

Ed anche la legittima osservazione che alcuni di questi autori non sarebbero adatti ad una comparazione produttiva ma solo a qualche (seppur potente) coincidenza di accenti elitisti (…come avvenne nel caso dell’interpretazione di Zolla ove alcuni di tali autori pur sono stati interrogati a fondo), non regge, a meno di dover per forza escludere, in forza delle derive storiche sempre alla fine sommarie e feroci, ogni profonda consonanza vocazionale, a volte ancor più rivelatoria e caratterizzante.  Anche qui potrei riportare coincidenza col mio libro Borges et Alii, proprio enucleando le derive intime di molti del Collège de sociologie, ben più proficuamente ambigue, attestate e perduranti persino oltre il crinale spartiacque, apparentemente tombale, della II Guerra Mondiale…  La visione ideo-logica (come la definisce, uno fra tutti, Augé) è quindi quella che vede meglio, oltre e dentro persino tutte le contraddizioni patenti e smarcanti della stessa ideologia, in quanto recupera, sia sul versante materialistico che su quello idealistico (qui ovviamente e sommariamente definiti in termini puramente generali), le componenti più profonde ma performanti delle scelte esistenziali.  Sempre che non si voglia fare storiografia, solamente, col martello.

Il logos physikos quale fuoco (di tempio e di vista) del libro è quello che facendosi mondo del mondo, cioè attraversando la potenza mai doma del mondo che è e non è, quindi che appare e non appare, che è in atto e che è in potenza, fuori comunque da un determinismo umano troppo umano divenuto progressivamente insensibile al dharma siderale, indifferente alla possibilità dell’impossibile, ottuso alla meta dell’origine ed all’origine della meta, determina una nuova sensibilità verso la potenza-dynamis.  Un pensiero, questo sulla potenza-dynamis che ci può far uscire  dalla gabbia che l’uomo è andato da solo creandosi ad arte, con una nuova (ed antica) arte che riconosca la libertà che vive dentro ognuna delle nostre vite, se solo riusciamo a sfiorare, con dita caute ma con polso forte, la dimensione pleromatica, sempre attingibile, sempre vivificabile e persino sempre beneficante, pur tra le innumerevoli voragini di un’epoca terminale. “…Più in generale, la filosofia della potenza non può che darsi in un ‘pensiero-che-mostra’, di qui la sua relazione con il fare artistico-demiurgico…” (pag.52)… Ma, al di là della precisa individuazione filologica-filosofica, è il dato esistenziale quello che muove davvero la nostra capacità di rimanere (ancora) vigili per tutte le prove che ci attendono, conciliando, in primissima istanza in noi stessi, necessità di contesto e libertà di opzione.

Gli itinerari nel pensiero di tradizione, di cui l’autore è e si rafforza come miglior fabbro, ci portano da una fase aurorale maturatasi felicemente in lunghi anni di studi e di confronti attivi sempre a viso aperto, liberandosi progressivamente di tutte le maschere necessarie e di scena e segnano i percorsi non per ritrovarsi in un’ennesima scuola che collazioni tanti e validi – ma sostanzialmente poco paidetici – libri d’autore, ma in un campo rinnovato di forze comunitariamente interpretabile, in una sorta d’Europa Segreta, come sapientemente auspica Gasparotti nel saggio a corredo.  Il tutto rispetto al tempo che ci è stato dato in sorte assieme alle nostre ineliminabili differenze ed alle altrettanto vocazionali volontà interpretative, sempre però rigorosamente immemoriali.

Sandro Giovannini

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