Il campanile, slanciato e sottile, della chiesa al centro del paese mi serve come barra di orientamento. Un pretesto, in fondo. Quando mi inoltro nel bosco per sentieri di cui ignoro percorrenza e fine.
Forse sono simili a quelli di cui parla il filosofo Martin Heidegger, sentieri che vanno disperdendosi e non conducono alla radura, là dove la luce penetra e irradia il terreno. E, forse, non conducono ad alcuna cima – io, simile all’auriga del mito platonico, non vi sono mai arrivato. Il fiato resosi corto il sudore a ruscellare lungo la schiena le gambe impietrite sono ostacolo più tenace della fiacca volontà. In tante cose della mia vita, del resto. Inattuale, purtroppo, senza l’ardire d’essere contro come ammoniva Nietzsche.
Sovente seguo la dorsale del monte, alberi prati un ruscello e brevi tratti di pietraia e, infine, nuclei di case il bar per il cappuccino la statale asfaltata e, ancora, il paese una sosta al supermercato (amo il salame all’aglio e il Morlacco, formaggio cremoso e puzzolente) la panchina all’ombra del monumento ai caduti. Dopo la prima estate e le ulteriori presenze, qualcuno mi fa un cenno di saluto. I capelli lunghi e la barba, ormai quasi bianchi, mi rendono stravagante e riconoscibile. Per tutti sono ‘l’amico della francese’, di quell’Emilienne che, qui, suo paese d’origine, è rimasta l’Emilia, la bambina emigrata oltre le Alpi – destino comune a molti di queste zone perse tra Belluno e Feltre, ove la miseria le spopolava e, prima, che il turismo le trasformasse in luoghi accoglienti.
Emilia è venuta a Roma, dopo l’incidente in cui Leda è rimasta vittima, a novembre, 1990. Ha dormito da noi. Ha con sè la gabbietta del gatto per portarsi in montagna il persiano, un micetto di pochi mesi, regalo di Luciano, che Claudio non è in grado di accudire dopo la morte della madre. Certo io, con la fobia che mi perseguita fin da ragazzino (il gatto della vicina venne a morire in un cespuglio d’edera nel giardino della nostra casa in Romagna ed io assistetti al recupero del corpo, ormai andato in putrefazione. Giornata torrida d’agosto), dentro casa non posso tenerlo. E’ il suo il segno di un affetto sincero e profondo, di una sorta di spontaneo dovere verso la storia che s’è intrecciata fra lei e Albert e Stefano e Leda. Francia Italia Spagna Sud America. Io vi sono entrato solo di riflesso.
Mentre risalgo verso la baita di Emilia, in tarda mattina, una salita erta e faticosa, mi fermo a riprendere fiato al cancello di una delle ultime case. Mi intrattengo con la proprietaria. Mi chiede se anch’io sono uno scrittore come lo era Jean-Paul. Ho un attimo di perplessità. Mi riprendo; afferro il senso. Albert aveva certo adottato un nome di comodo. La sera, poi, ci scherziamo sopra con Emilia mentre mi prepara la minestra d’aglio, ‘quella buona’ come la definiva lo stesso Albert.
E mi racconta come, sovente, prendesse la corriera fino a Belluno per sedersi ad un tavolino sul marciapiede di uno dei caffè, il Deon o il Texas con la terrazza da cui si ammira la vallata del Piave, che si protendono dai portici in piazza Campedel, dal 3 giugno 1945 battezzata dei Martiri. Intitolata, va da sè, a quattro partigiani impiccati il 17 marzo ai lampioni e lasciati appesi a monito. Davanti ai giardinetti oasi di verde, che durante le festività natalizie si trasforma in mercatino di baracche in legno piene di dolciumi e regali colorati. A leggere e annotare e pensieri e immagini per qualche futuro libro che non farà in tempo a scrivere. Forse del tutto simile – e, chissà, anche al medesimo tavolino – dello scrittore Dino Buzzati.
Perché, siamo nel 1989, l’ultima prova lo vede sconfitto. Definitivamente. Il tumore ai polmoni, contratto già in Indocina, a respirare gas tossici nella guerra perduta, se lo porta via, dopo averlo ridotto pelle e ossa. Né onore né gloria. Lì come in terra di Africa. Un compagno, silenzioso e crudele, fedele. E tu che vivi lotti sogni ti sforzi ora qua ora di là, punti il fucile verso il nemico, quel generale De Gaulle che s’è venduto la pace in Algeria e, con l’indipendenza, la sorte dei ‘pieds noirs’, durante una visita a Hyéres, tuo paese natale. E’ la stagione dell’O.A.S., con i quattro generali in aperta rivolta e le bombe e gli attentati il senso del dovere la parola data e rinnegata. Jean Bastien-Thiry, un giovane ufficiale di nobile origine, viene fucilato come traditore per aver tentato di uccidere il Generale ‘traditore’ (ricordo la manifestazione a Roma di solidarietà di noi giovani che si credeva nell’Europa e nella sua presenza portatrice di civiltà nel Continente Nero. Gualtiero Jacopetti registrava il documentario Africa, addio, prima che Pontecorvo girasse La battaglia di Algeri). Grande era la confusione sotto il cielo, avrebbe detto Mao, ormai fattosi vuoto dopo la morte di Dio, come aveva annunciato Nietzsche. Troppe le battaglie, e tutte perse, con l’unica soddisfazione – non da poco – di essere sempre rimasti da soli e coerenti dalla parte del torto e mai della ragione (rovesciando l’assunto dei ben pensanti che si ritengono gli unici detentori del vero). Anche così, ostinati a non accomodarsi, ma partecipi alla trasmutazione dei valori…
E Albert, con i tratti marcati del volto – prima di trasformarlo in più delicato e meno riconoscibile –, sempre con l’ironia nello sguardo e nel tono della voce e nel gesto tipico dell’uomo mediterraneo, a ben incarnare quello ‘spirito anticonformista per eccellenza, antiborghese sempre, irriverente per vocazione’, di cui Robert Brasillach aveva colto l’essenza dello spirito fascista. Esempio di quell’anarchismo fascista a me tanto caro e tanto difficile da esprimere.
(Mi rimangono di lui un paio di guantoni da boxe, regalo di un pugile esordiente al suo primo trofeo conquistato, e fattomi dono; la foto in piazza San Marco mentre è circondato da piccioni lesti a beccare il mangime dalle sue mani; immagini e ricordi e racconti di cui ognuno fa riserva in sé e che, appunto, sono confinati nel cuore nella mente. C’è poi Emilia. Innata l’eleganza e la determinazione.
La sua baita raffinata e unica, i mobili semplici e al posto giusto, con gli scaffali pieni di libri in francese, che hanno accompagnato il trascorrere delle ore notturne con la lampada accesa e la finestra aperta su cime di alberi ondeggianti al vento, mentre un ghiro impertinente con i suoi grandi occhi neri mi osserva dall’armadio. Qui è nato ed ho composto gran parte di Strade d’Europa). A metà dell’anno
(Su sua richiesta, la casa editrice francese, che gli pubblicava i libri, aveva cura di non stampare in Italia alcuna sua traduzione – un modo per proteggere Emilia e se stesso non soltanto da invadente pubblicità, ma inopportuna per un uomo, condannato a vita in eterna fuga).
Postfazione di Staiti, A’ un vrai ami, ed ora anche Tomaso se n’è andato. Ci tocca. E non consola ricordarci le parole del principe di Salina ne Il Gattopardo, un tempo per i leoni un tempo per gli sciacalletti… Entrambi, Albert e Tomaso, classe 1932, sotto il medesimo segno del Sagittario. Entrambi soldati dell’avventura, Don Chisciotte e, io aggiungo, prossimi al signor di Bergerac. I lettori, che non hanno avuto la fortuna di conoscere entrambi, o l’uno o l’altro, si troveranno in una atmosfera incalzante fatta di linguaggio onirico e spavaldo. Non è certo la stessa cosa del linguaggio diretto del corpo, ma Albert ci rende vivo un se stesso autentico. E fidatevi: carne ossa e sangue non tradiscono mai, basta essere fedeli con le parole alle emozioni ai sentimenti…
Così Albert ed Emilia si fanno prossimi, l’uno attraverso i suoi libri, l’altra nel silenzio di una esistenza spesa bene al suo fianco.
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