Esistono due categorie di “storici” molto differenti fra loro. Da una parte esistono gli storici che fanno sempre riferimento alle “fonti”, ossia ai docunenti scritti lasciati dagli antichi, documenti che cercano negli archivi, analizzano, studiano e dai quali traggono le loro conclusioni storiografiche. Dall’altra parte esistono gli storici che fondano le loro ricerche solamente sugli scritti già pubblicati dagli altri. Si afferra subito che i veri storici sono i primi, mentre i secondi non sono altro che compilatori di opere divulgative e di successo oppure di semplici manuali scolastici.
L’amico Italo Bussa appartiene senz’altro alla prima categoria di storici, come hanno sempre dimostrato i numerosi studi pubblicati nella assai valida rivista culturale da lui stesso fondata e diretta, i “Quaderni Bolotanesi” e di cui mi vanto di essere collaboratore anche io.
Nel maggio del 2015, per i tipi delle “Edizioni della Torre” egli ha pubblicato un’ampia opera intitolata «L’Accabadora immaginaria – Una rottamazione del mito”, nella quale ha ampiamente dimostrato la sua totale padronanza delle “fonti” e precisamente la sua conoscenza e la sua analisi di tutti gli autori, antichi e recenti, che hanno studiato o almeno accennato alla ormai lunga questione delle Accabbadoras o Accabbadores = «accoppatrici,-tori» e della Accabbadura «eliminazione dei moribondi in lunga e penosa agonia», praticamente la «eutanasia». Se qualche studioso vorrà nel futuro intervenire su questa dibattuta questione, non potrà fare a meno di consultare il libro di I. Bussa. Da questo punto di vista io sono fermamente convinto che egli sia degno di ogni lode. D’altra parte sono pure del parere che egli, nell’affontare lo spinoso problema, – in maniera inopinata e pure vistosa – abbia sbagliato la “chiave di lettura o di interpretazione” dei numerosissimi documenti raccolti e studiati.
La tesi di fondo di I. Bussa è presto detta: premesso che egli ha anche un primo importante merito, quello di aver distinto bene la “accabadura simbolica o magica” dalla “accabbadura violenta e cruenta”: la prima consistente nella spogliazione del moribondo e della sua stanza da ogni aggetto religioso, come medaglie, scapolari, rosari, crocifissi, immagini sacre, che si riteva che fossero di ostacolo alla sua morte, la seconda nell’eliminazione del moribondo o con colpi di mazza sul capo o con soffocamento provocato con un cuscino. Ebbene I. Bussa è sostenitore della tesi che la accabbadura simbolica e magica sarebbe effettivamente dimostrata dai documenti, mentre della accabbadura violenta e cruenta non esisterebbe nessuna prova.
Prendo in esame partitamente le argomentazioni che I. Bussa presenta a favore della sua tesi di fondo, argomentazioni che d’altronde non sono molte, anche se sono da lui richiamate frequentemente.
1) a) I. Bussa insiste sul tema del “silenzio totale” sulla accabbadura da parte delle fonti antiche. Senonché io obietto che questo “silenzio totale” era motivato ed imposto dal fatto che i familiari del moribondo che facevano intervenire la accabadora erano ben coscienti di fare un’azione crudele sul malcapitato, per cui evitavano con la massima cura che il fatto venisse conosciuto dagli estranei, anzi sovente essi tenevano all’oscuro pure gli altri membri della famiglia. E tanto più si sentivano in dovere di mantenere il silenzio totale, in quanto sapevano bene che l’eliminazione di un individuo, anche se moribondo, era gravemente vietata e punita sia dalla autorità religiosa sia da quella civile.
b) Al “silenzio totale” era spinta pure l’accabbadora sia per il disprezzo generale da cui si sapeva circondata da parte dei compaesani per il suo mestiere prezzolato, sia per la paura e il terrore che aveva di cadere nella mani della autorità religiosa e civile, che quasi certamente l’avrebbe condannata al rogo.
Al “silenzio totale” erano pure spinti individui estranei che fossero a conoscenza, per sentito dire, di fatti di accabbadura. Essi non si sarebbero prestati a fare i “testimoni” in casi di accabbadura sottosposti a procedimento giudiziale, cioè nei casi di una questione così intricata e pericolosa. Anche perché essi sapevano che una norma della Inquisizione spagnola imponeva la “delazione”, la cui mancata effettuazione implicava pene gravissime.
2) a) I. Bussa insiste pure sul tema della inesistenza di “prove certe” e di “testimoni attendibili” della accabbadura violenta o cruenta. Ed io gli chiedo in che cosa consista una “prova certa” riguardo a casi di natura giudiziaria oppure di ricerca storica? Glielo dico io: “prova certa” è sicuramente quella offerta da una telecamera di sorveglianza, che colga e riproduca la scena di maestre che trattano male i loro giovanissimi allievi oppure di infermieri che in un ospizio maltrattano individui vecchi oppure ammalati di mente. Ma è del tutto certo che non esistono riprese di telecamere che riprendano e ritrasmettano la scena di una accabbadura. Ma tant’è, neppure di Napoleone, Leonardo da Vinci, Dante, Carlo Magno, Giulio Cesare, Platone, Aristotele, Alessandro Magno esistono riprese di telecamere che fissino e trasmettano l’imagine di questi grandi personaggi storici e delle loro azioni; ed allora dovremmo concludere che essi non sono mai esistiti? Dunque, la storia intera, dall’epoca più antica fino al primo decennio del due mila dopo Cristo andrebbe rottamata perché non sarebbe mai esistita?
b) Circa la attendibilità o l’inattendibilità di un testimone in un procedimento giudiziario oppure nella narrazione di un evento storico, io chiamo in causa un principio importantissimo, che ho appreso quando studiai filosofia morale nell’Università: non esiste il mentire gratuito; l’uomo normale in una condizione normale dice sempre la verità. Egli invece mente quando ha da nascondere un fatto negativo oppure ha da sperare un fatto positivo. E di qui deriva la comune prassi dello storiografo di fronte a una notizia data da un autore antico: egli la accetta senz’altro come vera, a meno che non abbia il sospetto che l’autore antico abbia avuto qualcosa da nascondere oppure qualcosa da sperare da una data notizia.
Non c’è pertanto da dubitare delle notizie date sulla accabbadura cruenta da parte di autori che risultino essere stati del tutto disinteressati e in piena buona fede. Anzi, tutt’al contrario, si deve dubitare di quegli autori sardi che hanno negato l’esistenza della accabbadura cruenta, perché possono essere stati spinti dal desiderio di stornare dalla loro patria regionale la notizia dell’esistenza di una usanza tanto barbarica come era la accabbadura cruenta.
Ed esistono notizie fornite da Sardi del tutto disinteressati che hanno riferito notizie di episodi di accabbadura cruenta risalenti appena alla metà del trascorso Novecento: ad Orune, a Luras, ad Orgosolo. Io stesso ho segnalato in alcune mie opere la seguente notizia: «Dal mensile di Cagliari “Il Messaggero Sardo”, del febbraio 2004, sono venuto a conoscenza di un fatto quasi incredibile: un anziano emigrato ha scritto di avere il ricordo chiaro di due casi di eutanasia, effettuata da accabbadoras a Cuglieri, dopo la I guerra mondiale, nei primi anni Venti… In paese se ne parlava in modo molto sommesso e riservato…» (M. Pittau, Lingua e civiltà di Sardegna, II, Cagliari 2004; id. id., Credenze religiose degli antichi Sardi, Cagliari 2016, Edizioni della Torre). Ancora più recente è la testimonianza riportata da Alessandro Bucarelli e Carlo Lubrano nel loro libro Eutanasia ante litteram in Sardegna (Cagliari 2003, pgg. 86-87), i quali riferiscono due episodi di accabbadura, uno avvenuto a Luras nel 1929 e l’altro avvenuto ad Orgosolo addirittura nel 1952… – Anche lo studioso gallurese Franco Fresi, in alcuni suoi scritti e interventi, ha riportato la testimonianza di casi di accabbadura avvenuti in epoca recente in Gallura, provocati col colpo di un martello tutto di legno dato sulla nuca del malcapitato, martello chiamato matzolu «mazzuolo», di cui tuttora esiste un esemplare nella «Casa-Museo» di Luras. Oltre a ciò, nell’altra mia opera Storia dei Sardi Nuragici (Selargius 2007, pg. 276) ho pubblicato, oltre che la fotografia di questo martello, come pendant tipico degli Etruschi anche la raffigurazione di un demone infernale che tiene sollevato un martello come strumento di morte. Inoltre figure di altri demoni infernali oppure di Caronte col martello sono dipinte oppure scolpite in altri monumenti etruschi. Oltre a ciò, ritengo di aver fatto di recente un altro importante ritrovamento che avvalora grandemente la mia tesi della connessione tra i Sardi Nuragici da un lato e gli Etruschi dall’altro: nella scena incisa in uno specchio etrusco di Perugia risultano figurati quattro personaggi mitologici, Atalanta, Meleagro, Atropo e Turan. Atropo (greco = «l’Inflessibile», etr. Athrpa) era una delle tre Parche e precisamente quella che tagliava il filo della vita, cioè decideva e determinava la morte di un individuo (in lingua sarda Maria Filonzana, vedi M. Pittau, Nuovo Vocabolario della Lingua Sarda I 330). Ebbene nella scena dello specchio etrusco Atropo tiene con la mano destra un piccolo martello, nella esatta maniera dunque della accabbadora sarda, che effettuava la morte di un individuo con un martello!
3) Infine ritengo opportuno presentare una notazione propriamente linguistica di importanza decisiva. I. Bussa dedica molto spazio all’analisi delle numerose notizie che circolavano in Sardegna relative alla accabbadura, con l’intento di mostrarne sia le grandi divergenze sia le loro contraddizioni. E queste divergenze e contraddizioni, a suo parere, dimostrerebbero la totale assenza di quella usanza in Sardegna almeno nei tempi recenti. Ed invece non è affatto così: se in tutta la Sardegna agro-pastorale fino a mezzo secolo fa erano conosciuti e adoperati i vocaboli accabbadora «accoppatrice» e accabbadura «finitura, accoppamento» (da accabbare, a(g)gabbare «finire, terminare, accoppare, uccidere», significa che essi facevano preciso riferimento, non a leggende inventate, bensì a fatti reali e concreti. In altri termini, ai sensi delle norme dell’importantissimo movimento che si è imposto nella storia della linguistica storica o glottologia della prima metà del Novecento, Woerter und Sachen «Parole e Cose», se la gran parte dei Sardi fino alla metà del Novecento conosceva e adoperava quei vocaboli, è del tutto certo che esisteva pure la relativa “cosa” (die Sache), cioè la accabbadura. A conferma di ciò si prenda in esame la situazione opposta: se noi Sardi adesso ignoriamo completamente il “nome” (der Wort) dello stiletto che molti bronzetti nuragici portano appeso al petto, è segno evidente che oramai è scomparsa completamente da circa due millenni la relativa “cosa”.
Massimo Pittau
www.pittau.it