12 Ottobre 2024
Fallisi Giustizia Nietzsche

Abbracciato a un cavallo

di Joe Fallisi
“Morale” ed “etica” rimandando a termini (latini e greci) che indicano i costumi, differenti da popolo a popolo e transeunti; insieme, la sovrastruttura ideologica – esattamente nel senso marxiano – che su di essi viene codificata. Di qui la critica, fin troppo semplice, che di questi concetti è stata fatta (per esempio da Nietzsche). 
Essi, in realtà, sono inadeguati o del tutto parziali a giudicare il senso della questione. E, en passant, ribadisco come la dichiarazione stessa di appartenenza al genere Homo sapiens e degli eventuali tabù correlati sia TUTTA CULTURALE, cioè accidentale, empirica, non sostanziale(1). 
Potremmo rifarci a comunità umane le cui usanze e leggi hanno ritenuto inammissibile l’abuso e la reificazione, da parte dell’uomo, degli animali non umani (così come, più in generale, della natura). Ciò non “dimostrerebbe” ancora nulla dal punto di vista filosofico, perché ad esse si potrebbero contrapporre quelle di tante altre nel corso della storia (oltre a tutto la maggioranza).

Paradossalmente, è la psicologia applicata alla “giustizia”, concetto cardine, a tutte le latitudini, di ogni etica, che a mio parere meglio consente di intravedere la soluzione. Qui è forse utile una breve digressione storica sull’idea stessa di “giusto” e “ingiusto”. L’esigenza di ristabilire l’equilibrio infranto la ritroviamo fin dalla più remota antichità e l’antichità della giustizia ebbe generalmente una concezione naturalistica. Dai pitagorici, che consideravano il numero come simbolo dell’armonia cosmica e le azioni umane come riflesso di questa sulla terra e nel numero elevato al quadrato vedevano l’espressione teorica più pura della giustizia (equità e parità: distribuzione e retribuzione “pari per pari”); a Platone che la riteneva, piuttosto che un concetto astratto, un’entità reale, un’ipostasi, la virtù capace, all’interno e fuori dell’individuo, di produrre l’armonica concordanza fra le tre parti (razionale, irascibile, concupiscibile) dell’anima, così come fra le tre classi sociali che nella sua visione ad esse corrispondono; ad Aristotele che si riferiva (per primo) alle idee di uguaglianza e di “giusto mezzo”, per cui la virtù consiste nell’armonia e nell’equidistanza che “media” tra l’eccesso e il difetto(2); agli stoici che ritenevano i rapporti umani regolati da una vera e propria “legge naturale”, che come Provvidenza guida e governa il mondo; ai romani che questa stessa legge chiamarono “diritto delle genti”. 
E’ solo con il torvo avvento del cristianesimo che si affaccia e impone una concezione “spiritualistica” della giustizia, in base alla quale il suo fondamento non è più la legge naturale, ma la “volontà di Dio”, secondo i suoi imperscrutabili disegni. “Giusto” è ciò che Dio vuole, secondo S. Agostino, giusto è l’uniformarsi a quella volontà senza volto. La “norma” diviene il comandamento di Dio e l’ossequio ad esso il primo, anzi l’unico, dovere. Interpretato e amministrato, come ben sappiamo, dalla nera pretaglia. 
Ma torniamo alla psicologia. Chiediamoci cosa muova l’animo e il comportamento di chiunque (di un pigmeo, di un hawaiano, di un boscimane, di un finnico, di noi stessi) alla vista o anche alla semplice considerazione di un’ingiustizia palese; oppure, più specificamente e più in generale, quale sia il motivo vero del nostro prendere partito per la “rivoluzione”, per la distruzione e il superamento di quest’ordine sociale. Perché diavolo, ab ovo, ci appare intollerabile lo sfruttamento di fabbrica, quell’automatico, materialissimo  prelievo-“furto” del plusvalore su cui tutta la baracca fantasmagorica del capitale si regge e prospera fino al delirio, fino alla pura astrazione? Non ci sembra forse, innanzi tutto e irrevocabilmente, “ingiusto”?… Al proposito, nelle nostre reazioni dirette, non conta un bel nulla il pensiero che si tratti di una forma sociale storicamente “superiore”! (sai quanto ce ne può sbattere se il sangue lo succhia un vecchio padrone o un modernissimo “operatore” in camice bianco!… quello che conta è che in un batter d’occhio ti ritrovi carcassa, vuoto a perdere)… E così è PER TUTTO. Anzi, si può dire che le azioni che noi stessi sentiamo come più degne riguardano SEMPRE la lotta contro qualcosa che ci appare iniquo, ancor di più se esse vanno oltre il misero recinto del nostro ego (quello di Stirner, in fondo, è solo un equivoco idiosincratico). E in tale categoria, rientra perfettamente, a ben vedere, anche tutto ciò che riteniamo falso e laido. 
Nietzsche pensava che la molla del “socialista”, dell'”anarchico”, eredi ed esecutori testamentari, ai suoi occhi, del nichilismo cristiano, fosse il risentimento e l’invidia mortale – nei confronti dei forti, dei ben formati, dei baciati dagli dei. Molto di quel che storicamente gli è seguito parrebbe confermarlo. E tuttavia la necessità di questa rivolta, se egli avesse potuto astrarsi dalla sua stessa condizione sociale (quella di un aristocratico crepuscolare), se fosse uscito all’aperto, nel grande mondo cangiante, penso che anche ai suoi occhi sarebbe apparsa sotto altra luce… Figurarsi!… l’occhio di Nietzsche, il più cristallino, implacabile, sincero, GIUSTO!… 
Per quanto mi riguarda, l’ultima sua immagine, quella più veritiera è la, nell
a piazza di una Torino stupefatta, abbracciato in pianto convulso a un cavallo…
NOTE
(1) A semplice mo’ di esempio. Per il cittadino texano un bimbo di una città qualunque della baraccopoli planetaria non “vale” pressocché nulla – se non, eventualmente, come potenziale lavoratore semi-schiavo o futuro consumatore o persino come deposito d’organi – in confronto a un pargolo (della classe medio-alta) di Houston. I due appartengono a “specie” diverse (sempre più nei fatti) e ciò che li apparenta nell’ideologia è puro costrutto mobile culturale.
(2) Per Aristotele la giustizia (da lui distinta in g. distributiva e g. commutativa) è la virtù etica per eccellenza, fra tutte la più elevata e che tutte comprende e coordina. Essa è solo “riferita ad altro”, tende cioè a realizzare non tanto il bene del singolo che la esercita, quanto piuttosto il bene di tutti e di ciascuno, e richiede, per essere tale, l’intenzione deliberata e consapevole della volontà. Distinguendosi in ciò dalla mera legalità e dalla consuetudine.

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