11 Ottobre 2024
Arte Pittura

Achille Funi a cura di Emanuele Casalena

( Ferrara 1890-Appiano Gentile 1972 )

“Questo paziente e solido costruttore; Achille Funi, nacque in Ferrara e crebbe sotto il segno zodiacale della linea ferma e del colore deciso, da Cosmè Tura, dal Costa e dal Cossa fermato sulle mura per sempre luminose di Schifanoia, nei grandi affreschi lapidari e sontuosi […] Nella giovane schiera dei pittori neoclassici d’oggi, egli opera, medita e agisce in silenzio, con alacre fervore, tra i primi.[…]”.( Margherita Sarfatti, Arte Moderna Italiana n. 4, Achille Funi, Ed. U. Hoepli, Milano 1925)

Nomen omen, impossibile sfuggire all’arte classica se ti chiami Achille Virgilio Socrate Funi, nasci a Ferrara, culla della corte estense, di quell’Ercole I cui si deve la prima speculazione edilizia d’età moderna con l’ Addizionale urbanistica che porta il suo nome. L’ampliamento della vecchia urbe medioevale,  creò un nuovo centro, con strade razionali, larghe, tracciate a cardo e decumano, prolungamento delle mura difensive, canalizzazione sotterranea della Giovecca, realizzazione del primo raccordo anulare, bei palazzi rinascimentali nei lotti. Tutto questo fece di Ferrara la città più moderna in Europa secondo il giudizio dello storico svizzero Jacob Burckhardt.

I lotti dei terreni però erano tutti del Duca, così fece, con Biagio Rossetti suo architetto, un modello d’ urbanistica moderna riempiendo, al contempo, di monete d’oro i suoi forzieri. Ferrara fu città natia di quell’Isabella d’Este, D’opere illustri e di bei studi amica,/Chi’io non so ben se più leggiadra o bella/Mi debba dire, o più saggia e pudica/Liberale e magnanima Isabella.” ( Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, XIII, 59), andata diciannovenne in sposa a Francesco II Gonzaga Signore di Mantova. Nell’humus della città delle delizie estensi l’ars pingendi si vestì con gli abiti a festa nel primo Rinascimento con Cosmé Tura, Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti ai quali seguirà Dosso Dossi.  Attenzione poi a quell’opera ad affresco di grandi proporzioni, il Salone dei mesi di Palazzo Schifanoia, fu una summa profana del sapere astrologico del tempo intinto nel brodo del neoplatonismo ficiano. Diciamo questo perché il buon Achille si distinse proprio per la tecnica a fresco controfirmando, nel ’33, il manifesto della pittura murale di Mario Sironi e Schifanoia era di certo nella sua testa. La Belle Epoque di Giovanni Boldini, il Divisionismo di Gaetno Previati, la pittura flash di Filippo De Pisia, Ferrara, come vedete, è sta madre di grandi pittori anche tra Ottocento e Novecento.

E’ l’anno della costruzione del nuovo acquedotto ferrarese, il 1890, quando Virgilio Socrate Funi nasce il 26 febbraio, primogenito di quattro figli d’ un pastaio sindacalista, Giovanni, e una casalinga Elvira Maria Bertolini. Bambino “intellettuale” si legge tutta la Bibbia ma non solo, si tuffa  nei versi dei poemi epici, spazia da Omero al mantovano Virgilio fino all’Ariosto. A dodici anni è allievo dell’Istituto d’Arte “Dosso Dossi”, Figura, Plastica e Decorazione i corsi da lui seguiti. A quindici avviene il suo battesimo artistico in una collettiva d’arte al Teatro  Filarmonico della città estense con carezze benevole della critica locale. Il 1906 è l’ anno della svolta, la famiglia Funi, per lavoro, si trasferisce nella Milano dai mille fermenti, è quella “Città che sale “ dipinta dal reggino Boccioni.  Naturale l’iscrizione d’ Achille all’Accademia meneghina di Brera dove insegna pittura tal Cesare Tallone prolifico coniglio d’una nidiata di ben nove figli. Il savonese fu grande ritrattista, genere che gli diede pane e fama con commesse della hight society ambrosiana, oltre allo stipendio di docente con allievi da Storia dell’Arte, Carrà, Boccioni, Sant’Elia,  Dudreville, logicamente  Funi. L’insegnamento rigoroso del maestro gettò le fondamenta solide dell’ Achille pittore,  sicurezza del tratto, anatomia della figura, plasticità statuaria,  posa studiata, attenzione al ritmo, un bagaglio non da poco. Tra i cavalletti dell’Accademia conosce quei mattacchioni dei futuristi, Boccioni, Chiattone, Carrà, Erba, e molti altri mistici della velocità. Scoppia la Guerra, Funi balza in sella alla bicicletta arruolandosi nel Battaglione volontari ciclisti e automobilisti co’ gli interventisti Boccioni, Marinetti, Russolo, Sant’Elia, Sironi. Lascia Milano per la guerra, si svuotano di protagonisti le poltrone del salotto intelligente della Sarfatti, anche quella di Funi resta lì che aspetta. Visto che la guerra è di trincea e ci si batte anche sui monti, il Battaglione VCA viene sciolto, non serve alla logistica del conflitto, ciascun appartenente viene assegnato ad altra formazione. Lui passa ai bersaglieri col grado di tenente, spedito ad ascoltare il mormorio del Piave. Tra marce, bivacchi, schioppettate, Achille disegna, schizza, annota , una specie di diario di vita militare reso a fumetti, 500 disegni di cui la gran parte purtroppo dispersa.  Quei schizzi rapidi, essenziali ci ricordano quelli d’un altro cronista di guerra Anselmo Bucci.

Negli anni furiosi del primo Novecento Funi aderisce al Futurismo, nel turbinio delle Avanguardie, si mette in scia con Boccioni e Carrà assorbendo il ribellismo anarchico del Movimento contro la polvere spessa del passato, eco di quel:” Compagni! Noi vi dichiariamo che il trionfante progresso delle scienze ha determinato nell’umanità mutamenti tanto profondi, da scavare un abisso fra i docili schiavi del passato e noi liberi, noi sicuri della radiosa magnificenza del futuro.[…] Per gli altri popoli, l’Italia è ancora una terra di morti, un’immensa Pompei biancheggiante di sepolcri. L’Italia invece rinasce, e al suo risorgimento politico segue il risorgimento intellettuale. Nel paese degli analfabeti vanno moltiplicandosi le scuole: nel paese del dolce far niente ruggono ormai officine innumerevoli: nel paese dell’estetica tradizionale spiccano oggi il volo ispirazioni sfolgoranti di novità.[…] Volendo noi pure contribuire al necessario rinnovamento di tutte le espressioni d’arte, dichiariamo guerra […] a tutti quegli artisti e a tutte quelle istituzioni che rimangono invischiati nella tradizione, nell’accademismo e sopratutto in una ripugnante pigrizia cerebrale.[…](dal Manifesto dei pittori futuristi dell’11 febbraio 1911). La vita è adrenalina, azione, il secolo nascente vede le macchine ruggire, la dea sacrificale si chiama Ve-lo-ci-tà, sconosciuta alle mammole contemplative del passato. Funi ci prova con uomini inforcati su moto o biciclette, il paesaggio dietro si scompone, le linee diagonali di forza, i piano intersecati illudono il movimento.

Ma già quei schizzi di guerra presagiscono un ripensamento, quelle figurine pacate riprese nella quotidianità della vita militare, non hanno velocità ma stasi, il suo Bersagliere ciclista, sdraiata la due ruote, disegna il suo esistere lì, in quell’ora, forse un autoritratto con malcelata stanchezza.  Gli rimbalza alla mente, in quei momenti, il mito aulico della sua Ferrara, la sua passione per i classici tanto da autobattezzarsi Achille come nome d’arte ed è il 1916. Sta vivendo un equinozio di primavera, lui, tra i fondatori del gruppo “Nuove Tendenze” nel ’13, ala destra del futurismo, ora nel dopoguerra riscopre la solidità della figura; non inganni la sua firma al “Manifesto contro tutti i ritorni in pittura” elaborato da Dudreville, l’acciaccato Russolo e l’aquila Sironi. In realtà, a ben guardare, il Manifesto auspicava un futurismo sintetico, si era esagerato nell’esplosione analitica delle immagini, arrivando sulla soglia dell’astrazione (stessa paura dei cubisti) Adesso era tempo di ricomporre i pezzi del vaso, semplificando la composizione senza guardarsi indietro, quello mai! La ricerca neoclassica era aperta, la manina gentile di Margherita poteva guidare gli artisti verso la nuova sponda. 23 marzo 1919, Piazza S. Sepolcro a Milano, nascono i Fasci Italiani di Combattimento, bene Achille Funi c’era nei 127 ( più 14 probabili ) presenti in Piazza S. Sepolcro come risulta dall’elenco redatto da “La Voce del Mattino” per  il decennale di quella storica adunata, un fascista dunque della prima ora indovinate con chi? Ottone Rosai ( probabile). La tela della Penelope Sarfatti si stava componendo proprio di sera (!), nella sua lussuosa residenza milanese di Corso Venezia, 95 dove ospitava il gotha dell’intellighentia ambrosiana, un rosario l’elenco però Berlusconi non c’era (sic!). Nel clima spumeggiante di quelle serate, nasce l’idea di forgiare un’arte della rivoluzione fascista ascesa al potere nell’ottobre del ’22. Le peculiarità nell’ agenda di Mussolini erano ben altre e tali resteranno, l’arte come espressione dell’individuo, per lui, doveva essere libera: “ E’ lungi da me l’idea d’incoraggiare qualche cosa che possa somigliare all’arte di stato “. ( dal breve discorso di Mussolini all’inaugurazione della prima mostra del gruppo Novecento alla Galleria Pesaro nel marzo del ’23 ), Margherita, al contrario, voleva partorire l’estetica fascista, l’abito nuziale della rivoluzione. Sette pittori proprio nel ’22, pochi giorni prima della marcia su Roma, decidono di saldarsi in sinergia per riportare l’arte italiana sul podio della storia, innestando la tradizione del Rinascimento sui rami della variegata pittura italiana di quegli anni. Ad Anselmo Bucci  si accende la lampadina d’ Archimede, chiameremo il gruppo dei 7: “Novecento”.  La prima vernissage è del 26 marzo del ’23 alla Galleria dell’ebreo Lino Pesaro gran mercante d’arte. Nel ’24 il gruppo ha già perduto una gamba, Oppi, in sei si presentano alla XIII Biennale veneziana, Achille tra le ’altre opere espone Saffo.

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Il ritorno alla tradizione trasferita nel contesto storico vivente è il nucleo della ricerca di Novecento, ma i sette pittori fondatori si sparigliano, in fondo alcuni ricalcano il profilo dell’artista libero, un po’ bohémienne dell’Ottocento, tutto io, divina ispirazione, cavalletto.  Sironi e Funi invece restano saldi nella ricerca d’ una sintesi tra i tesori del passato, radici profonde del fare arte in Italia, e quel presente di ricchi fermenti, cocciuti vogliono ricostruire un’estetica nazionale da primato. Gli ingredienti ci sono tutti: il disegno, i colori del Quattrocento ( Mantegna, Piero della Francesca, Bellini ), la luce ( da Leonardo a Caravaggio ), il ritmo armonioso della composizione, la plasticità materica delle figure, una spruzzata di espressionismo tedesco, le atmosfere metafisiche di De Chirico, il pathos di ambienti e personaggi, non ultima la grandiosità dell’opera. Proprio quest’ultimo fattore porta alla rinascita della pittura murale con tanto di manifesto nel dicembre 1933 a firma Campigli, Carrà, Funi e Sironi. Era l’abbandono delle alcove degli studi, dell’individualismo narcisista, della piccola pittura da cavalletto tanto amata da borghesi e mercanti, era la riscoperta delle pareti pubbliche per narrare la storia del popolo  al popolo, disegnarne la memoria nella sua marcia verso nuove frontiere.

Dopo l’esperienza del gruppo Novecento, cui Funi e Sironi partecipano alacremente fino alla seconda mostra del ’29, negli anni trenta il loro supporto preferito diventa l’intonaco coi grandi cicli d’ affreschi sul modello narrativo del Trecento ( in primis Giotto ).  Pur non disdegnando il cavalletto la coppia Funi & Sironi eccelle nella pittura murale, anzi ne sono, pur nella diversità di stile, le vere punte di diamante assumendosi il  ruolo di “artisti militanti”, ma attenzione di fede politica autentica, profetica, nulla a che vedere coi servi sciocchi del regime ( e ce n’erano già tanti). Dimessosi dal Direttivo di Novecento, Achille nel ’30 si mette in gioco proprio nell’esecuzione  delle decorazioni murali per la IV Triennale milanese che a quel tempo  dava ossigeno alla Villa reale di Monza, abbandonata dai Savoia dopo l’assassinio di Re Umberto I.

Veniamo all’imponente Esposizione della Rivoluzione Fascista del ’32, a Funi vengono commissionate opere di decorazione  nelle Sale della Guerra e della Vittoria  contrassegnate dalle lettere C e D, Architettura sobria ma monumentale delle scene, la Grande Guerra rappresentata non nei suoi tragici eventi ma piuttosto come incubatrice del futuro fascismo esaltando il mito del Mussolini interventista e combattente al fronte.

Nel ’33 è di nuovo alla Triennale ma nel nuovissimo Palazzo dell’Arte a Milano progettato da G. Muzio, tirato su in soli 18 mesi, lui vi dipinge un gran murale a tema “I Giochi atletici italiani”, continuità storica  tra lo spirito agonistico dell’antica Roma e l’Italia fascista assai attenta alla pratica sportiva di massa, riprendendo il motto “mens sana in corpore sano”. Due registri sovrapposti, in basso gli atleti romani impegnati nelle specialità sportive del tempo ( pugilato, lotta greco-romana, lancio del giavellotto), con al centro il discobolo di Mirone icona di continuità con lo spirito olimpico dei greci. Sopra Funi sceglie il calcio e l’atletica leggera, la regina della pratica agonistica, mentre al centro ora giganteggia un enorme genio alato che regge il simbolo del fascio.

Un capolavoro dell’architettura sacra, dicunt, fu la Basilica del Sacro Cuore di Cristo Re a Roma, progettata dall’anfitrione del mattone fascista Marcello Piacentini, volumi netti, piani ortogonali, niente intingoli ornamentali, facciata priva di frontone, un rettangolo con tre bocche in gerarchia, una per ogni navata, pelle di mattoni lavorati a vista, pare un’architettura razionalista. Ma Piacentini era un ruminante, rispolvera elementi della grammatica classica come la rigorosa simmetria. i campanili gemelli, la pianta a croce ibrida, gli archi cornici degli ingressi, la cupola, l’abside, ecc…L’unica nota eretica dell’interno austero sono gli affreschi a tinte forti di Achille, quei quattro evangelisti  sui piloni della cupola e il Cristo Re in trono, imponente pantocratore di reminiscenza bizantina.  Dal ’33 passiamo al ’35-’37 in Libia colonia giolittiana dell’Impero, precisamente a Tripoli dove Funi  affresca l’atrio del Palazzo del Governatorato e la chiesa di S. Francesco alla Dahra  Il gran dipinto del Palazzo commemora la visita di Mussolini a Tripoli avvenuta il 16  marzo del 1937, Duce e cavallo sono la statua equestre di Marc’Aurelio. L’impianto delle figure richiama Paolo Uccello, la scenografia del fondale sembra disegnata dal giovane  Giotto delle Storie di S. Francesco ad Assisi. Sempre il Maestro del Mugello guida l’Achille nel narrare le storie della vita di S. Francesco nell’omonima chiesa.

Il suo Everest in arte è il ciclo eseguito nella Sala dell’Arengo del Palazzo Comunale della sua città: Ferrara. Un lavoro durato 4 anni dal 1934 al 1938, per il quale l’artista estense si avvalse della collaborazione di Felicita Frajova (Frai), pittrice praghese, d’ una bellezza unica, radiosa, già  allieva di De Chirico, fu una fiabesca ritrattista di bambine e di signore della Milano bene nonché assai longeva, si è spenta all’età di 101 anni nel 2010 nella città ambrosiana.

Il soggetto vero è “il mito di Ferrara” narrato attraverso le leggende. All’ingresso nell’Arengo ammiriamo la scena di S. Giorgio che infilza a morte il drago liberando la giovin fanciulla offerta in sacrificio al demone. Eh sì perché c’è un S. Giorgio ferrarese nella leggenda, un  cavaliere venuto da molto lontano ch’ un tempo raggiunse un umile villaggio di capanne, il primitivo abitato  di Ferrara, devastato dalle acque del Po dove viveva minaccioso un drago. Ogni qual volta la bestia  usciva dal fiume era un disastro, acqua e fango trascinati invadevano tutto causando ruina e morti. Per tenere buono, buono il drago nel suo letto i meschini gli offrivano in pasto una vergine fanciulla  acquietandone le brame. Finché arrivò quel cavaliere errabondo a trapassare quel diabolico nemico, la giovinetta di turno fu salvata, il villaggio finalmente era libero conoscendo la pace. Il drago era metafora del Po, la fanciulla di Ferrara,  il cavaliere, senza macchia né paura, la famiglia d’Este che aveva ammansito il fiume con grandi opere d’ingegneria idraulica.  Sulla parete opposta Funi rivisita il mito di Fetonte, bellissimo quanto ribelle adolescente, figlio di Elio nocchiero del carro del sole. Il ragazzo, seppure inesperto, vuole guidare “la macchina” di papà. Un giorno, il birbante, di nascosto ci riesce ma la sua imperizia è tale da rischiare un cataclisma universale al punto che Giove, last minute, lanciandogli contro un fulmine  lo sbalza giù dal carro facendolo precipitare alla foce del Po, nell’agro di Ferrara. Altro episodio affrescato sulla parete è l’amor tragico tra Ugo d’Este e Laura ( detta Parisina) Malatesta andata in sposa, di secondo letto, a soli tredici anni al ben più anziano Niccolò III d’Este noto sciupa femmine.

Parisina, tra un adulterio e l’altro del consorte, s’innamora proprio d’un figlio naturale del marito avuto dall’amante preferita Stella de’ Tolomei. I due giovani ardono di rossa passione l’un per l’altra ma il tutto in gran segreto, però a corte si mormora, pettegolezzi alzano il venticello della maldicenza che giunge alle orecchie del becco  Niccolò.

Scoperti, i due amanti vengono imprigionati nella torre del Palazzo, quivi giustiziati col taglio della testa, i loro corpi poi  inumati, nottetempo, in fretta, nel cimitero di  S, Francesco era il 21 maggio del 1425.

La parete di destra, per chi entra, ospita scene tratte dai poemi cavallereschi La Gerusalemme liberata di T. Tasso e  l’Orlando Furioso di L. Ariosto. Perché? Torquato Tasso fu ospite della corte estense a Ferrara presso il duca Alfonso ( 1572) e lì compone sonetti, madrigali, la favola Aminta, ma soprattutto terminò La Gerusalemme liberata, operando anche una ripulitura del testo originale perché in odore d’eresia. L’Orlando Furioso, che vide la sua prima stampa in una tipografia di Ferrara nel 1516, fu scritto dall’Ariosto nel capoluogo estense dove il poeta risiedeva in un’umile casetta in via gioco del Pallone, acquistata nel 1529, senza contare che anche le sue spoglie sono raccolte qui nel monumento funebre a lui dedicato, traslato al  palazzo Paradisi della città. Agli angoli del salone Funi dipinge quattro figure mitiche, Ercole, Marte, Mercurio e Apollo, il primo con chiaro riferimento ad Ercole I d’Este, il secondo e terzo già cantati in affresco nel salone dei mesi di palazzo Schifanoia, Apollo un omaggio al dio delle arti.

Sul soffitto ritorna appunto il tema di quel salone con la riproposizione dei segni zodiacali in relazione ai mesi dell’anno, un trattato figurato di Astrologia.

Stile? Una soluzione tra Pompei, il visionario Paolo Uccello e quel Giulio Romano di Palazzo Te a Mantova, useremmo la parola neomanierismo, libertà compositiva, nessuna ossessione prospettica, movimento  delle figure, licenze nelle proporzioni, colori accesi assorbiti negli impasti ed altro ancora. Direi nell’insieme l’opposto del percorso di Sironi segnato da monumentalità, espressionismo e metafisica.

Questo ciclo sommato a molte altre prove di decoratore ( vedi anche il Palazzo di Giustizia meneghino) gli spianano la strada per una cattedra di Affresco tutta sua all’Accademia di Brera di Milano della quale diverrà Direttore nel 1957.

All’entrata in guerra dell’Italia Achille ha cinquant’anni, non segue lo spericolato Marinetti partito volontario al seguito dell’ARMIR nella campagna di Russia all’età di 66 anni, lui si ritirò a Rovetta,  Comune piccinino della bergamasca con l’amico Arturo Tosi conosciuto ai tempi delle esposizioni del gruppo Novecento. Arturo è un pittore lirico, ama le nature morte, soprattutto i brumosi paesaggi dipinti en plein air, diciamo questo perché anche Funi abbraccerà questo genere nei suoi ultimi anni d’ attività. Pendant la guerre aveva partecipato, nel ’44, ad una collettiva presso la Galleria il Secolo a via Veneto a Roma, erano stati invitati i più insigni artisti del novecento , in tutto 25 tutti ben  selezionati. Non aveva rinnegato il Fascismo dopo l’8 settembre, era rimasto fedele alle scelte d’ una vita, aderì idealmente alla RSI  ma non imbracciò il moschetto nella guerra civile, se ne stette appunto in quel di Rovetta con l’amata sorella Margherita. Dovette lasciare la cattedra all’Accademia di Brera per il precipitare degli eventi bellici, usci indenne dalle indagini “partigiane” sull’organico dei docenti, forse, un po’ maliziosamente, anche perché aveva lasciato la sua casa milanese ad un caro amico, però partigiano, che ne fece un covo della Resistenza. Nel dopoguerra si divise tra l’insegnamento accademico e la sua passione per l’affresco, una specializzazione che gli permise di non conoscere il vade retro satana dell’antifascismo, poi lui era stato sì una camicia nera della prima ora ma soprattutto un maestro della pittura, perciò chapeau! tanto più che la sua arte figurativa, per il popolo, era quasi in linea con l’estetica realista di Roderigo (Palmiro Togliatti) contro gli scarabocchi incomprensibili degli astrattisti. Molti muri sentono stendersi i suoi pennelli, dal Teatro Manzoni a Milano alle Banche (sic!) a Casa Reiser ( imprenditori dell’industria tessile a Gallarate ) agli edifici sacri come la Cappella S. Borromeo in S. Angelo a Milano, il Santuario di Legnano e quello dei Padri Paolotti a Rimini per lo più opera dei suoi allievi quest’ultima. Riprende temi classici, pompeiani, anche nelle opere da cavalletto poi pian piano, si ricorda dei paesaggi di Arturo dipinge, calme, silenti campagne toscane senza buoi né contadini, e queste immagini chiare, quasi in dissolvenza lo accompagneranno  verso l’ultima porta che si apre il 26 luglio del 1972.

 

Emanuele Casalena

Bibliografia:

-Lucio Scardino, Achille Funi e il “Mito di Ferrara”, Ferrara, Belriguardo, 1985

-Francesco Tedeschi, Dizionario biografico degli italiani (Vol. 50 ), Enciclopedia Treccani, 1998

-M. Malinverno, Il motivo del classico nella pittura ad affresco di A. F., tesi di laurea, Università cattolica del Sacro Cuore, Milano a.a. 1992-93.

-Ars Value.com, Biografia di Achille Funi.

-Peggy Guggenheim Collection, Achille Funi

Settemuse.it, Achille Funi pittore (1890.1972)biografia e opere.

-Arte su Arte, Funi Achille ( 1890-1972 ), monografie.

 

 

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