Sui miei passi da porta S. Paolo a via Galvani, dove insegnavo, ogni giorno mi scorreva dinnanzi il Palazzo delle Poste, così per cinque anni in quel di Testaccio, quartiere operaio di Pio IX con l’annesso Mattatoio comunale. Dal Tevere un tempo arrivavano cocci (testae) da formarci un monte, al Tevere finivano scarti d’animali. Via Marmorata (ci scaricavano i marmi) era il confine tra i patrizi aventiniani e i fieri plebei testaccini, quaggiù lo stadio della magica Roma, lassù l’Ordine grifagno dei Cavalieri di Malta e l’arcadica Accademia di danza.
Quell’edificio bianco, rivestito di marmo liscio, a forma di C era opera degli architetti Adalberto Libera, Mario De Renzi, portato a compimento in meno di due anni dal ’33 al ’35. Un filmato Luce ne riprende la solenne inaugurazione, da parte di Mussolini, il 28 Ottobre 1935.
Volumi purificati d’ogni inutile orpello, nitide geometrie prismatiche, quel nitore del rivestimento che richiama la vicina piramide di Gaio Cestio Gallo, pessimo comandante contro i Giudei a Gerusalemme, ma ricco epulone di banchetti sacri.
«L’ufficio postale di Testaccio è romano, ma carico di formalismo moderno» dirà Le Corbusier chiamato ad esprimersi sull’architettura del fascismo a Roma in un’intervista rilasciata a Muñoz nel 1936.
“Tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale”, formulava Hegel. Tra noumeno e fenomeno l’artista opera la sintesi, medium alchemico d’ un laboratorio complesso ove negli alambicchi scorrono la tradizione, le esigenze del presente, innovazioni tecniche, sartoria delle funzioni e quant’altro, il tutto volto a un’architettura “corretta”, epifania d’ una progettualità razionale d’ analisi dei diversi fattori.
Il Razionalismo italiano si radicava nell’idealismo, ricerca dell’assoluto ben oltre le quinte della scena, idea purificata dai coralli del tempo, imago della kalokagathia da rivestire d’abito moderno. Operazione divinatoria di innesto della teoria sul divenire della prassi, processo nel quale gioca un ruolo determinante lo spirito dell’artista-pontefice tra mondo delle idee e fluida realtà sensibile.
Nel 1932 il Ministero delle Comunicazioni ( sottosegretario G. Ciano) indice un concorso di idee per la progettazione di quattro Uffici Postali a Roma localizzati a piazza Mazzini in Prati, via Taranto all’Appio, via Marmorata all’Aventino, piazza Bologna al Nomentano. A giugno del ’33 i partecipanti debbono aver consegnato gli elaborati delle idee in linea con le direttive del bando compresa una richiesta flessibilità d’ apportare varianti ritenute necessarie.
Il trentino Libera firma il progetto di via Marmorata messo su carta in collaborazione con l’architetto romano De Renzi, anzi entrambi presentano progetti anche per gli altri tre palazzi. L’architetto trentino vince il 1° premio per l’Ufficio Poste e Telegrafi dell’Aventino i cui lavori di costruzione avranno inizio nello stesso anno.
Ho avuto la fortuna, in quel mio lustro, di ammirare questo capolavoro del Razionalismo usufruendo dei suoi sportelli per le mie fantozziane bollette, salivo l’ampia cordonata, richiamo a quella del Buonarroti per il Campidoglio, fin sotto il pronao tanto utile per ripararsi dagli sgrulloni romani della pioggia, poi dalle porte vetrate ero nel salone rettangolare dei servizi al pubblico. Uno spazio del respiro alto due livelli illuminato dal vetro cemento del tamburo a copertura piana contrariamente alla volta proposta nel progetto iniziale. I carichi erano sostenuti da telai di travi ed esili pilastri circolari in cemento armato foderati di metallo, quasi un accenno ai pilotis della sintassi di Le Corbusier quando, in cinque punti, riassunse i capisaldi Verso l’Architettura nel 1923. Romana era la mezza corte che scavava al centro del grande prisma quadrangolare dando forma al sacello laico del salone racchiuso su tre lati dai piani per gli uffici, con alle teste le rampe delle scale sottolineate da una maglia di rombi sdraiati disegnati da una grigia di travetti inclinati. Architettura in movimento non solo per la forma ma per la trasparenza dei vetri che permettono di sbirciare le gambe che arrancano sui gradini o li scendono veloci. Alle finestre nude, rettangolari della facciata esposta a sud su via Marmorata, il corrispettivo di schiena è un foglio bianco bucherellato da un colombario di finestre quadre, quasi una tela, però ordinata, di Lucio Fontana. Libera sceglie il rigore della simmetria, i rapporti tra le dimensioni applicando la sezione aurea, la geometria pura del vecchio Euclide, tutti fattori eredi del passato ma con soluzioni moderne. In questo non concordiamo con la tesi di un’architettura estraniata dal contesto perché se Roma è il suo habitat, il Palazzo delle Poste e Telegrafi è un monumento tra quelli di cui la città è un emporio di giganti.
Era il gennaio del 1973. al Palazzo dei Congressi all’E,U,R. si celebrava la nascita assistita del M.S.I.- DN, un’operazione per allargare il recinto della destra dopo il successo elettorale dell’anno precedente. Andai a quel X Congresso da militante coi baffi da caporale, seduto con Rossella, rara perla di camerata al femminile, in quella vasta platea invasa di delegati, consiglieri, parlamentari di trincea. Noi due studenti di architettura, all’indice del Movimento studentesco e ancor più di Lotta continua, eravamo lì nel salone della cultura, un quadrato di 38 m di lato, capace d’ accogliere 1700 persone a cui aggiungere i posti delle gallerie sospese. In alto il cubo si chiudeva con una splendida volta a crociera, leggera come una vela rigonfia, poggiante solo sui quattro angoli grazie all’azione di altrettante travi metalliche incurvate. La luce scendeva giù filtrata dai quattro ventagli vetrati, simile a quella di una cattedrale gotica. Ci sentivamo piccini nei nostri jeans dentro uno spazio immenso. Poco meno di dieci anni prima si era spento a Roma Adalberto Libera per le complicanze di un’otite forse mal curata, era lui che aveva vinto il concorso bandito nel ’36 per dotare il cuore del’E42 di un grande spazio congressuale. Luigi Pagano parlò di “occasione perduta” a commento dei risultati che vedevano al secondo posto il progetto del gruppo comasco Terragni, Cattaneo, Lingeri. Perché? Un dato oggettivo c’era, al Razionalismo puro, dopo la conquista del Corno d’Africa, la volontà politica pompava per un’architettura dei Cesari, apologia delle conquiste dell’Impero, aveva vinto Farinacci.
Il demiurgo di questo dettame era un fine intellettuale del tavolo da disegno: Marcello Piacentini a cui, non senza ragioni, viene attribuita l’involuzione delle arti indirizzate a far retorica con pennelli e compassi, lasciando in cantina le avanguardie che il fascismo rivoluzionario aveva auspicate nel quadro di un profondo rinnovamento dell’Italietta giolittiana.
Il Palazzo dei Ricevimenti e Congressi è un sapiente compromesso tra monumentalità romana e razionalismo moderno. L’esteso porticato frontale ricorda l’omonimo presente nei palazzi del Foro secondo lo schema di Vitruvio Pollione, architetto fallito, ma grande conoscitore di tecnica e tecnologia edilizia tanto da consegnarci i dieci volumi del De Architectura, vangelo per gli architetti del Rinascimento. Libera usa materiali moderni, il ferro, il cemento armato ( vedi la sala dell’Auditorium ), per dare solidità alla struttura, osare al limite nell’ottenere spazi perfettamente fruibili nonostante le grandi luci. Poi cede sui rivestimenti tutti in travertino simile all’Anfiteatro Flavio, ma le colonne del porticato sono semplici strutture verticali e non vanitose signorine adorne di capitelli; ogni ornato sparisce perché superfluo, resta soltanto una mensola vuota sul prospetto , non ospiterà mai la quadriga in bronzo di Francesco Messina. Il gioiello del complesso è, a mio avviso, il teatro all’aperto, perla bianca di marmo, incastonato dentro un giardino pensile arricchito d’ essenze mediterranee come gli ulivi, una terrazza di raffinata scenografia moderna sulla città eterna.
Il palazzo delle Poste e Telegrafi di via Marmorata è un raro esempio di architettura metafisica, ma dopo pochi anni esce dagli armadi lo stile più amato da tutti i regimi, quel neoclassicismo che Adalberto lima, lima, d’ogni scoria superflua come in questo palazzo dei Ricevimenti e Congressi datato tra il ‘38 e il ’43 ma inaugurato solo nel ’54 a tagione della guerra.
Una piccola parentesi sui secondi classificati dobbiamo pur farla perché il progetto del trio comasco anticipa di molto le grandi superfici vetrate che caratterizzano l’architettura del dopoguerra, quelle courtain wall (facciata continua ) tutte vetrate che affacciano gli interni verso l’esterno, architettura del dialogo uomo-habitat urbano, della trasparenza ma anche di infinite metamorfosi nello scorrere del quotidiano, operazione di democrazia globale ma priva, a nostro dire, di radici nazionali.
Nessuno vedrà mai il meraviglioso arco in alluminio disegnato a Adalberto Libera come porta d’ingresso a sud dell’E42. Nel 2008 l’architetto e deputato del Pdl Fabio Rampelli gettò il sasso nello stagno grigio degli architetti romani: realizziamo oggi l’arco di Libera all’EUR. Ne seguì un bla, bla, condito di ma e di se, kitch, fuori tempo, su quell’idea rimasta sulla carta, solo il restauratore Paolo Marconi formulò un parere positivo. La discussione si protrasse durante la Giunta Alemanno ma in piena discordanza di pareri interni. Logicamente non se ne fece un tubo mentre si procedeva a calare la nuvola di Fuksas sul quartiere, la chicca di un arco di 200 m. porta del Mediterraneo resterà chiusa nel baule delle occasioni perse.
La retorica della matita deve essere un gene della famiglia Piacentini, parlo in questo caso del papà del famoso Marcello, l’architetto Pio Piacentini a cui dobbiamo il tardo Neoclassicismo di quello scatolone che è il Palazzo delle Esposizioni su via Nazionale, incombente come la bestia sulla splendida basilica di S. Vitale del V secolo. Nel 1932 il palazzone viene scelto per ospitare la Mostra della Rivoluzione fascista dal 28 ottobre del ’32 alla stessa data del ’34, oltre quattro milioni di visitatori compresi i futuri antifascisti. Libera e De Renzi furono incaricati di “impacchettare” l’eclettica facciata del Palazzo con una pelle moderna. « L’arte deve essere tradizionalista e al tempo stesso moderna, ( … ) deve guardare al passato e al tempo stesso all’ avvenire » disse Mussolini inaugurando l’Accademia di Belle Arti a Perugia nel ‘26. Gli architetti Mario De Renzi e Adalberto Libera coprirono interamente la facciata con una struttura che ricorda le cattedrali romaniche, un enorme quadrato centrale di pelle rossa sulla quale posizionarono quattro fasci slanciati di metallo alti ben 25 metri, sentinelle dei vuoti dei tre vani d’ingresso. Ai lati due rettangoloni più bassi ai cui angoli svettano due numeri romano X realizzati in lamiera a ricordare il decennale della marcia su Roma. Il pronao rettangolare d’accesso, a luce netta, sosteneva la scritta “Mostra della Rivoluzione Fascista” a caratteri metallici alti due metri. Monumentalità pura senza fronzoli retorici secondo le indicazioni di Mussolini stesso, occorreva “far cosa d’oggi, modernissima dunque, e audace, senza malinconici ricordi degli stili decorativi del passato”.
Una capocciata è stata il clou della campagna elettorale del commissariato Municipio di Ostia, un tempo quartiere modello del litorale romano, reso tale da interventi “di razza” dell’architettura del ventennio, basti citare il Palazzo delle Poste, il meraviglioso Stabilimento Roma distrutto dalla guerra, un’isola cupolata sul mare, o il razionalista edificio della Lega Navale, più villini, palazzine, caserme,hotel, pontili su quella che un tempo si era trasformata in una palude malsana. Libera progetta il villino A nel 1932 su incarico della Società Immobiliare Tirrena, una palazzina su tre piani di sei appartamenti con la facciata scavata da una loggia rivolta verso il mare. Anche qui l’alchimista architetto filtra il rigore della simmetria e delle proporzioni auree con la sintassi del Movimento moderno dove gli spazi non residenziali recitano il ruolo di attori principali, vedi i grandi balconi rotondi simili a vassoi o l’alto semicilindro sporgente sul retro del vano scale. Mi diceva un mio illustre prof. di Composizione che la curva in architettura è difficile da coniugare con i volumi retti, bene qui Libera dosa con sapienza squadra e compasso creando una forma lessicale corretta. Diremmo che l’architettura del vuoto è quella autenticamente “classica” a principiare dal tempio, il villino A ma ancor più quello B assai simile, per schema,al primo, giocano sulla dialettica tra pieni e vuoti, luci ed ombre, dove, nel B, la facciata arretra per dare spazio ad ampie terrazze, mentre dai lati del profilo spiccano il volo balconcini simili a pontili sospesi sul vuoto.
Concludiamo, per brevità di spazio, questo volo d’angelo su Adalberto Libera a Roma con essenziali note biografiche più per inquadrarne il percorso che per pedanteria senza senso. Parlando di Alberto Burri ci ripromettevamo di varcare il confine/o del ’45. Dopo la crisi della guerra e la caduta degli dei, attraversando un tunnel nero di isolamento ed emarginazione, riuscì a rimettersi in strada perché era un signor professionista, integro nel suo bagaglio di competenze che lo portava a fare le cose in modo “corretto”, sempre aperto ad accettare nuove sfide ( suo il quartiere orizzontale al Tuscolano e la parte est del Villaggio Olimpico). Nacque asburgico nel 1906 in un paesino piccino, piccino,Villa Lagarina (Trento) con sangue blu nelle vene per via di madre. Ma è a Parma che consegue la maturità classica nel ’25, si iscrive a Matematica per mollarla e correre a Roma dove è stata aperta la prima Facoltà di Architettura. Pur studiando nella Capitale aderisce, non laureato, al Gruppo 7 meneghino fucina del Razionalismo Italiano ( ricordate Terragni?), a lui si deve l’allestimento della prima esposizione di “Architettura Razionale” tenutasi nella Capitale dove però signoreggiavano Marcello Piacentini e Gustavo Giovannoni. Lo dico perché il gruppo degli accademici osteggiò fortemente il M.I.A.R. ( di cui era Segretario Libera) tanto da decretarne la dissolvenza già nel ’31 in occasione della seconda mostra dei razionalisti. Non fu professionalmente poca cosa perché Adalberto, che pur aveva aderito al fascismo, fu emarginato in casa sua, niente incarichi pubblici di rilievo fino al compromesso tra le due correnti (neoclassicista-razionalista) del 1932 con la Mostra della Rivoluzione Fascista a Roma. Gli anni ’30 fino al ’43 lo videro sulla prua dell’architettura del “consenso” macinando il ritorno all’ordine con l’assoluta modernità dei suoi progetti sempre spogli di enfasi. Dalla forma a priori piegata alle esigenze della praxis, passerà nel dopoguerra, alla concezione funzionale che è in attesa della forma esaustiva, dall’idealismo al realismo, dal celamento delle ossa di un corpo di fabbrica evolverà al loro disvelamento, ma tutto sempre partendo, come Matisse, dalla geometria pura. Era talmente avanti nella sua giovanile ricerca che Mies Van der Rohe, uno dei padri nobili del Bauhaus, lo invitò all’Esposizione di Stoccarda del 1927 ed a Mies Libera restò fedele nel progettare architettura.
Emanuele Casalena
Bibliografia
DARC (Direzione Generale per l’Architettura e l’Arte Contemporanee), Adalberto Libera
Maria Luisa Neri, “Dizionario dell’Architettura del XX Secolo”, Ed. Umberto Allemandi & C, Torino,2001
Gabriella Belli, Adalberto Libera: opera completa, Electa, 1989
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