18 Luglio 2024
Arte Scultura

Adolfo Wildt la forma dell’anima – Emanuele Casalena

Aprile 1945 i partigiani assaltano la Casa dei Fasci milanesi, li accoglie il busto bronzeo di Benito Mussolini, unico baluardo alla canea sfascista. Oltre quella maschera da lottatore “a brutto muso” c’è di più, c’è la sfida  di un uomo contro la storia dell’Italia serva, di dolor ostello, proprio il ruolo al quale vogliono restiturla quei partigiani. Lui serra le mascelle, aggrotta le spracciglie, divarica le nari come un drago, sporge le labbra, mostra il mento a prua, schernisce il nemico al pari di una fiera pronta ad aggredire gli avversari interni ed esterni della Patria. Quel Duce in lega tenne duro alle picconate, quei crateri aperti sembravano i tagli di L. Fontana, ma niente ne aveva scalfìta l’autorevolezza, intatta ci appare la vis sposa di quella forma violata, perché, ed un mistero di Wildt, le sue sculture sono vita oltre la figura anzi sono la psyché che imbeve di se la materia.

Adolfo Wildt, busto di Mussolini, bronzo, 1923

«È morto Adolfo Wildt, scompare uno spirito delicato e umanissimo» con questo corsivo un po’ manierista, Mario Sironi commentava su Il Popolo d’Italia la scomparsa dell’artista meneghino  il 12 marzo del 1931 a Milano (broncopolmonite come Sironi). Aveva d’un pelo varcato i 63 anni essendo nato, nella città Ambrosiana, il 10 marzo 1868 ( rif. Enciclopedia Italiana del 1937 ) generato dal papà d’una famiglia di  remota origine svizzera ma trapiantata nella città meneghina da duecento anni. Lui era il primogenito di numerosa prole, saranno in tutto sei i figli della coppia Wildt, il babbo faceva da guardiano a Palazzo Marino, ci sovviene l’impiego di Luca Cupiello nel Natale scritto da Edoardo De Filippo, teneva ‘a chiave d’ô portone, era un uomo di fiducia,  ma di soldi assai pochi, tanto che Adolfo, finita la III elementare,  fu messo a bottega da un barbiere (come Lorenzo Viani), il picinin c’aveva solo nove anni. Dallo scopare capelli e peli di barbe, passò a un laboratorio orafo, osservava quel lavoro sulla cera, la modellazione, i processi di fusione. Per sua fortuna approdò allo studio d’uno scultore scapigliato Giuseppe Grandi, amico di T. Cremona e D. Ranzoni, celebre  per il monumento alle Cinque giornate di Milano e quello a Cesare Beccaria, lì ci rimase per circa due anni. A tredici è presso un altro antiaccademico Federico Gaetano Villa dal quale apprese l’arte di levare cioè scalpellare il marmo.

Frequentò la Scuola superiore d’arte applicata di Brera, a seguire il Corso di Disegno e Figura della prestigiosa Accademia fino al 1886, distinguendosi per l’eccezionale competenza tecnica nella  scolpitura che gli schiuse le porte del circuito artistico milanese nonché l’ammirazione d’ un Rockerduck prussiano, tal Franz Rose, collezionista d’arte, mecenate e amico, col quale firmerà, nel 1894, un contratto protrattosi per 18 anni fino alla morte del suo datore di lavoro (1912). Quello stipendio fisso rappresentò la serenità economica visto che l’Adolfo, nel ’91 aveva compiuto il gran passo di  metter su famiglia sposando Dina Borghi, che gli darà tre figli, Artemia, Francesco e Alma. Donna assai bella da lui ritratta nel ’92 per il busto in marmo“La Vedova” esposto alla Società d’Arte Moderna di Roma nel ’94 con il consenso della critica destando l’ammirazione appunto di Franz Rose che lo volle come artista ad personam

La miscela di Wildt, in quel frangente, era già un’elaborazione personale di vari ingredienti partendo da Michelangelo, per tecnica più tormento, passando per il simbolismo di Renato Bistolfi intriso d’inquietudine esistenziale più il luminismo di Medardo Rosso termine di riferimento dell’arte plastica scapigliata.

Adolfo Wildt, La Vedova, busto in marmo, 1892
A. Wildt, ritratto di Franz Rose

Franz Rose gli tolse le spine di Milano (poche mostre, critiche malevole) proiettandolo sul palcoscenico europeo, soprattutto quello germanico, espose infatti  a Monaco di Baviera, Zurigo, Berlino, Dresda con applausi scroscianti, ottenendo commesse in “quantità industriale” per il suo laboratorio di Corso Garibaldi, 97 a Milano. Ammirava Rodin, si legò in amicizia col pittore, incisore svizzero Albert Welti allievo di Arnold Blöklin (quello delle Isole dei morti), amico di Hermann Hesse, fortemente influenzato, nella su opera, dai miti nibelungici e dal sublime della natura. Forse la gran mole di lavoro, ma soprattutto la modalità di scultura richiesta,  lo spinsero nella caverna della depressione. Fu crisi artistica profonda, la perfezione classicista della forma non era più nelle sue corde, bisognava tentare la “scolpitura” dell’anima, togliere la materia che la soffocava, ogni sovrastruttura, aprire il bozzolo della crisalide, sgomberare le macerie  e liberare finalmente la farfalla affidandole gli arnesi per formare se stessa. Nelle sue vene d’artista adesso scorre il sangue  della Secession viennese di G. Klimt, un altro ingrediente del suo personalissimo stile di artista. Il dolore arcaico, l’angoscia della precarietà esistenziale costretta nelle maschere del viver quotidiano, il giudizio in gabbia della sua stessa arte, producono il crack. L’essenza della crisi diventa plastica dell’angoscia, Wildt approda al porto nordico dell’ espressionismo, un suo espressionismo testimoniato con la Maschera del dolore (un autoritratto) del 1909 o Vir temporis acti del 1911 solo per citare due sue opere sulla poetica del dolore.

Sono gli spasmi d’uno spirito inquieto il soggetto che contorce il marmo dei volti, apre alle smorfie della bocca aperta respiro dell’anima, cava gli occhi piegandone le palpebre o serrandole perché l’esterno non entri, gli zigomi sono cigli sporgenti sull’ombra di gote scavate, c’è una sofferenza terminale che non può vedere fuori, non gli interessa, ma preme da dentro come un fuoco. Una lezione di anti-impressionismo, una strada assai diversa dal luminismo naturalista  anche di Medardo Rosso, una via tragica percorsa con in pugno lo scalpello.

Ha un senso quel dolore? Non è una prova redentrice dell’anima, un’abluzione nell’acqua bollente purificatrice del male a fidejussione d’ una futura palma di vittoria. Il dolore non ha giustificazione, attenuanti, eppure esso è il nocciolo duro dell’esistenza, non ha un senso, semplicemente è la cifra dell’esserci. Questa formulazione di Schopenhauer si cuce con l’altra di Pirandello, grande estimatore dello scultore com’anche D’Annunzio, proprio sul tema delle maschere. Parrebbe il dramma della polverizzazione dell’io di quel Uno, nessuno, centomila dove è impossibile conoscere persino se stesso, ma Wildt vuole recuperarlo quell’ego fissandolo in una forma, unica modalità per eternarlo, certo non assoluta, ma quella temporale dell’hic et nunc, domani lo spirito ne assumerà un’altra, l’essere attraverserà nuovi stadi di vita, l’arte però può compiere il miracolo di  cancellare quel nessuno storicizzando l’io pellegrino.

A.Wildt, Maschera del dolore, 1909
A. Wildt, busto del Vir temporis acti, versione del 1914

La depressione si sfalda, la nuova strada intrapresa parte dalla morte di Franz Rose e guarda caso dell’amico Welti entrambi se ne vanno nel ‘12, occorre, fra l’altro rimboccarsi le maniche perché lo stipendio di £ 4.000 l’anno sfuma.

L’anno seguente gli viene conferito il Premio Principe Umberto per il progetto della fontana La Trilogia, oggi nascosta in una nicchia nel parco della villa Reale ( Belgiojoso Bonaparte ) in via Palestro a Milano. Opera assai travagliata, partorita già nel 1902 per ornare un padiglione del parco del castello di Dölhau di Franz Rose. Quella prima versione, I beventi, venne distrutta dallo scultore stesso sopraffatto dalle critiche sferzanti ricevute all’Expo milanese del 1906, proprio questo fatto, dicono, fu il virus che ingenerò la crisi depressiva dell’autore. Il gruppo che ammiriamo oggi è del MCMX (1910) com’è inciso sulla targa con dedica PER-ROSE-DOEHLAV, titolo:” IL SANTO-IL GIOVANE-LA SAGGEZZA.

Il lavoro sul blocco di marmo da Candoglia ebbe inizio nel 1908, “Da due blocchi di marmo da 290 quintali, incominciai a trarre la mia Trilogia. Per la verità vi dirò che nessuno scultore al mondo osò mai affrontare 290 quintali di marmo”. L’opera fu definitivamente ultimata nel 1912 anno del decesso del suo mecenate che l’aveva già acquistata.. Esposta alla Triennale di Brera ottenne il Premio Principe Umberto con un solo voto contrario, finalmente un riconoscimento dalla sua Milano.

Il gruppo è composto da  tre figure simboliche accanto ad una sorgente d’acqua, a sinistra il Santo scheletrico, emaciato con i palmi delle mani aperte coglie l’acqua che sgorga volgendosi verso il giovane inginocchiato che torce il busto sotto lo scroscio della fontana aprendo la bocca per dissetarsi, vicino a lui, indifferente agli altri, un uomo più anziano, simile a un fauno, in posizione chiasmica, con un corpo ellenistico, calmo, sereno sorseggia la sua acqua.

Quest’opera Mario Sironi suggeriva di osservarla attentamente per “capire e ammirare tutta la nobiltà di questo artista, la sua forza tumultuosa, la sua passione avida e fanatica, e insieme tutta la complessa raffinatezza plastica, innamorata della classicità e spinta ad emularla, ripetendone con ardore inesausto le preziosità consunte, gli splendori delle patine sulla materia trasfigurata, le crudeli e incisive fermezze dei cavi, contrapposte alle gonfie e galvanizzate turgidezze dei pieni”.

Adolfo Wildt, fontana della Trilogia, 1912

L’acqua del Santo rimanda al pozzo della Samaritana dei Vangeli, quella per il giovane è forza vitale, gioia, energia, se la lascia scrosciare su tutto il corpo, per l’anziano è simbolo di vita equilibrata ( la stesa postura lo dice) priva di eccessi, stadio della saggezza.

La guerra taglia il lavoro, le commesse svaniscono in una Milano che lo amava e lo odiava al contempo, Adolfo si volge allora all’illustrazione grafica  usando soprattutto  la tecnica incisoria. Dal 1918 nasce un nuovo Wildt, depurato dai tormenti espressionisti, la sua scultura si fa ascetica, ieratica come nella Madre adottiva opera tecnicamente perfetta ma algida, impersonale.

A 51 anni arriva a sua prima personale, siamo alla Galleria di Lino Pesaro, il successo è arrivato ora, Wildt può contare sull’appoggio della critica da Raffaello Giolli a Vittorio Pica alla Vergine rossa Margherita Sarfatti cavalcando l’onda del “ritorno all’ordine”e uscendo dalla tirannia della povertà. Segue un triennio di esposizioni itineranti per l’Italia fino al 1922 anno di nascita del gruppo Novecento, lui non è né tra i sette fondatori né tra gli espositori, ma aderisce alle tematiche della ricerca di una via nazionale all’arte sintesi di tradizione ed avanguardie. Nel frattempo aveva messo su una scuola del marmo che contava tra gli allievi Lucio Fontana, erano corsi serali poi assorbiti didatticamente dall’Accademia di Brera. Dalla capacità unica di torcere le membra fino a strizzarne fuori l’anima ( osservazione di U. Ojetti ), lo scultore evolve verso una serenità arcaica, purificata dal dinamismo barocco della materia per recuperare l’idea nella sua purezza, operazione non priva di rischi d’anoressia plastica proprio per la neutralità dei soggetti, pensiamo alla Concezione del 1921 dal chiaro sapore nordico, lirismo lucido della Vergine, mani congiunte in modo da simulare la vagina con davanti il Bimbo dorato ( è nato un Re)  novello Apollo dell’umanità come testimoniano i raggi solari che sprigionano dal capo, le mani vanno sugli occhi, congiunto alla testa materna Giuseppe sembra proferire dalla bocca aperta un verso di stupore. E’ la famiglia come tema, stupore dinanzi al miracolo della vita, quell’Ohhh è di Giuseppe o dell’Alto Fattore?

Adolfo Wildt, Concezione, 1921
Adolfo Wildt, L’orecchio, 1922

L’orecchio fu un “oggetto” fortunato, negli anni ’30 Wildt  ne realizzò una copia in bronzo,  serviva da citofono di un palazzo di via Serbelloni, 10 accompagnato ancor’oggi da una leggenda metropolitana, se si bisbiglia un desiderio nel suo padiglione questo si avvera.

Il male di esistere, negli anni ’20 è un ricordo dell’io fissato nei marmi, ora  si indaga sulla vita, la sua epifania, i temi sono la maternità mediata da  Maria o il mistero dell’unità con Dio investigato nel S. Francesco, un’opera del 1925 che conobbe diverse versioni ma tutte distanti dall’iconografia classica cattolica. Il santo è un’emaciata scultura gotica medioevale, levigata fino alla trasparenza, priva, volutamente, di ogni superfluo, pura essenza di una spiritualità che traspare dall’esile corpo che la contiene e la trasmette. Un’interpretazione del Santo che fu aspramente giudicata anche dai critici vicini all’artista. “«Chi potrebbe genuflettersi davanti a questo San Francesco del grande e buon Wildt, con un barbiglio da pecorella, cogli occhi da bimbo tardivo e stupefatto?” scriverà Ugo Ojetti in occasione della Mostra d’Arte Sacra tenutasi a Roma nel ’34.

Comunque la perizia tecnica di Adolfo coniugata con amicizie importanti meneghine come Ugo Bernasconi, Gaetano Previati; Giovanni Scheiwiller che diverrà suo genero (sposò Artemisia), l’industriale Giuseppe Chierichetti, suo committente e mediatore per il Monumento alla Vittoria ad Appiano Gentile ed un altro a Valduggia, gli spalancarono le porte di commesse ufficiali importanti soprattutto nella ritrattistica. E’ presente alla XII Biennale di Venezia con 50 opere (!) ricevendo il premio della città per La famiglia ma anche la velenosa stroncatura di A. Soffici, come dire che il rapporto con la critica d’arte resta conflittuale tra elogi e bocciature. Arrivano i ritratti di Re Vittorio Emanuele III ( forse assai ironico ), di Arturo Toscanini che lo avvertiva come una presenza ingombrante tanto da donarlo alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, poi di Papa Pio XI censurato da C. E. Oppo con un “ che Dio ci perdoni” fino ai bronzi raffiguranti il Duce compresa quella maschera in marmo commissionatagli da M. Sarfatti nel 1923. Peccati mortali che lo condannarono all’oblio anche per il presunto simbolismo delle sue composizioni non allineate alla scultura moderna ad es. di Arturo Martini o al neoclassicismo sponsorizzato a M. Piacentini.

Le cose non ci paiono proprio così, questione di stile, unico il suo, Wildt fu un altro esploratore orfico dell’uomo dall’io che urla il dolore, alla sacralità degli affetti, toccando le corde dell’eroismo e della lotta atavica dell’uomo per darsi un passo più veloce della morte, niente delle elitarie, rarefatte, malinconiche atmosfere del simbolismo borghese.

 

Adolfo Wildt, Monumento Körner, 1929

Emanuele Casalena

Bibliografia
Cataloghi mostre:

“Wildt, l’anima e la forma da Michelangelo a Klimt”Musei di San Domenico, Forlì, 28 gennaio 2012 – 24 giugno 2012

Adolfo Wildt (1868-1931). L’ultimo simbolista”Galleria d’arte moderna di Milano, 27 novembre 2015 – 14 febbraio 2016.

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